«Tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso», mi disse poco tempo fa un ex fornitore di materie prime alimentari per pasticcerie, originario di Ortelle, «Galatina era considerata la ‘capitale’ della pasticceria salentina». Non si tratta, in realtà, di un’opinione isolata e senz’altro non è nemmeno infondata.
All’epoca, infatti, l’arte pasticciera galatinese, oltre ad aver raggiunto un alto livello di qualità e una notevole varietà di prodotti, aveva perfino influenzato la produzione artigianale di Lecce e di diversi paesi della provincia grazie soprattutto al contributo lavorativo e agli insegnamenti di alcuni grandi maestri pasticcieri in verità non tutti originari di Galatina, ma che vi avevano operato per molti anni.
Per raccontare la loro storia, o quanto meno citarne alcuni, poiché ognuno di essi meriterebbe un articolo di approfondimento, occorrerebbe fare un passo indietro e ripercorrere alcune tappe interessanti delle attività imprenditoriali e artigianali galatinesi, ripartendo dall’inizio del secolo scorso.
Nei primi decenni del Novecento, assai difficili e travagliati sia prima sia durante i due conflitti mondiali, Galatina vede nascere pochi nuovi caffè e bar. A parte alcune eccezioni, le attività artigianali del settore dolciario, stando alle testimonianze dei pasticcieri più anziani, fino agli anni ’50 non possedevano ancora un grande assortimento di dolci e di articoli di pasticceria. Si ricordano, ad esempio, i classici fruttoni, le bocche di dama, alcuni tipi di pastarelle, i tarallini zuccherati o ‘nnasparati (glassati), gli africani, i mustazzoli (mostaccioli) ovvero una variante tipica galatinese, che pochissimi ancora fanno, chiamata cornule; ma venivano prodotti anche i buccunotti e persino i primi pasticciotti della provincia, che come vedremo diverranno sinonimi a metà degli anni ’50, per l’influenza della pasticceria leccese.
Andrea Ascalone (cl. 1865) nel ‘900 continua a coltivare, come prima di lui il padre Felice, una pratica artigianale e commerciale ancora riservata per lo più ai ceti benestanti. Offre servizi di banqueting in occasione di feste e cerimonie, in particolare presso alcune famiglie abitanti nel centro storico, come Tanza, Bardoscia, Micheli, Galluccio, Mezio, ecc.. Questi servizi offrono diversi generi di bevande alcoliche e una produzione basata anche sulla pasticceria, ma principalmente su gelati e sorbetti. Andrea Ascalone esercitò la sua arte per circa un sessantennio (ereditò la bottega nel 1882 e morì nel 1937), partendo dai semplici prodotti, che resero celebre suo padre: torroncini e pezzi duri, ed evolvendo anche la pratica artigianale pasticciera. Le carte della Camera di Commercio riportano alcuni indizi interessanti sulla sua attività, in particolare l’atto di «Vendita di Esercizio» (nr. 1991 di repertorio) rilasciato dal notaio Avv. Mario Finizzi l’11 gennaio 1952, dove il negozio e la licenza di «Gelateria e sorbetteria e pasticceria» passa da Addolorata Ascalone, moglie del compianto Andrea, alla figlia Filomena. Quest’ultima, quindi, in qualità di acquirente, diviene «proprietaria della maggior parte degli oggetti e del materiale di arredamento del suddetto negozio anche perché titolare delle licenze per la vendita di bevande alcooliche e caffè il [sic] superalcoolici e di liquori in bottiglia».
