TRA SACRO E PROFANO, ALTRE STORIE

Miracoli, leggende e curiosità nella tradizione religiosa popolare salentina

di Antonio Mele ‘Melanton’

Anche in questa nostra epoca, così marcatamente pragmatica, aggressiva, irrequieta, spesso perfino cinica ed empia, non credo infine che la fede religiosa sia del tutto dispersa. Forse, a prima vista, essa non ha quell’istintiva e viscerale vigoria di un tempo. Forse, rispetto al passato, è meno intima e, paradossalmente, più spettacolarizzata. Ma la fede c’è ancora. C’è sempre.

E quando occorre, soprattutto in quelle geografie e comunità non completamente defraudate della propria memoria spirituale, essa sa muovere la partecipazione del popolo, rinnovando i valori etici e filosofici – fondamento culturale ed esistenziale dell’interiorità  umana –, pur intersecandoli tra il sacro e il profano.

Sui fenomeni liturgici e soprannaturali, come ho già scritto in una precedente occasione, la nostra terra salentina è straordinariamente fertile di storie, saghe, affabulazioni, curiosità, che interessano tanto la sfera trascendentale quanto, complementarmente, quella laica e terrena. Sicché, narrare di alcune tradizioni particolarmente sconosciute o dimenticate, è un po’ come tornare all’antico, raccolti intorno all’aia, magari in una notte d’estate e di luna, ad ascoltare i nostri vecchi contadini che raccontano…

Galatina – Madonna della Luce

Ci sono state vicende neppure tanto lontane, vissute dai nostri stessi padri, che per le nuove generazioni assumono i contorni dell’invenzione e della favola. Storie tremebonde e fantastiche, spesso addirittura bibliche. Come quella delle cavallette, ad esempio: un flagello per molti aspetti arcano e quasi mitologico, già contemplato – fin dai tempi di Mosè! – nelle famose dieci piaghe d’Egitto. Eppure, a pochi passi da noi, a Montemesola, nel Tarantino, qualche vecchio tramanda ancora dell’invasione delle cavallette che colpì realmente il paese nella primavera del 1867, e del provvidenziale intervento della Madonna Immacolata, protettrice di quella comunità insieme alla patrona Madonna del Rosario.

La situazione (poi fortunatamente risolta), si configurava agli inizi davvero apocalittica, e il fatto è peraltro storicamente testimoniato dal resoconto di monsignor Bonaventura Enriquez, che sul drammatico evento scriveva: “Visto vano ogni sforzo, e animata da profonda fede, la popolazione volle indire una festa propiziatoria e portare in processione la statua dell’Immacolata. Pare che le cavallette, sospinte anche da un forte vento di tramontana, quasi per incanto, nel comune sollievo, sparissero subito dalle nostre campagne”.

Da allora, per ricordare il miracolo, a Montemesola l’Immacolata, anziché l’8 dicembre, viene festeggiata nell’ultima domenica di maggio.

Per grazia ricevuta, poco dopo l’anno Mille, nel territorio dell’attuale Taurisano (che all’epoca non era stata ancora edificata) sorse il culto, fino ad oggi tramandato e fortemente sentito, della Madonna della Strada.

La leggenda narra che in quel luogo – posto sul tracciato della  cosiddetta Via della Perdonanza, che dal nord della Puglia portava i pellegrini fino al santuario di Santa Maria di Leuca – esisteva un bosco selvaggio e tenebroso, dove una notte fu assalito dai briganti un mercante di preziosi. Vistosi a malpartito e temendo per la propria vita, l’uomo implorò con fede l’aiuto di Maria Santissima, che immediatamente apparve, seduta in trono col Bambino, e circondata da un chiarore abbagliante. Atterriti dall’inattesa e folgorante visione, i briganti si dileguarono, mentre il mercante, salvato da tanto prodigio, poté proseguire il suo viaggio, impegnandosi nel contempo ad erigere una cappella in onore di quella che egli stesso chiamò “Madonna della Strada”, protettrice dei viandanti.

L’uomo miracolato, di origine francese, cinse inoltre la cappella con un cordone intrecciato di seta e oro (ricavato dalla fusione degli oggetti preziosi che trasportava), seguendo la tradizione della “Madonna del Santo Cordone”, venerata a Valenciennes, che proprio in quel tempo, e precisamente nel 1008, aveva salvato dalla peste la città, cingendola appunto con un cordone miracoloso.

Anche a Cavallino, nonostante il patrono del paese sia san Domenico di Guzman, la devozione mariana è fortemente sentita, ed è qui rivolta alla “Madonna del Monte”, antica e primigenia protettrice del paese.

Va precisato che il protettorato di san Domenico (festeggiato il 4 di agosto) fu introdotto e imposto intorno al 1625 dalla pia nobildonna napoletana Beatrice Acquaviva d’Aragona, giunta a Cavallino per sposare il feudatario del luogo, Francesco I, duca di Castromediano.

Il popolo accettò serenamente questa variazione liturgica, senza tuttavia attenuare (e semmai, rafforzandolo) il culto per la propria Madonna del Monte, al quale si lega peraltro un evento prodigioso. Siamo, anche qui, intorno all’anno Mille: un pastorello si accorse un giorno che uno dei buoi che portava al pascolo si era improvvisamente fermato, e quasi inginocchiato, di fronte ad un cespuglio di rovi. Incuriosito, il piccolo pastore rimosse i rovi, che nascondevano l’apertura di una grotta, e su una parete della stessa grotta scoprì l’affresco di una Madonna col Bambino, probabile opera dei monaci basiliani, che in anni precedenti erano stati in quel territorio.

Madonnaro

Informate subito del fatto, le autorità religiose e civili del tempo decisero, insieme al popolo, di erigere nel luogo una cappella che custodisse la sacra immagine. Si approntò così tutto il materiale (travi di legno, tufi, malte, e quant’altro), accatastandolo fino a sera vicino alla grotta “miracolosa”, per essere poi utilizzato l’indomani. La mattina dopo, però, gli operai scoprirono che il materiale, inspiegabilmente, non si trovava più dov’era stato lasciato, bensì sopra un’altura poco lontano. Così, con molta pazienza e qualche perplessità, riportarono in basso i mattoni, il legname e le calcine, predisponendoli nuovamente accanto alla grotta. Il giorno successivo si ebbe tuttavia la medesima sorpresa: il materiale aveva ancora una volta cambiato collocazione, e si trovava ben sistemato sull’altura!

Fu a questo punto che i cavallinesi interpretarono il fenomeno come un segno della volontà della Vergine di avere la chiesa non nella grotta, ma sul “monte” (da cui poi prese l’appellativo), dove fu appunto costruita la cappella.

Sulla reverenza per la Madonna, anzi, per le varie Madonne a cui la gente salentina affida la propria protezione, molto ci sarebbe da scrivere, considerando che il patronato mariano – chiaro segno della devozione profonda per la Santa Madre – interessa, direttamente o collateralmente, ben 91 dei 146 Comuni delle province di Lecce, Brindisi e Taranto!

Quello che ci ha soprattutto incuriosito e sorpreso, in questa nostra particolare ricerca agiografica , è la fantasiosa, suggestiva e spesso altamente poetica intensità espressiva che il popolo salentino ha voluto usare nei vari appellativi dati alla Vergine. Si va dalla Madonna della Palma (ovviamente a Palmariggi) alla Madonna della Neve (a Neviano, ma anche a Crispiano), alla Madonna della Fontana (a Francavilla Fontana), proseguendo con la Madonna del Pane o Sancta Maria de Novis (Novoli),  la Madonna dell’Acqua (Nociglia), della Coltura (Parabita), dell’Abbondanza (Cursi), del Perpetuo Soccorso (Porto Cesareo), della Scala (Massafra), della Porta (Lecce), della Camera (Roccaforzata), del Giardino (Tuturano), del Pozzo (Fasano), della Pila (Casarano), del Carro (San Cesario), del Passo (Specchia), della Luce (Galatina, Scorrano, Ugento), del Miracolo (Melissano), e altre ancora, senza tacere delle numerose Madonne per così dire più “classiche”, come l’Assunta, l’Immacolata, del Rosario, del Carmine, dell’Annunciazione, della Consolazione, delle Grazie…

Anche a Sanarica si venera una Madonna delle Grazie, ma è l’unica, in tutto il Salento, ad essere più semplicemente conosciuta col nome proprio della città di appartenenza, cioè come “Madonna di Sanarica”, il cui culto è peraltro particolarmente diffuso in un vasto territorio, avendo molti devoti anche a Matino, Grottaglie, San Pietro Vernotico, e specialmente a Taranto.

Particolarmente curioso è invece il patronato della Madonna di Loreto, protettrice di Surbo, che pare nasca da un ‘equivoco’ linguistico (complice un’assonanza dialettale), essendo stato nella fattispecie determinato dall’errata identificazione della Madonna “te lu Riu” (l’antico casale Aurìo, alle origini del paese stesso di Surbo) con la Madonna “te Luritu” (di Loreto). Ingenuità e bizzarrie di tempi che furono…

Di certo più curioso appare l’appellativo di “Madonna del mangia-mangia” che il popolo di Carovigno dà ancora oggi alla Vergine del Belvedere, in ragione della festa, di chiara derivazione pagana, che fino ad alcuni anni fa si svolgeva nel giorno dell’Assunta, durante la quale, in processione ad un vecchio santuario, ubicato su un colle non lontano dal paese, si portava una vacca solennemente infiocchettata, che veniva poi sacrificata e mangiata allegramente da tutti i fedeli.

In omaggio alla Sacra Famiglia, dopo l’ampia disquisizione monografica fin qui dedicata alla Madre santissima, concludiamo parlando un po’ anche del Padre putativo di Gesù, san Giuseppe.

Conoscete San Cassiano? Intendo il paese, non il Santo. È probabile che soltanto pochi dei nostri lettori ci siano qualche volta passati, da questo piccolo e ancora giovane Comune della provincia di Lecce, già frazione di Nociglia, autonomo dal 1975, che pure merita la nostra attenzione.

San Cassiano, per chi non lo sapesse, è anche il paese di una famosa “Sagra di san Giuseppe”, giunta ormai alla sua 33ª edizione. Da queste parti la devozione a san Giuseppe è addirittura superiore al patrono principale san Rocco. Per almeno due motivi: il primo, perché è un falegname, e di falegnami e mobilieri provetti San Cassiano pare sia da sempre la patria indiscussa. E poi, perché quando il Signore dimostrò a san Giuseppe la sua predilezione facendogli fiorire il bastone, quei fiori gialli e bianchi, secondo i sancassianesi, non erano altro che i fiori della pianta di ceci che cresce rigogliosa nelle loro campagne. Tirando le conclusioni, la gente di San Cassiano intese chiaramente che a san Giuseppe i ceci fossero particolarmente graditi, e in suo onore, con questi gustosi legumi, creò la mitica ricetta della “tria e cìciari”.

Non ci sono documenti che attestino la veridicità di tale leggenda (sennò, che leggenda sarebbe?), ma mangiare questo piatto caratteristico in questa zona, specialmente se accompagnato da ottimo mieru e dall’allegria degli amici, è un atto di devozione tanto a san Giuseppe quanto alla buona cucina.

D’altronde, com’è noto, tutti i salmi finiscono in gloria… O no? Alla salute!