Problemi e pratiche pedagogiche della scuola attuale
Violenza scolastica
di Gianluca Virgilio
Da qualche anno in qua il Ministero della Pubblica Istruzione ha richiamato l’attenzione di dirigenti, professori, genitori e studenti sul bullismo e il vandalismo. La violenza dei ragazzi, difatti, sempre più frequentemente si scatena, riversandosi sui compagni di scuola, sui docenti e sugli ambienti e arredi scolastici. Muri imbrattati, sedie spezzate, banchi incisi con coltellini e penne bic fanno da contorno alla vita scolastica. Gli ambienti del lavoro scolastico, già di per sé privi di ogni confort, poiché vi è presente solo l’essenziale per poter trascorrere seduti in un banco cinque-sei ore al giorno, in locali asettici e che nessuno potrebbe considerare con qualche affezione, diventano invivibili a causa dei sempre più frequenti raid notturni di studenti disamorati, che mettono a soqquadro le aule della loro reclusione giornaliera, dando sfogo ad un malessere che con ogni evidenza è nato proprio nei luoghi su cui si sfoga la loro aggressività.
Il mio convincimento è che bullismo e vandalismo siano pratiche violente da considerare non immediatamente come fenomeni di generico degrado sociale, ma dentro il quadro più vasto della violenza scolastica perpetrata a livello istituzionale; e che pertanto debbano essere sì perseguiti con i normali strumenti repressivi dello Stato, laddove si configurino ipotesi di reato, ma tenendo sempre ben presente che questa repressione è di per sé insufficiente a risolvere una volta per tutte il problema. La soluzione, infatti, non può che passare attraverso un radicale rinnovamento culturale della scuola, che metta a frutto una critica severa dell’attuale assetto dell’Istruzione, fondato sul nozionismo ovvero sulla cultura intesa come possesso. Né vale chiamare – come sempre più spesso avviene oggi nelle scuole – poliziotti e carabinieri perché tengano lezione di legalità agli studenti. Con ciò in realtà si sancisce – dico con la semplice presenza nelle aule scolastiche di poliziotti e carabinieri -, il fallimento della funzione educativa della scuola tradizionalmente assegnata agli insegnanti. Difatti, che cosa può insegnare un militare delle Forze Armate o un agente dei corpi di Polizia dello Stato che l’insegnante non riesca ad insegnare allo studente durate il ciclo di studi curricolare?
Tutta questa violenza non ha cause extrascolastiche, ma è intrinseca alla concezione culturale che domina nella scuola e nella società; dico la società, poiché la frase fatta “la scuola è lo specchio della società” è a mio avviso una verità inoppugnabile: la scuola riflette pienamente la società, cioè il luogo dove gli uomini elaborano la propria cultura e decidono da chi e con quali modalità essa debba essere trasmessa ai giovani, e secondo quali scansioni (i programmi ministeriali).
Il bullismo, il vandalismo e la violenza scolastica in generale nascono per una reazione violenta cieca e irrazionale del ragazzo alla paura di essere inadeguato rispetto a ciò che la scuola gli chiede, dalla sua incapacità di assolvere al compito assegnatogli, dal rifiuto di assolverlo; essi producono atti infantili, cioè privi di parola, di sovversione ai danni dell’ordine scolastico, e sono segnali che il ragazzo non chiede più aiuto, non si sottomette più, non fa neppure resistenza, ma si fa “giustizia” da sé, vendicandosi della violenza subita, e riproducendo, fuori dagli schemi preordinati, quella violenza che il mondo degli adulti e la scuola stessa gli hanno insegnato nei primi anni di vita. Per capire bene queste dinamiche, si legga Daniel Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2008, in particolare le pp. 27 e segg., in cui si parla di quanto provava l’autore da giovane: “un bisogno di vendetta prossimo all’ossessione” e il “fascino della banda” come reazione alla “sensazione di estraneità assoluta all’universo scolastico” che lo ha indotto a vestire i panni del “vendicatore solitario”.
Nel migliore dei casi, quando cioè l’espressività giovanile ancora usa la parola, dipingendo di frasi d’amore o d’altro i muri della scuola, l’Istituzione adulta non sa far di meglio che incaricare un’impresa di pulizia della rimozione di quanto è stato scritto, dimostrando in tal modo la più completa incomprensione di che cosa significhi usare la parola al di fuori di ogni logica utilitaristica. Scrive in proposito Angelo Semeraro: “Dovremmo… occuparci maggiormente di ciò che avviene nella mente bambina e adolescente, ponendo attenzione ai loro messaggi grafici, ai segni, (occhio ai murales e alle scritte dei vespasiani: è lì che depositano ciò che sentono) che sono elaborazioni narrative, materiali grezzi su cui è possibile lavorare e crescere…”( Angelo Semeraro, Calipso, la nasconditrice, Manni, San Cesario di Lecce, 2003, p. 197).
Ottima raccomandazione, indubbiamente, che nasce dalla constatazione amara di una carenza della cultura scolastica corrente. Questa, difatti, impedendo la libera espressione dei writers, dimostra di non capirne il significato di protesta e di rivolta silenziosa, richiesta di ascolto indirizzata al mondo degli adulti e non chiusura nichilistica rispetto ad esso
La concezione dell’educazione fondata sull’utile ha dato i suoi frutti: paura, violenza, incapacità di socializzare, incapacità da parte degli insegnanti di comprendere. Lo si vede bene in quelle classi – e sono sempre più numerose – difficili da gestire, nelle quali si è soliti invocare il pugno di ferro (oggi il cinque in condotta). E siccome paura genera paura, il pugno di ferro della scuola genera una serie di bocciature, a volte ingiuste, a cui la magistratura pone rimedio con sentenze che bocciano le bocciature degli insegnanti. E’ la via giudiziaria alla promozione, come esito ultimo del fallimento della scuola. I dirigenti scolastici e i professori ogni estate vivono nel terrore dei ricorsi e questo scatena in loro una duplice reazione: da una parte, una sorta di disimpegno, che li induce in sede di scrutinio finale a favorire la promozione di molti immeritevoli, riducendo così al minimo le possibilità di avere un gran numero di ricorsi; dall’altra, un formalismo burocratico che rende sempre più asfittica la vita della scuola. Due reazioni spesso concomitanti, che si esprimono secondo diverse gradazioni ed hanno esiti diversi. Infatti, il disimpegno, facilitando la vita scolastica di molti studenti immeritevoli, toglie agli altri ogni incentivo allo studio; il formalismo burocratico, d’altra parte, fondato com’è sulla paura dell’errore formale con cui la scuola presta il fianco al ricorso giudiziario, incrementa la sorveglianza interna sul rispetto delle procedure.
La scuola dell’autonomia, nata per un’esigenza di svincolarsi dalle pastoie del centralismo burocratico, diventa così un sistema chiuso ed autoreferenziale, che si immagina tanto più inattaccabile quanto più ciascun componente si uniforma allo standard funzionale imposto dal sistema medesimo, in un tentativo estremo, disperato e vano, di attuare una difesa collettiva dal pericolo del ricorso, che rappresenta sempre l’atto supremo di delegittimazione dell’operato scolastico, poiché sottintende la fine di ogni fiducia nella positività del rapporto pedagogico.
La scuola si arrocca, dunque, in una difesa formalistica, e determina così dei condizionamenti sostanziali di tutte le fasi del suo stesso lavoro: si consideri, per fare qualche esempio, la pratica del libro di testo disciplinare unico per tutte le classi di una medesima scuola – una pratica totalitaria, perché impedisce al singolo docente di scegliere il libro di testo, dando ai genitori il contentino di acquistare a buon prezzo il libro usato -, delle griglie di valutazione con medesimi parametrici di giudizio standardizzati per tutte le classi, dei programmi uniformi per tutte le classi di uno stesso istituto; e che dire degli stessi consigli di classe e in genere di tutte le riunioni collegiali che divengono una messa in scena preparata ad arte secondo un copione consistente in un modello prestampato da riempire al computer, e niente più.