Nell’atto di vendita, troviamo elencati oggetti, strumenti e accessori da lavoro, che lasciano solo in parte immaginare in cosa consistesse l’attività di Andrea Ascalone: «due banconi da lavoro con piano di marmo; una macchina raffinatrice per mandorle; numero cinque calderine di rame per cottura; numero cinque sorbettiere per gelati; numero cinque vassoi di alpacca numero cento formette da gelateria in latta; numero cinquanta piattini vari da gelato; numero cento cucchiaini; numero venti biacchieri [sic] vari; numero trenta fprmette [sic] varie per pasticciere; Avviamento di esercizio comprendente l’intestazione della Ditta “Andrea Ascalone fu Felice”». Il fratello di Filomena, Salvatore (cl. 1902), pur essendosi dedicato agli studi classici, una volta riaperto il bar dalla sorella Filomena, negli anni ’50, cercherà di far proseguire l’attività paterna dirigendo, peraltro, l’attività di altri operai presso lo storico laboratorio artigianale, come ad esempio: Antonio Mangia (poi migrato in Francia), Antonio De Matteis (già pasticciere nell’atto di vendita di cui sopra) e, molto probabilmente[1], il figlio Andrea (cl. 1939), peraltro giovane frequentatore, sin dall’età di circa 15 anni, del laboratorio del Gran Caffè di Luigi (‘Gino’) Sabella (cl. 1909); poi, quando Andrea Ascalone andò all’estero, intorno al 1958, il padre si avvalse della collaborazione di un giovane Piero Tundo (cl. 1946), già apprendista sin dal 1955, il quale (lui stesso sostiene) porterà avanti il laboratorio quasi esclusivamente da solo, sotto la direzione di patronu Totu, fino al rientro (1967 ca.) di Andrea. Piero Tundo ricorda che ai suoi tempi la pasticceria Ascalone continuava a offrire ancora servizi di banqueting, in particolare: gelati, pezzi duri, torte, sorbetti e «la famosa cremolata»; la pasticceria produceva anche diversi tipi di paste, inclusi la bocca di dama, il fruttone e il pasticciotto.
Tra i primi esercizi sorti agli inizi del Novecento troviamo, in Piazza Alighieri (angolo via P. Siciliani), il Caffè Sammartino di Carlo Sammartino (n. 24/10/1884).[2]
Il locale di Sammartino comprendeva, al piano interrato, un laboratorio di pasticceria, nel quale operarono, secondo alcune testimonianze, anche dei pasticcieri siciliani. D’altronde, osservando una vecchia cartolina, appare molto esplicita la scritta ‘pasticceria’ impressa in prossimità dell’ingresso del locale. Inoltre, dai fascicoli relativi al processo fallimentare del 1933, si può dedurre come fosse articolato il genere di attività di Sammartino, leggendo gli inventari, all’uopo curati dall’Esattore. In un elenco estimativo, infatti, si trovano le «merci che sono descritte nei relativi verbali di pignoramento in danno di esso Sammartino Carlo», ad esempio alcune bevande alcoliche (marsala e vermuth), oltre a confetti, uova di cioccolata e cioccolate assortite di ignota provenienza, ma anche materie prime probabilmente utilizzate per una produzione artigianale propria: «[…] 5. Kg. 50 di confetture L. 150; […] 7. Circa N° 80 bomboniere vuote assortite L. 150; 9. Kg 30 di frutta candita in vasi, L. 80; 11. Kg 15 cacao in polvere e pani L. 45; […]».
Appare abbastanza chiaro che le confetture, la frutta candita e il cacao in polvere e pani dovessero essere ingredienti utili all’attività pasticciera; ad esempio, possiamo immaginare: fruttoni, buccunotti o altri generi di paste fresche. Le bomboniere, invece, potevano servire per dei servizi di banqueting all’uopo organizzati da Sammartino. Nei fascicoli, non ho riscontrato nulla che parli di forme o altri articoli accessori per la produzione pasticciera. Tuttavia, ciò non vuol dire che Carlo Sammartino non ne possedesse; anzi, è possibile che siano stati conservati per essere riutilizzati, allorquando l’esercizio venne riaperto dalla sorella Anita in Piazza S. Pietro. Infatti, qui vi fu un altro laboratorio di pasticceria, presso cui ha lavorato, ad esempio, un bravissimo pasticciere siciliano di cui purtroppo non ricordiamo più il nome, ma che sappiamo aver insegnato l’arte al maestro Enrico Surdo, il quale iniziò a frequentare il Caffè Sammartino nel 1941, già all’età di 5 anni; nel 1955, il medesimo laboratorio di pasticceria iniziò a frequentarlo, a circa 7 anni di età, il maestro Fedele Uggenti. Alcuni ricordano ancora che questa pasticceria negli anni ’50 produceva: bocche di dama, fruttoni, buccunotti (pasticciotti) e degli ottimi spumoni. Qualcun altro ricorda invece il ‘bar de lu Ferdinandu’, praticamente la porta accanto al Coloniali di Armando Casalino (subito affianco al Sammartino), ufficialmente attivo dal 1947 al 1967 [3]. Alcuni ricordano che i primi avventori di questo bar furono cacciatori, operai e contadini, perciò il proprietario, Ferdinando Dimitri, apriva ben prima dell’alba e nel retro bottega teneva sempre pronte delle caffettiere per la preparazione sia di orzo sia di caffè, a volte corretto con anisi (anice); finché rimase aperta l’attività, alcuni ricordano che smerciava anche liquirizie di vari tipi (‘girelle’, ‘pesciolini’), tavolette di cioccolato Ferrero e altri cioccolatini, confetti cannellini, mandorle ricce, ecc..
