Un incontrollato e inarrestabile fenomeno esploso subito dopo l’Unità d’Italia
L’EMIGRAZIONE DEI MERIDIONALI
Il Meridione, violentato e sfruttato in ogni sua parte vitale, reagì alla difficile situazione economica con un esodo di massa in Europa, nelle Americhe e in Australia
di Rino Duma
Premessa
Quello dell’emigrazione è stato un disastroso e sconvolgente fenomeno che ha interessato l’Italia subito dopo la sua unificazione. Una crisi economica devastante e incontrollabile mise in ginocchio intere popolazioni, a partire da quelle meridionali dell’ex Regno delle due Sicilie, in particolar modo la Campania, l’Abruzzo, la Basilicata e la Calabria, sino a travolgere anche quelle del basso Veneto e del Friuli.
Stranamente il fenomeno risparmiò le zone centro-settentrionali del paese, che furono appena appena sfiorate dall’ondata di carestia, sofferenze, malattie e morte.
Il governo non seppe fronteggiare con opportune e tempestive politiche la preoccupante situazione; tentò di arginarla, ma furono solo interventi di facciata e poco efficaci. D’altra parte cosa poteva mai importare al governo centrale se nel Meridione d’Italia intere popolazioni erano state ‘indotte’ a vivere alla stessa stregua degli animali? o se non trascorreva anno senza che si presentasse a Palermo, a Messina, a Napoli o a Bari il colera, il tifo petecchiale, il morbillo, la scarlattina e quant’altro di peggio? Eppure, durante la presenza borbonica, il Meridione, pur vivendo in condizioni precarie, non aveva mai toccato condizioni di vita così tanto estreme!
La verità – nota solo a pochissimi e che la storia non ci ha mai trasmesso – è che le ricchezze dei Borbone e di altre popolazioni servirono a colmare (solo in parte) l’enormità del debito pubblico piemontese (forse superiore a quello attuale italiano), che di fatto fu poi riversato nel bilancio del nuovo stato unitario ed assunto da tutti gli italiani (ancor oggi stiamo pagando interessi su quel debito sabaudo!). Questo è uno dei principali motivi (se non l’unico) per cui fu fortemente voluta l’Unità d’Italia!
L’inarrestabile emorragia dell’emigrazione
Stante una situazione del genere, l’unico rimedio per le genti disilluse, affamate e sfinite fu quello di abbandonare la propria terra e di migrare in uno stato europeo più ricco o in uno extraeuropeo in via di sviluppo. Inizialmente furono scelte la Francia, la Svizzera, la Germania e l’Austria-Ungheria, mentre in seguito furono preferite le Americhe e l’Australia.
Fu un vero calvario verso cui andarono incontro milioni di contadini di mezz’Italia[1], per i quali nulla fu fatto di concreto per scongiurare la tendenza all’espatrio. C’è chi ipotizza che il movimento migratorio fu visto come una panacea dalle autorità politiche dell’epoca e che addirittura fu incentivato. I lorsignori governanti, invece, avrebbero dovuto adoperarsi nelle aree interessate con un’efficace e massiccia politica di rinascita e di sviluppo, in modo da attenuare il divario economico tra le due parti d’Italia. Non lo fecero perché l’unificazione dell’Italia non aveva mai trovato posto nella loro mente, se non per realizzare forti e turpi interessi di parte. Anzi il divario andò via via acuendosi senza alcun controllo.
Perciò si decise di partire “per terre assaje luntane”, dove poter ricostruire pian piano una condizione di vita decente e dignitosa.
Spinti dalla miseria e dalla speranza di un futuro migliore, ma vittime della propria ignoranza ed analfabetismo, molti emigranti (veneti e meridionali) furono facili prede di sfruttatori, la cui propaganda fu spietata e scandalosa, tanto da promettere “ricchezze straordinarie e fortune colossali a quanti si dirigevano in America, dove le strade erano coperte d’oro e si mangiava a sazietà”.
