Quando eravamo piccini la nonna ci raccontava…
INSOLITE STORIE DI STRAORDINARIA STUPIDITÁ
di Emilio Rubino
C’era una volta un signore, padre di tre figlie. Un giorno quest’uomo, durante il pranzo, pregò la più piccola di scendere in cantina a prendere un po’ di vino. Intanto che versava il vino nella brocca, la ragazza pensò che sarebbe stato bello trovarsi un fidanzato, sposarsi e poi avere un figlio. Mentre così fantasticava, le sorse un dubbio atroce.
– “E ci poi more?!”.
E cominciò a piangere a più non posso.
– “Ahi, ahi, fìgghiu mia!… Ahi, ahi, fìgghiu mia!”.
E lì si fermò a lungo in un mare di lacrime. Il padre, non vedendola tornare, invitò la seconda figlia a recarsi in cantina. Scese costei e, vedendo la sorella che affogava in un mare di lacrime, chiese cosa le fosse mai accaduto di tanto struggente, e quella ripeté che era giunto il tempo di farsi un fidanzato, di amoreggiare con lui, poi di sposarlo ed avere un figlio.
– “E ci poi more?!” – domandò alla sorella più grande, ed intanto ricominciò a piangere.
– “Ahi, ahi, fìgghiu mia!… Ahi, ahi, fìgghiu mia!”.
Anche la sorella, presa da così sconvolgente ipotesi, si sciolse in un pianto dirotto.
– “Ahi, ahi, nipote mia!… Ahi, ahi, nipote mia!”.
Poiché le due ragazze tardavano a salire, il padre pregò la figlia più grande di recarsi in cantina a sincerarsi di cosa fosse accaduto. Una volta in quel luogo apprese dalle sorelle l’amaro motivo di tanta costernazione. Anche la sorella maggiore, portandosi le mani ai capelli, cominciò a piangere disperatamente.
– “Ahi, ahi, nipote mia!… Ahi, ahi, nipote mia!”.
Il genitore, intanto, visto che nessuna delle figlie risaliva, preso da un angosciante presentimento, andò giù di corsa. Le trovò tutte e tre che si struggevano fra lacrime e singhiozzi disperati.
– “Ahi, ahi, fìgghiu mia!… Ahi, ahi, fìgghiu mia!”.
– “Ahi, ahi, nipote mia!… Ahi, ahi, nipote mia!”.
Quando venne a conoscenza del vero motivo di tanta disperazione, il poveretto, rivolgendo gli occhi al cielo, si lasciò andare ad un’esclamazione colorita.
– “O Ggessu mmia, Ggessu mmia, cchiù fesse ti le fìgghie mia no’ nd’hàggiu ‘iste a nuddhra parte ti lu mundu!”.
Per tale motivo decise di andare via di casa per accertarsi se, in giro per il mondo, ci fosse gente più stupida delle proprie figlie.
Cammina e cammina, arrivò in un paese sconosciuto. Scorse in un vicoletto della gente che piangeva a dirotto e si disperava. L’uomo notò che un ragazzetto aveva infilato un braccio in una piccola giara, – inthra ‘na capaseddhra, come si dice dalle nostre parti – senza riuscire ad estrarlo: da qui, i pianti convulsi della madre, del padre e dei fratelli del povero ragazzo.
– “Sorte nòscia, cce piccatu, l’imu tagghiare lu razzu!… Cce discràzia, sorte nòscia, cce discràzia!”
Tagliare il braccio?! Il forestiero si avvicinò al gruppo, si fece largo, si accostò al ragazzo, si piegò all’altezza dell’orecchio e, sommessamente, gli sussurrò poche parole.
– “Cce puerti a manu?”.
– “Sei nuci” – gli rispose quello.
– “Làssande toi e tira fore lu razzu”.
Purtroppo il braccio rimaneva ancora incastrato nella piccola giara. I parenti, ancor di più addolorati, non si davano consolazione.
– “Cce discràzia, cce discràzia, l’imu tagghiare lu razzu!”.
Il forestiero si piegò e sussurrò qualcosa al ragazzo, che, sconfortato, cominciò a singhiozzare amaramente.
– “Làssande addhri toi e tira fore lu razzu”.
Nonostante tutto, il braccio gli rimaneva bloccato nella giara, cosicché la disperazione dei presenti fu ancora più grande.
– “Cce discràzia, sorte nòscia, cce discràzia!”.
L’uomo si piegò di nuovo e riparlò al bimbo.
– “Quanti nuci tieni ‘ncora?”.
– “Toi” – gli rispose il ragazzo.
– “Làssande unu e tira lu razzu de fore”.
Il fanciullo ubbidì e, finalmente, tirò fuori il braccio fra la meraviglia di tutti i presenti, che si lasciarono andare a salti irrefrenabili di gioia.
– “Lu miràculu, lu miràculu!… Quistu è nu santu, quistu è nu santu!”.
E così dicendo colmarono di doni il forestiero, che se ne andò via convinto che tutto il mondo è paese e che, in fondo in fondo, di gente stupida, oltre alle proprie figlie, c’era ovunque.
Cammina e cammina, l’uomo arrivò in un altro paese. Giunto nei pressi di una chiesa, udì delle grida e schiamazzi frammisti a pianti di disperazione.
– “Piccatu, piccatu!…”. – gridavano alcuni.
– “L’imu tagghiare l’anche!…” – dicevano altri.
– “Oppuru la capu!…” – aggiungevano altri ancora.
Ed era un pianto generale.
– “Piccatu, piccatu!”.
Cosa era accaduto? Una sposa, data la sua notevole altezza, non ce la faceva ad uscire dalla porta della chiesa, essendo più bassa di lei. Da qui il dramma: per farla uscire bisognava tagliare le gambe della donna, oppure la testa.
L’uomo, allora, si fece largo tra la gente, si avvicinò alla sposa e, allontanati gli astanti, le sussurrò alcune parole.
– “Piècate nu picca… nu picca ‘ncora… ancora n’addhru picca. Eccu, iessi!”.
Ci fu un’esplosione di applausi, un entusiasmo incontenibile tanto che l’uomo fu sollevato di peso e portato a spalle fra le grida di gioia dei presenti.
– “Comu ha’ fattu, comu ha’ fattu?… Tu si nu santu, tu si nu santu!”.
E, colmatolo di doni e di denaro, lo fecero andar via.
Cammina e cammina, l’uomo arrivò in un altro paese. Ad un tratto s’imbatté in un gruppo di donne sedute vicino alle loro case. Una di queste gli rivolse una frase.
– “Tu no ssi di qua!”.
– “Sì, è veru… su’ forestieru!”. – le rispose l’uomo.
– “Me pari tantu sthranu!… forse si ti l’addhru mundu?”. – presuppose quella.
L’uomo, volendo prendersi burla della donna, annuì, piegando più volte la testa.
E quella aggiunse, pretendendo un’immediata risposta.
– “L’ha’ bista allora la fìgghia mia?… timme, tu l’ha’ bista?”.
E l’uomo fece un’altra volta il cenno di sì.
– “Ha’ dittu ci ‘ole quarche cosa?… timme ci t’ha’ dittu nienti!”.
E ancora l’uomo.
– “Ha’ dittu ca ‘ole moti sordi, ca ‘ole cu ssi ccatta l’indurgenze ti li santi”.
La donna immediatamente entrò in casa, prese un bel gruzzolo di denari e lo consegnò allo sconosciuto, il quale, promettendo di portare tutto alla di lei figlia, andò via gongolando ed anche convinto che il mondo è pieno di sciocchi, forse ancor più stupidi delle sue figlie.
Mentre si allontanava, la donna gli chiese un’ultima cosa.
– “Gìrate, gìrate, ca ‘ògghiu tti canoscu buenu!”-
L’uomo, un po’ seccato, si abbassò i pantaloni, mostrandole il didietro.
– “Hàggiu ‘istu, hàggiu ‘istu!…” – si meravigliò la donna – “…Tieni la facce tonda e lu nasu luengu!”.
La nonna aveva finito di raccontarci la favoletta.
“E’ finita, nonna?!” – le chiedemmo.
E quella, esprimendosi in perfetto italiano.
“Non ancora, belli miei, non ancora!”.
“Allora, che aspetti?…. raccontaci nonna, raccontaci!”.
“Sappiate, figli miei, che, se si ascoltano a lungo le persone stupide, si finisce per essere un po’ stolti e sciocchi come i personaggi della favoletta appena raccontata!…”.
A mio fratello scappò una replica immediata e genuina, che mise in difficoltà quella santa vecchietta.
“Allora anche tu sei una persona stupida?… D’ora in poi non ti dobbiamo più ascoltare!”.
Lì per lì la nonna rimase spiazzata, poi, facendo leva sulla sua innata saggezza, aggiunse un concetto che ci fece ricredere.
“Chi parla di banali storie di persone stupide non può essere messo sul loro stesso piano, poiché, se così fosse, non avrebbe la forza necessaria per deriderli e metterli in cattiva luce!”.
Rimanemmo ammutoliti.
Il consiglio di mia nonna, ovviamente, valga anche per coloro che mi hanno letto.