“Uen gudd gudd…”
di Salvatore Chiffi
Alle prime luci dell’alba del 23 agosto ‘73, con un giorno di anticipo sulla tabella di marcia, la nave San Giorgio, il caccia un po’ snob della Marina Militare, aveva raggiunto la Norvegia proveniente da Halifax (Nova Scotia), e, dopo oltre duemila miglia di navigazione piuttosto burrascosa, tra orche e balene, ad una latitudine prossima al Circolo Polare Artico, si era insinuato nelle placide acque del Sognefjord (fiordo dei sogni) con il suo carico di giovani cadetti.
Quando il Chief uscì in coperta per raggiungere a poppa la Centrale di Tiro e dare il cambio alla guardia, un meraviglioso ed imprevisto spettacolo lo lasciò a bocca aperta. Il San Giorgio stava navigando tra montagne con le cime innevate in un mare color cobalto.
Sfruttando con perizia la corrente del Golfo, il Comandante aveva anticipato di un giorno l’arrivo. Il recupero di una giornata sulla tabella di viaggio avrebbe consentito di ripulire la nave dalle raccate (vomito dovuto al mal di mare), di lavare con acqua dolce le fiancate e la coperta dalla salsedine e di permettere all’equipaggio e agli allievi dell’Accademia di darsi una bella rassettata, in modo da presentarsi nel porto di Bergen in perfetta tenuta, come nelle migliori tradizioni della Marina Italiana.
Il Chief salutò i marinai e i cadetti, intenti a lucidare con la mantecca gli ottoni della tuga di rappresentanza, esortandoli a metterci un po’ più di olio di gomito.
“Capo, domani si va a caccia di vichinghe!” – disse un cadetto dai lineamenti levantini[1], rivolgendosi al Chief.
“Crai, tu, vai a caccia di ciole!…” – gli replicò seccamente il Chief nel suo dialetto neritino – “…Abitullà (Abdullah), la vedi quella cosa bianca in cima alle montagne?”.
“Certo che la vedo!”.
“Si chiama neve!… Nel mese di agosto, con la neve, le vichinghe stanno sulle spiagge di Rimini e Riccione! Perciò, crai, vai a caccia di ciole”.
Sghignazzando, l’uomo si allontanò verso la sua destinazione, mentre il povero Abdullah veniva ripetutamente deriso dai compagni, grazie alla contemporanea traduzione dei termini dialettali da parte dell’allievo leccese Liaci.
Il pomeriggio del giorno successivo, seduto in uno dei tanti bar prospicienti la banchina, il Chief sorseggiava un’insapore tazza di the.
I suoi pensieri erano rivolti nostalgicamente alla terra natia. Era la prima volta che l’uomo non godeva dell’estate salentina e ciò lo rendeva triste e malinconico.
Rovistando tra i cassetti della memoria, il Chief riprese alcuni indimenticabili momenti trascorsi con la sua gente. Chiuse gli occhi e gli parve di annusare l’intenso profumo dei pini di Porto Selvaggio, di ascoltare il rumoroso ed incessante frinire delle cicale, di percepire la frescura delle acque di Santa Caterina, delle Quattro Colonne, di scrollarsi di dosso l’appiccicaticcia sabbia di Santa Maria al Bagno e quella caraibica di Sant’Isidoro. Riprese il volto del nonno, dei genitori, dei fratelli e poi degli amici Giuseppe, Ettore, Gerardo; rivisse i momenti più emozionanti con il suo primo amore e soprattutto riprovò l’intenso batticuore del primo bacio; in un continuo scorrere di flash-back, si ricordò di Anna e Giovanni, complici dei furtivi incontri con l’amata, la chiazza con la torre dell’Immacolata di Nardò, le scorribande con la Vespa e le collette per fare il pieno di “miscela”, le feste da ballo improvvisate in casa di qualche amico e… altri innumerevoli volti, luoghi e momenti, in un susseguirsi disordinato di scene.Dopo aver saldato il conto, il Chief chiese alla bella cameriera di indicargli una buona discoteca dove trascorrere la serata. La ragazza incassò i fetacchioni (nome dato dai marinai alle valute straniere), sorrise garbatamente e si allontanò per ritornare qualche istante dopo con un biglietto d’ingresso dello “Show Boat” – Strandgaten.