Il lavoro degli agenti d’emigrazione fu impietoso, asfissiante ma anche molto redditizio. Questi uomini, senza cuore e con l’unico intento di ingrossare il portafoglio, arrivarono ad offrire anche il biglietto d’imbarco a quei poveri disgraziati, che furono costretti ad abbandonare la propria terra e gli affetti familiari più cari solo per estrema necessità di vita. Furono perfino consigliati a vendere la casa, le masserizie e il piccolo podere, per procurarsi il denaro per il viaggio e per il primo periodo di soggiorno. L’agenzia di emigrazione era solitamente un’impresa privata che aveva la sede principale nelle città costiere, come Palermo, Napoli e Genova. Gli agenti erano avventurieri che si recavano personalmente nelle zone in cui il tasso di espatrio era consistente per reclutare migranti e indirizzarli verso le compagnie di navigazione, disposte ad offrire provvigioni molto alte per ogni migrante arruolato.
Con la legge del 31 gennaio 1901 la figura dell’agente fu finalmente abolita. Prima di tale legge gli agenti privati dell’emigrazione erano ben 13.000! Il compito di arruolare i migranti fu perciò assegnato a una ventina di compagnie di navigazione, previa autorizzazione ministeriale. Naturalmente, per svolgere il loro lavoro, le compagnie avevano bisogno di subagenti e, soprattutto, di gente molto esperta. Ovviamente fu assunta buona parte di coloro che un tempo esercitavano in proprio la professione di agente. In pratica fu soltanto rivoltato il calzino, ma non sostituito.
La partenza
I due maggiori porti italiani, Napoli e Genova, si divisero tacitamente i porti di destinazione. Il porto di Genova s’interessava del traffico migratorio verso il Sud America (Brasile, Uruguay, Argentina, Paraguay e Cile). Il porto di Napoli, invece, organizzava i viaggi della speranza verso il Nord America e, successivamente, quelli in Australia.
I primi migranti furono inizialmente rappresentati da persone singole e soltanto verso la fine dell’800 furono raggiunti dai loro familiari.
Le tribolazioni per i migranti iniziavano ancor prima della partenza. Infatti, a differenza dei grandi porti europei dotati di “Ricoveri per emigranti”, quelli di Genova e Napoli non erano adeguati a gestire la grande massa di gente in attesa di imbarco. Infatti, «nelle stazioni marittime gli emigranti sono sottoposti a visita medica e i loro bagagli bonificati. Una volta espletate queste operazioni […] gli emigranti restano sulla banchina in attesa di partire». L’attesa era di non meno di dieci giorni e a volte superava anche il mese.
Con l’entrata in vigore della legge del 1901, le spese ‘in attesa dell’imbarco’ furono a totale carico delle Compagnie di navigazione. Ma anche in questo caso gli agenti, pur disponendo di locande autorizzate al ricovero, preferirono tenerle chiuse ed utilizzare case situate nei quartieri più sudici, ospitando i poveri migranti in ambienti con poca aria e luce, senza acqua, con pochissimi servizi igienici e con la gente che dormiva per terra o su appestati e nauseabondi giacigli. La presenza dello Stato era totalmente assente. Solo nel 1911, dopo il colera di Napoli, fu istituito il ‘ricovero obbligatorio di stato’ presso locande autorizzate, continuamente ispezionate e igienizzate.
Il grande traffico migratorio fu gestito soprattutto dalle compagnie di navigazione straniere, più organizzate e tecnologicamente avanzate, le quali già disponevano di confortanti piroscafi, mentre quelle italiane sfruttavano ancora bastimenti a vela obsoleti e poco idonei alle grandi traversate.
Si trattava di imbarcazioni prossime al disarmo, di vere e proprie carrette del mare. Questi “vascelli della morte” non potevano contenere più di 6-700 persone, ma ne caricavano più di 1.000 e partivano senza la certezza di arrivare a destinazione. Furono in molti a perire in quei tragici viaggi verso la speranza: 576 emigranti, quasi tutti meridionali, nel naufragio dell’’Utopia’, avvenuto nel marzo 1891 davanti al porto di Gibilterra; 549 emigranti, di cui numerosi italiani, nel naufragio del ‘Bourgogne’, avvenuto al largo della Nuova Scozia nel luglio del 1898; 1.198 emigranti, di cui numerosi italiani, nel naufragio dei due ’Lusitania’, avvenuti il primo nelle acque di Terranova nel 1901 e il secondo affondato da un sottomarino tedesco nel 1915; 550 vittime del naufragio del ‘Sirio’, avvenuto nel 1906 sugli scogli della costa spagnola di Cartagena. Ci sono innumerevoli altri casi, ma omettiamo di riportarli per questione di spazio.
