A Nardò e non solo…
Quante sofferenze nell’umile vita d’un tempo
Nonostante tutto si coglievano sorrisi abbozzati e una rassegnata accettazione
di Emilio Rubino
Dite la verità, gentili lettori, avete senz’altro pensato, durante questo prolungato periodo di assenza, che me ne fossi andato per sempre e invece no, sono ritornato più forte che mai ad allietarvi o rattristarvi con storielle vissute dalla gente salentina, gente dimenticata, gente che, pur tra tante ristrettezze e languori di stomaco, sapeva affrontare la vita con dignità e con la speranza di poter migliorare la loro vita fatta di numerosi stenti e di forzate rinunce.
Riprendo a raccontarvi le solite storielle e “cunti” da voi sempre graditi ed attesi.
In ogni ambito della vita di queste povere genti vi era sempre una “gioiosa tristezza”, che non smetteva mai di interessarle. Dico “gioiosa”, perché non mancavano mai i sorrisi, nonostante le tante lacrime, soprattutto interiori.
Seguitemi con doverosa attenzione, perché sto per farvi sbarcare in un mondo che al 100% è scomparso. Sto per parlarvi di cosa si dovevano inventare le donne in cucina per tacitare i mugugni dello stomaco dei più piccini e l’insaziabile appetito dei maschi al ritorno dalla “scatena”.
Le mogli di allora erano tutte sante, non potevano essere diversamente, considerato che dovevano caricarsi sulle spalle un’intera famiglia, che spesso superava le dieci unità. Perché tanti figlioli nonostante la scarsità di mezzi di sostentamento? Perché già all’età di quindici-sedici anni i figli maschi iniziavano a lavorare e a portare pane in famiglia.
In quell’unica stanza a loro disposizione la giornata era scandita da numerosi lavori. S’iniziava con la colazione, che poi colazione non era affatto, perché di biscotti manco a parlare, semmai di pane raffermo messo in un piattone con acqua, sale e tre-quattro giri di olio (a sette-otto gradi di acidità). E tutti a prendere un pezzo di quel pane benedetto, che, come per incanto, aveva perso la sua durezza e si era trasformato nella dolcezza infinita di un… pasticciotto salentino.
Sedati, alla men peggio, i sacrosanti reclami dello stomaco, i maschi si recavano a zappare “a giornata” per assicurarsi il minimo per tirare avanti, mentre in casa rimanevano le figlie ad aiutare la mamma nel disbrigo delle tante faccende domestiche. I ragazzi, invece, qualora non andassero a scuola, erano ‘sacrificati’ ad uscire di casa per recarsi nelle vicine campagne e raccogliere sarmenti, rami secchi, i resti di rimonde degli ulivi, buoni per “mpizzacare” (attizzare) il fuoco del camino. Altri, invece, erano intenti, muniti di coltellino, a raccogliere lungo i viottoli di campagna le verdurine agresti, che generalmente erano costituite da “cicore creste e duci”, “zzanguni”, “paparine”, “nghete” e quant’altro di buono per cena. Altri, poi, erano intenti a raccogliere, nel caso in cui di notte fosse piovuto, “cozze moniceddhre” (tipiche lumache salentine) o “marruchi” (lumache più grosse) o anche “fungi” (funghi), da portare a casa e affidare tutto quel ben di Dio alle donne, che, dopo vari sciacqui e risciacqui, li mettevano da parte per poi servirsene a cena.
Durante queste perlustrazioni quotidiane in campagna, i ragazzi non mancavano di imbattersi in qualcosa da mettere sotto i denti, come qualche grappolino d’uva non raccolto, dei fichi, arance, mandarini, mandorle o noci e tante delizie a portata di mano, anzi di bocca. A volte, però, scoperti dal proprietario, dovevano fuggire a gambe levate per non rimediare qualche scapaccione. Erano tutti bravi furetti pronti a sfruttare ogni possibile occasione.
A prima mattina, dopo che i maschi erano andati alla “scatena”, la mamma assegnava alle figliole i vari compiti. Ed allora vi era chi si dava da fare per lavare indumenti, sciacquarli e spanderli; chi, invece, era intenta a rammendare (rinacciare), chi a rattoppare (repezzare) pantaloni, calze, camicie, fazzoletti e quant’altro.
Alla mamma e a volte anche alla nonna erano riservati i lavori un po’ più duri. Il nonno, invece, era dispensato da fatiche, eccetto qualche lavoretto un po’ pesante in casa oppure era sempre impegnato a raccontare fattarelli legati alla loro vita giovanile. Tutti i ragazzini sistemati, a mo’ di semicerchio, intorno al camino, erano intenti ad ascoltare il patriarca e a seguirlo nei numerosi racconti e favole, tutti a lieto fine. Finito uno doveva, su insistenze dei nipoti, passare a raccontare qualche favola, sino a quando la mamma non li richiamava a tavola per il pranzo oppure per la cena.