Come si vede, la legge sull’autonomia scolastica, lungi dall’incrementare le pratiche democratiche all’interno della comunità scolastica, ha semplicemente spostato il livello di burocratizzazione dal centro alla periferia, attivando un controllo sistematico dei comportamenti e dell’azione educativa. Infatti, la parola d’ordine della burocrazia scolastica è uniformare, omologare, abolire la differenza, che, quando fa capolino nella scuola, è intesa come spirito originale gratuito individualistico non richiesto e contrario al sistema. Viene instillata nel corpo docente la paura di non essere in grado di fronteggiare adeguatamente ogni possibilità di errore nella gestione del proprio ruolo, di essere sempre sul punto di infrangere qualche regola dall’alto valore formale e, dunque, sostanziale – infrazione che comprometterebbe ogni azione educativa nei confronti dell’allievo -; e che sia possibile sfuggire a questa iattura solo mimetizzandosi all’interno della scuola, sposando in pieno e senza alcun residuo critico l’omologazione agli standard di insegnamento. Il docente-tipo, dunque, tutto impegnato nel difendersi da questo formalismo burocratico, molto più spesso teso ad integrarsi, a mimetizzarsi, persa di vista la propria libertà d’insegnamento, impedita da tutta una serie di pratiche omologanti, ridotto il suo rapporto con lo studente a una prassi formalistica, perduta definitivamente l’anima, finisce con lo scaricare le proprie ansie sul povero studente incapace di comprendere il perché di un modus operandi che si dichiara garantista, ma finisce col negare all’allievo un sano immediato franco rapporto con l’insegnante che dovrebbe facilitargli l’accesso a quel diritto sancito dalla nostra Costituzione, che è il diritto allo studio.
La scuola diventa, allora, come un cane che si morde la coda, incapace di educare e finanche di far crescere in maniera adeguata gli studenti che le sono affidati, i quali rifuggono per natura da ogni costrizione e da ogni formalismo. In realtà, già Agostino tanti secoli fa sapeva che “ha maggiore efficacia, nell’apprendere, una curiosità volontaria che non una costrizione intimidatoria” (Confessiones, I, XIV), cui egli stesso veniva sottoposto non perché fosse tardo nello studio, ma perché “mi piaceva, mi piaceva giocare”, dice Agostino. Il risultato sarà, com’è noto, quel caso di vandalismo giovanile che Agostino racconterà nel celebre episodio dell’albero di pere interamente spogliato dei suoi frutti (Confessiones, II, iv) per il puro piacere di fare il male. Come volevasi dimostrare!
Agostino aveva sperimentato sulla propria pelle quanto noi moderni spesso dimentichiamo, e cioè che non c’è apprendimento possibile se non si suscita la curiosità del sapere attraverso il confronto paritario, ovvero fondato su un’aperta fiducia nella possibilità di trasmissione – il che vuol dire anche e sempre creazione – del sapere. Quale fiducia invero lo studente potrà riporre in un professore che agita lo spauracchio della bocciatura in un foglio pieno di crocette chiamato griglia di valutazione, mentre il professore dovrebbe fare ogni sforzo per salvaguardare lo studente, che rischia davvero di essere l’unico a rimetterci qualcosa di importante in tutto questo bailàmme?
[L’articolo è un estratto da Gianluca Virgilio L’età dell’apprendimento e dello studio, Edit Santoro, Galatina, 2008, pubblicazione curata dalla Direzione Didattica Statale 1° Circolo di Galatina nella persona della Dirigente Scolastica Dott.ssa Anna Antonica, che si ringrazia per la gentile concessione.]