L’uomo rimase seduto per qualche minuto ancora, terminò di bere quella strana bevanda, raccolse le cartoline da spedire agli amici salentini e rientrò a bordo.
Passò nome e indirizzo della discoteca al sottufficiale di guardia, pregandolo di estendere l’invito solo agli amici fidati. Ma il Chief era ben sicuro che qualcuno l’avrebbe tradito, diffondendo l’informazione “strettamente riservata” ed innescando Radio Prora (il passaparola), che, nel giro di pochi minuti, avrebbe pubblicizzato la notizia tra tutti i marinai della San Giorgio.
Erano circa le otto di sera, quando il Chief ed altri due colleghi furono lasciati da un taxi davanti ad un anonimo portone a vetri, sulla cui sommità lampeggiava la scritta a neon “SHOW BOAT”.
I suoi amici entrarono immediatamente nel locale, lasciando al terrone l’incombenza di pagare la corsa del taxi: in fondo era stato lui ad averli trascinati in quel luogo.
Nell’entrare, il Chief fu attratto da una locandina affissa sul vetro del portone. Tra le tante scritte, in incomprensibile lingua norvegese, campeggiava una a caratteri più grandi, colorati e marcati: “MATUSALENTO BAND”.
Rimase per qualche istante un po’ perplesso, poi, spinto da una crescente curiosità, decise di entrare nell’ambiente. Il locale era enorme. Sulla sinistra, vi era un fornitissimo bar con un bancone dal legno lucidissimo, lungo il quale erano seduti in perfetta successione dei giovani barbuti, rossicci e lentigginosi, che sorseggiavano boccali di birra gelata; di fronte, si apriva un ampio spazio con poltrone e divani occupati da formosissime bionde, che chiacchieravano allegramente tra loro; sulla destra, invece, vi era la pista da ballo, dove altre avvenenti fanciulle si muovevano sinuosamente attirando l’attenzione degli astanti; in fondo, su un piccolo palco erano sistemati quattro figli dei fiori che suonavano e cantavano, investiti da luci psichedeliche lampeggianti.
L’aspetto e l’abbigliamento dei quattro musicisti erano quelli tipici dell’epoca: chiome fluenti e cotonate, baffi lunghi, camicie sgargianti, pantaloni a zampa d’elefante e gilet in tessuto da tappezzeria. Il repertorio era quello dei Beatles, ma al Chief non sfuggì alcun particolare, soprattutto quando il cantante del gruppo intercalava delle frasi in un dialetto a lui familiare.
Il figlio dei fiori, infatti, sicuro di non essere capito dai presenti, sostituiva le rime delle varie canzoni con colorati apprezzamenti, in perfetto dialetto salentino, rivolgendoli all’indirizzo delle belle norvegesi e sottolineandone la procacità, le lunghe gambe, le parti basse delle spalle ed altro… Divertito ed incuriosito, il Chief si sedette sul bracciolo di un divano di fronte al gruppo dei musicisti e indirizzò lo sguardo verso il cantante dai capelli biondi e fluenti. Dopo qualche minuto, l’uomo, forse perchè infastidito dall’insistente sguardo, spostò lo scherno dalle belle norvegesi al Chief , verso il quale rivolse alcune rime molto pepate, sempre in dialetto neritino e sempre nella convinzione di non essere capito.
Il Chief rimase impassibile ed imperturbato per tutta la durata della canzone, dandogli la possibilità di sciorinare il vasto repertorio di sconcezze ed oscenità tipicamente salentine; solo al termine dell’esibizione, ma prima che il capellone cominciasse ad intonare un‘altra canzone, il Chief, alzando l’indice, lo invitò a fermarsi.
“Uen gudd gudd iu evv notinghe, uidd ioar gran madar go tu slippi” – si espresse il Chief nel suo originale e simpatico idioma anglo-salentino .
“Uott?!” – rispose esterrefatto il cantante, scansando l’asta del microfono e chinandosi in avanti per meglio ascoltare le strane parole.
“Quannu bbuenu bbuenu no’ ttieni nienzi, cu nnònnata ti querchi”[2] – tradusse immediatamente il Chief, alzando di qualche tono la voce per farsi sentire anche dagli altri componenti della band.
I quattro rimasero fulminati.
Poi di botto: “Cumbà, ti ddo sinti?” – chiese il batterista.
“Ti Nardò”.
“Nui ti Cupirtinu simu!… Spetta, spetta picca picca”.
L’uomo chiese immediatamente al pubblico una breve pausa, inserì della musica registrata e con gli altri circondò il quasi paesano.
Tra i cinque ci fu un caloroso e veloce scambio di informazioni. Il Chief apprese che i musicisti erano studenti universitari e che trascorrevano le vacanze estive suonando in alcuni locali di Svezia e Norvegia per raggranellare un po’ di denaro e mantenersi agli studi. I quattro, a loro volta, seppero che in porto c’era una nave militare italiana di nome San Giorgio in crociera addestrativa con i cadetti dell’Accademia Navale.
“Seicentu?!… Seicentu italiani a Bergen?!… E cce sta spietti cu lli chiami e lli faci ‘inire cquai?”
“Abbiate fede!” – li rassicurò il Chief, consapevole che da lì a poco, grazie alle informazioni di Radio prora sarebbero arrivati in molti. Non si sbagliava. Mezz’ora dopo il locale era affollato da italiani, per la contentezza delle bionde norvegesi, che immediatamente “assaltarono” l’equipaggio italiano.
Il repertorio dei Matusalento Band passò rapidamente dai Beatles a quello di Mina, Celentano e Little Tony, per poi finire a quello delle canzoni dialettali salentine, ai ritmi della Pìzzica pìzzica e della Tarantella.
“Zumpa Ninella” e “Mi la scirrai la còppula” furono le canzoni che più contagiarono il pubblico: i quattro erano riusciti a trasferire il calore del sole e della terra salentina nella scialba e fredda Norvegia, coinvolgendo i presenti e, soprattutto, facilitando non poco il lavoro di Cupido.
Lo Show Boat divenne il ritrovo degli italiani e la fiesta fu replicata con gran successo ogni sera sino alle prime luci dell’alba per tutta la permanenza del San Giorgio a Bergen.
La mattina del 28 agosto si ripetè la solita scena vista e rivista in tanti altri porti: decine di ragazze in lacrime salutavano con fazzoletti bianchi, mandando baci all’indirizzo di quei seicento meravigliosi ragazzi italiani.
“Chief, se non stanno a Rimini, dopodomani si va a caccia di danesi!” – disse ironicamente Abdullah, mentre rassettava il materiale del posto di manovra.
“Abitulla, ‘spetta armenu cu ‘ndi lluntanamu nu picca. E no’ sfuttire, ci no mo’ ti strìsciu lu pilu[3] e ccusì Copenhagen ti la cuardi cu lu bbinòculu” – gli rispose il Chief, sicuro che l’allievo non avrebbe compreso una sola parola.
Poi l’uomo rivolse un ultimo sguardo verso un punto preciso della banchina e proiettò i suoi pensieri alla… patria di Amleto.
[1] …disse un cadetto dai lineamenti levantini – L’Accademia Navale di Livorno formava cadetti provenienti da Iran, Egitto, Tunisia, Algeria e Marocco.
[2] “Quannu buenu buenu…” – Quest’espressione dialettale, se tradotta in italiano, perde significato e mordente. Ciò nonostante proviamo a darne un’interpretazione valida, e quindi “Quando altro non hai, ti corichi con tua nonna”.
[3] “… E no sfuttire, ci no mo…” – E non sfottere altrimenti ti faccio un rapporto disciplinare e Copenhagen la vedi con il binocolo.