In genere i migranti erano stivati in terza classe, in condizioni pietose e con scarsa igiene. In fondo non si trattava che di alcune “tonnellate umane” (così veniva chiamato il carico umano dei migranti) che “accovacciati sulla coperta, presso le scale, col piatto tra le gambe e il pezzo di pane fra i piedi, mangiavano il loro pasto come i poverelli alle porte dei conventi”.
Per dormire, «l’emigrante si sdraiava vestito e calzato sul letto, ne faceva deposito di fagotti e valigie, i bambini vi lasciavano orine e feci; i più vi vomitavano; tutti, in una maniera o nell’altra, l’avevano ridotto, dopo qualche giorno, in una cuccia da cane. A viaggio compiuto, ciò che accadeva spesso, era lì come fu lasciato, con sudiciume e insetti, pronto a ricevere il nuovo partente».
In tali condizioni, contrarre una malattia era molto frequente ed era inevitabile che alla fine di ogni viaggio si contassero diversi decessi.
Si pensi che molti furono i piroscafi a giungere a destinazione con delle perdite umane considerevoli. Il ‘Remo’, partito nel 1893 con 1.500 emigranti, registrò 96 morti per colera e difterite e fu respinto dal Brasile; l’’Andrea Doria’ nel viaggio del 1894 contò addirittura 159 morti su 1.317 emigranti (oltre il 12%); sul ‘Vincenzo Florio’ nello stesso anno i morti furono 120 su 1.321 passeggeri; nel 1894 sul ‘Carlo Riggio’ alla fine del viaggio si contarono ben 206 morti di cui 141 per colera e morbillo.
Oltre alle pessime condizioni igieniche e alimentari dei migranti, va osservato che, durante le avventurose migrazioni, su ogni nave vi era un solo medico, il quale disponeva di pochi medicinali e, paradossalmente, non vi erano né infermieri, né ambulatorio, né farmacia.
Finalmente l’arrivo!
Una volta giunti a destinazione, i migranti venivano sottoposti a rigorose visite mediche. Quelle effettuate dal personale sanitario statunitense erano accuratissime e prevedevano, inoltre, un periodo di “osservazione” per coloro che non superavano la prima visita medica. La località che ospitava i migranti “rivedibili” era l’isola di Ellis Island, nel golfo di New York. Al termine della “quarantena”, i migranti venivano sottoposti ad ulteriore visita medica e soltanto dopo ricevevano il nulla osta per entrare negli Stati Uniti. Erano in tanti i migranti che non superavano l’ultima visita, per cui erano costretti a tornare in patria. Le donne sole, anche se fidanzate, non potevano essere ammesse e dovevano celebrare il matrimonio con il proprio compagno, con un parente o un conoscente. I minorenni senza genitori dovevano trovare dei garanti e gli orfani dovevano essere adottati, altrimenti erano respinti.
Questo accadeva negli Usa, ma negli altri porti le visite mediche erano fatte con troppa approssimazione, per cui molti migranti portavano con sé a terra malattie gravi che, a volte, creavano veri focolai di epidemie tra le popolazioni locali.
In cerca di lavoro
Non appena i migranti toccavano terra, istintivamente erano portati a genuflettersi e ringraziare il buon Dio per averli fatti giungere a destinazione. Anche se affaticati, sporchi e laceri, quei poveri Cristo formavano compatti una sorta di associazione, che, meglio dei singoli, poteva curare i loro interessi e nel contempo difenderli da spregiudicati avventurieri locali. Insieme chiedevano lavoro, insieme si davano da fare per trovare casa e sistemarsi in quartieri dove già era presente una consistente comunità italiana, insieme facevano istanza alle autorità per essere garantiti nei loro principali diritti. Questo tipo di organizzazione diede il più delle volte ottimi risultati. Ed ecco che nelle grandi città americane si formarono spontaneamente le “Little Italy”, come a New York, Chicago, Montevideo, Buenos Aires, Sao Paolo, Sidney, Toronto.
