Nello scorso secolo, più precisamente per tutta la sua prima metà, al paesello, la composizione classica dei nuclei famigliari era di otto unità, ossia marito, moglie e sei figli. In taluni casi, si arrivava a nove dieci membri e, eccezionalmente, finanche oltre; rari, invece, i focolari meno affollati. In linea con la tendenza generale, sei figli, fra maschi e femmine, avevano procreato pure i miei nonni materni. Intorno al 1947, ben tre degli zii, zia R., zia V. e zio T. erano impegnati con i rispettivi “ziti” e “zita”. All’epoca, l’accezione fidanzato/fidanzata era pressoché sconosciuta, comunque non usata, si usava dire, giustappunto, “tenere u zitu” e “tenere a zita”. L’espressione “fare l’amore” si traduceva in un concetto, o realtà, rigorosamente ideale, solo per immaginazione. Nessun contatto, ragazzi e ragazze, giovanotti e signorine, ancorché promessi o promesse, tra loro si parlavano appena, scambiando parole misurate e contenute, mentre effusioni, carezze, affettuosità anche innocenti erano enumerate unicamente nei sogni, nelle speranze e attese.
Tuttavia, “tenere u zitu” (o “tenere a zita”) non voleva dire acqua fresca, contava eccome, c’era in gioco il buon rapporto tra famiglie e rispettive parentele allargate: in genere, i boccioli spuntati all’inizio del legame andavano crescendo, trasformandosi pian piano in rigogliosi cespugli fioriti, che esplodevano con letterale, autentico lancio e spargimento dei petali all’atto del matrimonio.
Cosicché, quando accadevano intoppi, ostacoli, interruzioni o esiti in controtendenza, potevano instaurarsi risentimenti, problemi, si arrivava talvolta a guastare amicizie e buoni rapporti, non ci si parlava più, almeno per un certo tempo, fra le parentele dei mancati sposi.
In tale ambiente e dentro siffatta cornice generale, successe, purtroppo, che, in breve volgere di tempo, gli anzi richiamati tre zii “si lasciarono” e le relative notizie, ovviamente, si diffusero immediatamente nella piccola località. Fu soprattutto la rottura di zio T. con la sua zita (nome di battesimo P.) a produrre gli effetti maggiormente sonori, intrisi di vibrate reazioni non solo dialettiche, prese di posizione forti e, pur nei confini di determinati limiti, addirittura plateali.
In particolare la sorella grande della mancata nuova zia, già maritata e quindi in certo qual modo autorevole, si portò più volte, trafelata e accesa, all’indirizzo dell’abitazione dei miei nonni materni, con un rosario di parole infuocate, minacce e malauguri nei confronti dello zio T., reo di aver mandato all’aria il legame.
Fortunatamente, le zie R. e V. si affrancarono da rispettivi ziti, N. e A., senza strascichi né reazioni accentuate. Vie più fortunatamente, il caso volle che, smaltiti i postumi non tranquilli dei precedenti legami, l’ex zita di zio T. e l’ex zito di zia R. si trovassero e scambiare fra loro occhiate d’intesa e d’interesse, ponendo in tal modo le premesse per una vita di coppia, si sposassero e mettessero su una serena famiglia.
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Ovviamente, completamente diverso è stato lo scenario intorno all’argomento nella seconda metà del 1900 e ancora più differente si pone al presente. A onor del vero, si registra tuttora un’analogia rispetto al lontano 1947, nel senso che non si parla di fidanzati o fidanzate, bensì di amici, amiche, compagni, compagne, ragazzi, ragazze e altri termini vari.
Particolare conclusivo, che trovo carino, capita di sentire, specialmente a Roma, per opera di qualche donna con trascorsi sentimentali naufragati e/o relazioni complicate, lo sfogo o confidenza o simpatica dichiarazione di stato civile, “sono sfidanzata”. Appena una S in aggiunta, ma, appare chiaro, tanti significati intrinseci, sottintesi e palesi. (Rocco Boccadamo)