Intorno alle tredici, tutti seduti intorno ad un lungo tavolo su sedie più o meno sgangherate o spagliate aspettavano che le donne di casa servissero il pranzo, pranzo a modo di dire.
Generalmente piselli, ceci, fave (un po’ meno i fagioli) erano i primi e gli unici piatti. Nelle famiglie più povere vi era a tavola un solo piattone o al limite due, pieni generalmente di legumi fumanti, che in precedenza erano stati messi a cuocere in una grossa pignatta nel camino ad una certa distanza dalla fiamma viva. La mamma aveva provveduto a mettervi degli intingoli, come cipolla, foglie d’alloro, aglio, ecc. per irrobustire il profumo della pietanza. Era sempre un maschio a dare il via ai lavori manducatori. Difficilmente il padre o i figli già adulti, perché stavano lavorando in campagna. Loro mangiavano, durante il quarto d’ora di stacco concesso dal signorotto, una pagnotta farcita di pomodori, cipolla e, in alcuni casi, di peperoni. In casa, quindi, erano quasi sempre i nonni a dettare i tempi del pranzo. Dopo una loro prima cucchiaiata, era la madre a servirsene e poi i figli in ordine d’età. Dopo poco ricominciava il giro nello stesso modo, fino a quando nel piattone non vi era alcun legume.
Ognuno poteva accompagnare la cucchiaiata con una fetta di pane raffermo. Per i più piccini, ancora con pochi denti, non era affatto facile masticare quei pezzi duri. Ed allora la mamma li immergeva in un piattino dove vi era acqua, sale e olio per renderli più soffici.
Spesso qualcuno dei ragazzi si lamentava perché nei legumi aveva notato dei vermetti (mamuni). E la mamma, con un risolino convincente, rispondeva che li aveva messi apposta per condire i legumi. Ed aggiungeva che, mangiandoli, essi avrebbero acquisito più forza e sarebbero cresciuti sani e vispi.
Il piatto che andava per la maggiore a quei tempi era “tria e cìciari” oppure “pisieddhri a cecamariti”. Erano una vera ghiottoneria.
Al marito e ai figli ormai grandicelli, che tornavano stanchi morti dai campi, intirizziti dal freddo in inverno o sudati per l’eccessivo caldo estivo, trovare a pranzo uno di questi due piatti prelibati era un vero e proprio dono della Provvidenza. Le donne, per prepararli, avevano fritto dei pezzetti di pane raffermo per poi distribuirli tra i legumi. Quel pane fatto friggere con dell’aglio produceva un profumo particolare che si diffondeva per tutta la casa. Quand’era possibile, ma solo di domenica, si usava mangiare riso, ceci e pane fritto, oppure “mùgnuli cu lla tria” (‘tria’ deriva dal greco e significa ‘treccia’), cioè cavoletti con tagliatelle intrecciate (alcune delle quali fritte). E si sprigionava sempre una gioia immensa per tutta la famiglia. Era una vera leccornia. Ma perché si chiamavano “cecamariti”? Perché quella pietanza aveva la capacità di far dimenticare le pene e le frustrazioni al marito, quindi lo ‘accecava’ e lo faceva godere per cotanta delizia.
Il pane raffermo, quindi, svolgeva una funzione importante nell’alimentazione quotidiana. Addirittura, nel periodo invernale, veniva inzuppato nel vino per riscaldare e tonificare il corpo e l’anima. In altre circostanze veniva arrostito alla brace, a mo’ di bistecca, e poi condito con sale, olio, aceto e pomodoro. Una golosità da consumare soltanto dinanzi al camino acceso, il tutto accompagnato da un buon bicchiere di vino, durante le lunghe serate invernali.
Un ultimo modo di utilizzare il pane era quello di tagliuzzarlo in gran quantità in pezzettini, di metterli in una pentola con qualche foglia di alloro, spicchi di aglio ed acqua a sufficienza; lo si faceva cuocere sino a renderlo uniforme, a diventare quasi una “pappa”. Si metteva fumante nel solito piattone, avendo cura di aggiungere un po’ formaggio di pecora. Si sprigionava per tutta la casa il solito profumo, necessario a far dimenticare ogni sofferenza e fatica. Dopo aver bevuto un ultimo bicchiere di vino, la famiglia si preparava alla notte.
Le donne erano sistemate in un soppalco, i maschi in un gran lettone, separato dal letto coniugale da una tenda. I più piccini trovavano posto in un cassettone del comò, sempre ammesso che ci fosse, oppure nel lettone di mamma e papà.
In questo modo vissero le tante famiglie neritine e salentine per anni e anni ma con la dignità di aver onorato pienamente la propria esistenza.