Dopo la dichiarazione di fallimento di Carlo Sammartino, il locale in Piazza Alighieri venne acquisito da Pietro (‘Pietruzzu’) Cafaro, che terrà il caffè omonimo fino al 1965.[4] Il laboratorio di pasticceria fu utilizzato, anche durante la sua attività, da alcuni maestri pasticcieri tra cui, ad esempio, Antonio Montagna (detto ‘Mascio’), mentre, sembra che qui abbia iniziato la sua attività di banconista, prima di essere ceduto al Bar delle Rose nella seconda metà degli anni ’50, il futuro pasticciere Antonio (‘Uccio’) Matteo.
Il caffè in Piazza Alighieri non fu la prima attività di Pietro Cafaro: aveva già aperto, nei primi del ‘900, un altro bar in Piazza S. Pietro, dallo stesso lato della facciata della chiesa matrice. Una volta trasferitosi in Piazza Alighieri, lasciò l’altra attività, nel 1921, ai cognati Giuseppe Gaballo e Giuseppina Samueli. Questi ultimi, intorno al 1940, lo lasceranno in eredità al figlio Biagio (‘Biagino’) Gaballo, che dal 1970 consisteva ufficialmente un’attività di «lavorazione e vendita al minuto di pasticceria e bar» (cfr. fasc. CCIAA). Fu allora che prese il nome di Santis Bar, in onore della figlia Santina, la quale lo terrà dal 1974 al 1982. Presso il bar-pasticceria di Biagino Gaballo si riforniva di gelato e di ghiaccio Pietro Esposito (padre di Leonardo attuale titolare e pasticciere dell’omonimo bar in via Soleto), il quale, per passione, vendeva gelati con il carretto, appostandosi spesso in Piazza Alighieri. Santina Gaballo ricorda che la produzione propria dei suoi genitori includeva: «taralli zuccherati e cornule («dei mostaccioli, ma di forma piatta, romboidale e molto più grandi dei mostaccioli»). Riguardo i gelati, la specialità erano i moretti e gli spumoni».
Pietro Esposito non era l’unico ad utilizzare il carrettino per la vendita di gelati, che all’epoca venivano ancora ricavati con un rudimentale mantecatore manuale, mentre a vendere il ghiaccio, c’era anche Pantaleo Donadei, il quale aveva il locale sul lato ovest del Castello Castriota Scanderbeg e vendeva anche acqua, birra, vino e altre bevande dissetanti.
Un laboratorio artigianale, a cavallo degli anni 50, era ubicato in via Vittorio Emanuele, 22, che all’epoca era adiacente il Circolo cittadino, ed entrambi compresi nell’attuale sede della Polizia Municipale. Era gestito da Giuseppina Vozza e Antonio Calabretti e produceva: tarallini glassati, cornule (di forma trapezioidale e allungata) fruttoni e bocche di dama.
Un altro laboratorio di pasticceria provvisto di forno a legna era ubicato dietro la chiesa Madre, presso Corte Taddeo. Sembra che anche qui abbia lavorato Antonio Montagna, il quale produceva degli articoli di pasticceria per alcuni punti vendita dell’epoca, tra cui quello situato presso Palazzo Gaballo, in via Vittorio Emanuele II, 23, gestito da una famiglia Ascalone, distinta dall’omonima proprietaria della celebre pasticceria affianco, presso Palazzo Mezio. Nello stesso laboratorio, tra il 1969 e il 1971 vi lavora anche Enrico Surdo, che nel frattempo ha aperto un punto vendita affianco al Caffè Sammartino, all’angolo tra Piazza S. Pietro e Piazza Alighieri, e poco prima di aprire l’Indian Bar in via P. Cafaro. Enrico Surdo è un esperto pasticciere, abile nella produzione di dolci e paste tradizionali galatinesi e di torte, ma anche dolci siciliani come: gli spumoni (o scumoni, in siciliano), la bocca di dama (del tutto simile ai catanesi seni di Sant’Agata) e la frutta martorana, ma realizza a mano anche degli straordinari pesci e agnelli di pasta di mandorla. È tra i primi, insieme al maestro Raffaele (‘Rafelino’) Bello, a produrre i rustici a Galatina, presso l’American e il Bar delle Rose.[5] Fu lo stesso Rafelino a introdurre, negli anni ’60, la pasta sfoglia a Galatina e perfino a esportare il rustico galatinese a Lecce, nel 1970. Sono gli anni in cui la rosticceria incomincia a comparire presso alcuni bar, visti anche i successi dell’attività di Uccio Gemma, che negli anni ’50 aveva fatto venire un pizzaiolo napoletano per produrre le prime pizzelle e calzoni in Piazza Alighieri 67. Ed è dall’unione tra questi due tipi di attività, di rosticceria e di pasticceria che, per motivi di praticità, vengono realizzate le prime craffe (krapfen) a forma di calzone. Alla fine degli anni ’60 ne vengono smerciate in quantità soprattutto presso il punto vendita di Silvano Rollo, di fronte al Teatro Tartaro, mentre il laboratorio era ubicato presso l’attuale forno in via Marche. In quel laboratorio vi operava il maestro Uccio Marino (di Lecce), che insegnò l’arte pasticciera a molti futuri professionisti, tra i primi: Leonardo Cuna e Aurelio Lagna (titolare e pasticciere del Bar S. Antonio in Piazza Toma G.).
Nel 1926 (ufficialmente nel 1931) apre un’altra importantissima attività a Galatina: il Gran Caffè di Luigi (‘Gino’) Sabella (cl. 1909). Lo stesso, nei primi anni ‘70 aprirà anche l’Elis Bar, in via Principessa Iolanda. Sembra che il maestro Gino Sabella avesse iniziato da piccolo (1915 ca.) presso alcuni pasticcieri di Sammartino, di cui uno siciliano. Le sue vetrine sin dai primi anni sono quelle più fornite a Galatina; perciò, oltre alle classiche paste secche, bocche di dama, fruttoni e mostaccioli, esse espongono anche torroncini, i cosiddetti dolcetti della sposa o sospiri (probabilmente di origine calabrese), gli sciù (dal nome della pasta francese: choux), ossia delle specie di grossi bignè alla crema, africani, taralli glassati (‘nnasparati), la copeta, i quaresimali, paste alla frutta (di pasta frolla, farcite di marmellate a pezzi, ricoperte con la frolla e infine altre mandorle sopra). Gino Sabella produce anche pezzi duri, la cremolata (una specie di spumone, servito in calici di argentone) e vari tipi di torte, in genere ordinate per determinate occasioni, ma alcune sono anche adatte a essere spedite in America in confezioni di legno create artigianalmente. Non manca di offrire servizi di banqueting in occasione di matrimoni e altre cerimonie relative ad eventi civili o religiosi familiari. Produce svariati dolci di pasta di mandorla, quindi i classici pesci e gli agnelli pasquali, ma anche frutta d’ogni tipo e ortaggi, servendosi di stampi in gesso realizzati da lui stesso.
La sig.ra Gilda Turlo, sua nipote, ricorda che «lo zio Gino» riproduceva, con realismo impeccabile, anche dei piatti di ciciri e tria (pasta e ceci), sempre con la pasta di mandorla, sistemati dentro a dei piatti di copeta. Gino Sabella è il primo a Galatina anche a fare le tipiche zeppole (napoletane) di S. Giuseppe, fritte rigorosamente nello strutto, proprio come prescritto in alcuni celebri ricettari antichi.
Non ricorda della frequenza di Andrea Ascalone presso la pasticceria di suo zio, poiché a diciotto anni era andata a Roma. Ricorda, invece, che Gino Sabella non aveva difficoltà a prendere con sé dei giovani ai quali insegnare l’arte ed anzi dava loro anche la ‘paghetta’, all’occorrenza. Il suo esercizio, infatti, non prevedeva la figura del banconista, perciò i ‘ragazzi’ erano assieme a lui nel laboratorio. Tra questi, ricorda: Piero Gatto, Pietro Esposito, forse anche Biagino Gaballo e Uccio Matteo.
Sostiene che i buccunotti contenessero «pasta de mendula e mandorla sbriciolata» ed erano di forma tonda, distinguendoli così dai pasticciotti, alla crema e di forma ovale. Sostiene, peraltro, che quelli dello «zio Gino» furono i primi a essere prodotti a Galatina, tra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’30. Durante un’intervista, mi mostra con orgoglio un fagotto pieno di decine e decine di forme per pasticciotti. Sono tutte prodotte artigianalmente dagli stagnini galatinesi, l’ultimo di loro Pietro Giaccari, scomparso l’anno scorso all’età di novant’anni. Ricorda che all’epoca lo «zio Gino» era famoso per i suoi pasticciotti e che all’età di 14 anni (1949), lo aiutava a farli, servendosi di un comune fornello elettrico da cucina, dove ne entravano al massimo due dozzine per volta. È stata, in pratica, la prima donna a Galatina a produrre i pasticciotti per una pasticceria, prima di tanti altri maestri galatinesi e leccesi.
La produzione di Gino Sabella era continuamente stimolata dalla frequenza di insegnanti e studenti provenienti dal Liceo-Ginnasio del prospicente Convitto Colonna. Questo, nel tempo, ha fatto sì che conoscesse le esigenze della clientela più esigente; viceversa, per molti anni ebbe anche l’opportunità di far conoscere le sue creazioni a famiglie facoltose di Lecce e di altri paesi della provincia, che mandavano i propri figli a Galatina a frequentare il Liceo. Tutto ciò sarà anche di stimolo per l’evoluzione e la nascita di molte future attività, sia a Galatina stessa sia fuori.
Ma, a parte i contributi fondamentali degli anonimi pasticcieri siciliani, dello stesso Gino Sabella e di alcuni dei maestri già menzionati, quali altri pasticcieri hanno partecipato all’arricchimento e alla diffusione del sapere nella seconda metà del ‘900?
[continua…]
[1] Da un’intervista all’ex pasticciere Piero Tundo emerge che Andrea Ascalone, quando lo ha conosciuto lui, «era disculu», cioè, spiega, a quei tempi era piuttosto restio a lavorare con il padre, perché aveva un rapporto piuttosto conflittuale con lui.
[2] Dalle carte risulta che la “Ditta Fratelli Bancale” di Mario Bancale, con sede in Rionero in Volture (PZ), fu denunciata da Carlo Sammartino il 3 maggio 1922 in quanto l’acqua “Fonte Italia” spedita al proprio recapito fu giudicata non salubre. Evidentemente, quindi, il Caffè Sammartino era attivo prima di quella data. A.S.L., Tribunale civile e penale di Lecce, Serie: Processi Fallimentari, aa. 1864-1936, B. 265, processo n. 1953, fallimento: Sammartino Carlo, attività: esercente caffè e bar, località: Galatina, anno: 1933, cons. fascc: 2.
[3] Subito dopo Ferdinando Dimitri, per circa un anno lo stesso locale, probabilmente, fu in possesso di Lorenzo Derniolo, che poi riaprì il proprio Bar Eros presso l’attuale sede, sempre in Piazza S. Pietro.
[4] Dal 1965 al 1985 fu di Antonio Calò che lo intitolò Garden Bar. Successivamente, fu acquistato da Carmine Gentile, divenendo sede dello Snack delle Rose.
[5] Ricordi dei maestri Orazio Contaldo e Adolfo Perrone.