Con pochissimi soldi in tasca ma con la grande voglia di lavorare, gli emigranti italiani non tardarono a trovare impiego. A loro furono riservate le fatiche più pesanti (rifiutate dai residenti), come le grandi opere stradali o ferroviarie, la costruzione di ponti e canali, la perforazione di gallerie, l’abbattimento di intere aree boschive, attività capaci di garantire un guadagno immediato da spedire alle famiglie rimaste in Italia. In questo modo, secondo il Commissariato dell’Emigrazione, negli anni precedenti la Grande Guerra le rimesse degli emigrati, frutto di risparmi, superarono i 500 milioni di lire l’anno (un’immensa fortuna, soprattutto per le banche italiane!).
I primi anni di lavoro furono durissimi, non tanto per il salario inadeguato al lavoro svolto, ma quanto per le assurde spese per acquistare medicinali, per usufruire del servizio medico-sanitario, per procurarsi un adeguato abbigliamento o per riparare la propria casa.
Molti non ce la fecero e s’indebitarono al punto da essere indotti a passare tra le fila dei malavitosi, ai quali si erano rivolti in precedenza per alcuni prestiti. I più continuarono tra mille stenti a portare avanti il lavoro massacrante e a tentare di trovarne un altro meno faticoso. Pochi furono baciati dalla fortuna, forse perché più intraprendenti e più votati al rischio.
Nell’Ovest americano e in Canada l’emigrazione italiana ebbe risvolti positivi in diversi ambiti: dal lavoro nei campi, alla coltivazione della vite e di altra frutta, alla pesca, al piccolo commercio. Nel 1910 le aziende agricole, di proprietà di italiani, erano già 2.500; in California, nel 1908, c’erano già cinque banche italiane, di cui la più famosa era la ‘Bank of America and Italy’.
Anche in Brasile alcuni migranti, dopo un periodo di sacrifici e stenti, riuscirono a costituirsi in cooperativa e ad acquistare la fazenda presso cui avevano lavorato. In pochi anni trasformarono quelle “colonie per dannati” in piccoli paradisi, dotati di ogni comfort, tra cui una chiesa, un piccolo ospedale, una scuola, una piazza in cui ritrovarsi la domenica, un teatro e, in seguito, un cinematografo.
Vi sono anche brutte storie legate ai migranti che racconterò solo superficialmente per non intristire ancor di più il lettore. Voglio soltanto ricordare che il 6 dicembre 1907, nelle gallerie della miniera di carbone di Monongah, cittadina del West Virginia, ebbe luogo il più grave disastro minerario della storia degli Stati Uniti d’America. Vi perirono ben 425 minatori, di cui 171 italiani. Ben più grave di quella di Marcinelle in Belgio (agosto 1956), in cui persero la vita 262 minatori, 136 dei quali italiani (alcuni erano originari di Casarano).
Conclusioni
Mi preme concludere la breve trattazione ricordando che questi “eroi della vita” hanno rappresentato, almeno per chi scrive, la parte migliore degli italiani; è stata gente autentica, fiera, forte, mai rassegnata a subire le sorti della vita, gente che ha osato sfidare “i tempi, il mare, l’uomo con i suoi innumerevoli tentacoli esiziali, un futuro con poche speranze”. Vanno tutti ricordati con grande rispetto e deferenza.
Coloro che rimasero in Italia e nulla fecero per trattenerli sul suolo patrio e farli vivere con dignità vanno messi all’indice, esposti al pubblico ludibrio della storia e… maledetti per sempre!
[1] Precisazione – Dal 1870 sino alla Prima Guerra mondiale i migranti italiani furono ben 14 milioni!