Non molto tempo fa, parlando del più e del meno con una ragazza appena conosciuta, alla sua domanda “Di dove sei?”, ho risposto “Otranto”.
“Ah!”, ha ribattuto, “sei una fìgghia te li Turchi!”.
Un po’ indispettita, le ho reso pan per focaccia, dicendole: “Piacere di conoscerti, Ciùccia!”.
È così, infatti, che sono denominati gli abitanti di Botrugno, piccolo centro di Terra d’Otranto.
Credo di averla un po’ sconcertata, ma in fondo ho solo dato a “Cesare quel che è di Cesare”.
Ci siamo mai chiesti quando e in quale circostanza sono nati questi epiteti così bizzarri, spesso offensivi ed altre volte comici, che noi salentini ci portiamo dietro da tempo immemore? In passato, prima che i mass-media, le auto, gli aerei e i telefoni giungessero a facilitarci la vita, le persone vivevano chiuse nei loro borghi di origine, spostandosi con il carretto, trainato da cavalli o da buoi, solo in poche occasioni e per corti tragitti.
Per passare il tempo, fantasticavano sul mondo circostante e, in particolar modo, si chiedevano quali “trogloditi” potessero vivere nei paesi vicini e quali strane abitudini potessero avere.
A questo scopo, si servivano dei pochi elementi a loro disposizione, ottenuti da qualcuno che, anche solo una volta nella vita, si era recato nei paesi circostanti e aveva fatto poi ritorno a casa dicendo: “Che cafoni ho incontrato in quel luogo dimenticato da Dio e dagli uomini! Sono tutti zoppi e le donne hanno barba e baffi!”. Naturalmente si era propensi a vedere ciò che si voleva vedere e si costruiva, intorno ad una banalità, una storia incredibile. Tutto fuorché la realtà, insomma.
Ad accrescere queste fantasie, poi, ci si mettevano anche le animosità e le invidie che esistevano tra città e città, dovute ad antichi rancori, a tradimenti, a rivalità sul lavoro.
Come ogni ricetta, anche questi soprannomi paesani presentavano, e hanno tutt’oggi, innumerevoli ingredienti che ne costituivano l’efficacia. Tra questi, i principali erano rappresentati certamente da una pungente cattiveria e da una straordinaria immaginazione, seguiti da alcune caratteristiche che contraddistinguevano uno o l’altro villaggio ed i suoi abitanti. Ecco che nasceva l’ingiuria.
Anche se oggigiorno i nomignoli non sono più usati col fine di danneggiare e oltraggiare qualcuno, per alcuni dei nostri anziani hanno ancora un significato offensivo.
Tali epiteti fanno ancora parte della nostra tradizione ed è interessante soffermarsi ad analizzarli, perché, risalendo alle loro origini, si possono conoscere considerevoli notizie circa gli usi dei tempi che furono. Infatti, ogni soprannome cittadino, così anche individuale, racconta una storia diversa, la storia dei nostri padri, la storia della nostra terra.
Elencare tutte le ingiurie esistenti e spiegarne l’evoluzione sarebbe un’impresa ardua, per non dire impossibile, mi limiterò, pertanto, a citare solo alcuni dei tantissimi soprannomi esistenti nel Salento, precisando che il mio scopo è puramente informativo.
In poche parole… che nessuno si offenda! Orsù, dunque, iniziamo il nostro viaggio alla scoperta degli appellativi salentini.
Gli abitanti di Bagnolo sono conosciuti con il nome di “Zzucàri” (cordai). Il nomignolo fu affibbiato per via del caratteristico artigianato locale, oggi scomparso, delle “zzuche”, corde intrecciate con alcune fibre naturali che crescevano spontaneamente lungo le rive dei Laghi Alimini.
Alla gente di Scorrano si attribuisce un duplice epiteto: “Pedi nìuri” (piedi neri) e “Cucuzzari” (teste di zucca). Il primo nome rispecchia la particolarità degli scorranesi di avere le estremità nere, quando, durante la raccolta delle olive, camminavano scalzi e si sporcavano con la terra. La seconda ingiuria si riferisce, invece, alla produzione di zucche, nell’antichità molto diffusa in questo paese.
I cittadini di Gallipoli sono soprannominati gli “Uttari” (costruttori di botti), poiché negli anni in cui questa città vantava un intenso traffico commerciale di vino e di olio, si rese necessaria una cospicua quantità di botti di legno per trasportare tali prodotti. I gallipolini, così, crearono intorno ai “barili” una redditizia attività che divenne famosa e apprezzata in tutta Italia.
Gli abitanti di Poggiardo erano chiamati dalla gente degli agglomerati urbani attigui “Licca viddhànzie” (lecca bilance). Quest’epiteto metteva in risalto un comune attributo dei poggiardesi: la tirchieria. Si narra che, durante il mercato settimanale, costoro aspettavano gli ultimi minuti per comprare ciò di cui avevano bisogno, perché i prezzi scendevano proprio sul finire della giornata. Di ciò che avevano acquistato, poi, non rimaneva nulla.
A Galatina sono definiti “Cuccuasci” (civette) e “Carzi larghi” (guance larghe). Il primo epiteto, frutto di una spiccata fantasia, sta per “gente credulona”. Si narra, infatti, che, molti secoli or sono, un contadino del luogo, dopo la mietitura del grano, soddisfatto del proprio lavoro, rimirava i covoni nell’aia. Improvvisamente una civetta cominciò a stridire. Il buon uomo si convinse che l’animale stesse reclamando per sé il raccolto e iniziò a dargli contro. Poiché la civetta insisteva, il contadino decise di scendere a compromessi chiedendole la metà del mietuto. L’animale continuava nel suo “cuccuìu”, ma l’uomo capiva “tutto è mio”, fino a quando, disperato ed esasperato, sentenziò: “Niente a nessuno!”, e così appiccò il fuoco ai covoni, distruggendo il raccolto. Il significato del secondo appellativo, “Carzi larghi”, è da ricercare nel modo di parlare dei galatinesi, che provoca il continuo allargarsi delle guance, in vernacolo “carzi”, ma non è da escludere la vanità e l’arroganza degli stessi.
L’epiteto “Passaricchi” (passerotti), si usa per denominare i cittadini di Maglie ed è sinonimo di “semplicioni”. A chiarire tale scelta è il seguente episodio. Si racconta che, anni fa, le campagne di questo feudo furono invase da una moltitudine di passeri. Gli agricoltori, preoccupati per i raccolti, decisero di innalzare sui muri di cinta dei loro poderi una barriera di rovi, in modo da impedire il passaggio ai volatili. