Storielle galatinesi
1-“Era ‘na fiata ‘na mùscia ‘nchiata, se bbinchiau de simulata, se bbinchiau de simulone… Oh cce bbeddhru ‘stu vagnone!”.
“C’era una volta una gatta grassa, si saziò di semolata, si saziò di ‘semolone’… Oh, quanto è bello questo ‘vagnone’! (bambino)”.
Erano le mamme d’un tempo che, mettendo il figlioletto sulle loro ginocchia e prendendolo per le manine, lo dondolavano in modo che non piangesse, ripetendogli più volte questa bella ninna nanna.
2-“Bbona sera, signurina rundella!”.
“Buona sera, signorina rondella!”.
Ai nostri tempi, quando nel gioco del ramino o della scala 40, il giocatore pescava un jolly, alcune volte si lasciava andare a questo detto, forse perché sino a quel momento la fortuna non lo aveva assistito. Perciò la frase va intesa come un benvenuto rivolto alla matta. Come dire: “Finalmente t’ho pescata!”.
3-“Scija le cruci de tàvula!”.
“Disfai le croci da tavola”.
Questa frase è legata all’antica superstizione salentina di disfare le posate messe inavvertitamente sulla tavola l’una sovrapposta perpendicolarmente all’altra, in quanto richiamavano la croce e quindi la passione e la morte di Gesù.
4-“Signura, signura, signura… cu’ llu culu cusutu, la pica te more!”.
“Signora, signora, signora… con il culo cucito, la tua gazza muore!”.
Si trattava di una gazza o pica, che era stata addomesticata da una nobile di Galatina. L’uccello aveva libertà di muoversi in ogni angolo della casa. Si sa che le gazze, per loro natura, oltre a nascondere oggetti, defecano in continuazione per un’inarrestabile necessità fisiologica. La gazza, perciò, sporcava dappertutto, mettendo a disagio la servitù, che doveva rimuovere le feci, lavare e disinfettare. Un giorno la cameriera, non potendo starle sempre dietro, spinta dalla rabbia, acchiappò l’uccello e gli cucì l’ano, in modo che non potesse più defecare.
Il povero animale non sapeva a quale santo votarsi. Si recò dalla sua signora e le disse, supplicandola in perfetto dialetto galatinese: “Signura, signura, signura!… cu’ llu culu cusutu, la pica te more!”.
Ecco il vero motivo per cui la gazza si rivolse alla sua padrona per ricevere immediato soccorso e defecare in tutta tranquillità.
5-“Signura ci cu mmie faci la santa, menthre cu ll’addhri tie te stendi longa longa!…”.
“Signora che con me fai la santa, mentre con gli altri ti distendi lunga lunga… (sul letto)”.
Era la prima parte di una vecchia canzone salentina in cui si cantava in negativo la vita di certe donne. Esattamente di coloro che, per non incorrere in maligni pettegolezzi sul proprio conto, nascondevano la loro vita intima, confidando nel silenzio dell’amoroso. Il fidanzato, eccetto rari casi, era per sua natura molto loquace e svelava al mondo intero le sue esperienze amorose, vantandosene come se fosse il vincitore di numerose battaglie.
La prima, quindi, era molto riservata per non correre il rischio di essere considerata una donna di facili costumi, mentre il secondo appendeva sul petto tutte le medaglie amorose, ostentandole agli amici in continuazione. Insomma, per quanto si sforzasse di fare le cose in modo molto riservato, non vi era donna che di lei non si conoscessero anche i bacetti innocenti.
Ed allora, quando un uomo faceva presente ad amici il suo fidanzamento con una certa “tipa”, c’era sempre qualcuno che lo consigliava di lasciarla stare, perché aveva avuto già alcune esperienze con Tizio, Caio o Sempronio. Come dire che l’interessata difficilmente avrebbe indossato l’abito da sposa.
A volte, però, l’amore ardente e tumultuoso, superando certi condizionamenti sociali, metteva riparo ai tendenziosi e inopportuni costumi del luogo. C’era sempre qualcuno che, pur conoscendo il passato un po’ burrascoso della futura moglie, preferiva sposarsela per goderne a iosa dei suoi dolci e focosi favori. Apriti cielo!… Il poveretto doveva subire di continuo lo sberleffo cittadino impietoso e becero. Infatti, vita sua naturale durante, veniva additato all’opinione pubblica cittadina come “curnutu cuntentu” (cornuto contento).
E così, come suggerisce l’antico e infallibile proverbio: “Non dire degli altri ciò che vorresti non fosse detto di te”… quasi tutti vissero… ‘cornuti e contenti’.
6-“Vàsciu vàsciu lu scarcioppularu!” – “Basso basso il prezzo del carciofaio”.
Questo simpatico slogan veniva ‘urlato’ in continuazione dai venditori ambulanti di carciofi nel periodo di massima produzione. Proprio per tale motivo i vari verdurai, per poter smaltire l’ingente quantità di carciofi, si facevano una guerra ‘commerciale’ al ribasso. Il mercato, generalmente nei mesi tardo-invernali, veniva inondato da una quantità eccessiva di carciofi. Anche gli stessi contadini, utilizzando carretti o trainelle, passavano di strada in strada e si sgolavano sino alla morte nel ripetere lo slogan. E si sentivano in giro queste voci stentoree gridare: “Sette scarciòppule ‘na lire!!!… Sbricàtivu ca sta sse spìccianu!”. (Sette carciofi per una lira… Sbrigatevi, perché ne sono rimasti pochi!).
Qualche furba massaia, sfruttando il momento di abbondanza del prodotto, ribatteva: “Su’ tthroppu care!… lu Vicenzu de l’Othre le vinde nove ‘na lira!”. (Sono troppo costose!… Vincenzo dell’Otre le vende nove per una lira!).
Il contadino, mica si arrendeva. Bloccata la trainella, rispondeva con una certa stizza a quella donna: “E iu le vindu dece ‘na lira”. (Ed io le vendo dieci per una lira!).
Ed allora, come per incanto, dalle case uscivano tante donne con una lira in mano: “A mmie, a mmie… damme dece scarciòppule… ma dammile beddhre crosse e ‘nchiuppate!… anzi fanne mmi le scòcchiu iu, ca se no tie mi le dai rresciuncate!”. (A me, a me… dammi dieci carciofi, ma che siano grossi e carnosi, anzi fammeli scegliere, altrimenti me li dai piccoli e avvizziti).
Si racconta che, negli anni ’50, un commerciante brindisino veniva quotidianamente a Galatina con un motocarro stracolmo di carciofi. Arrivato in piazza San Pietro, si metteva ad urlare a squarciagola: “Iutàtime, Iutàtime!… sorte mia, iùtame!… Ggesù miu, Ggesù miu, cce cannàmanu ccappai!”. (“Aiutatemi, aiutatemi… fortuna, aiutami!… Gesù mio, Gesù mio, in che brutto guaio mi son cacciato!”).
La gente, richiamata da quelle urla di soccorso, si accalcava al motocarro per accertarsi di cosa si trattasse. A questo punto il brindisino cambiava strategia: “Jutàtime, ca se no lu pathrunu me struncuniscia de mazzate quandu tornu a Brindisi. Ve le rrecalu!… Dàtime centu lire pe’ vvinti scarciòppule. Jutàtime… jutàtime!”. – (“Aiutatemi, altrimenti il mio padrone mi picchia quando torno a Brindisi. Ve le regalo… datemi cento lire per venti carciofi. Aiutatemi, aiutatemi!”).
I carciofi erano ottimi (lo sono sempre stati quelli brindisini) e anche a buon mercato, per cui, in pochissimo tempo, la verdura spariva per incanto.
“Cràzzie, cràzzie, Ggalatina mia!… Te voju tantu bene!”. – (“Grazie, grazie, Galatina mia!… Ti voglio tanto bene!”).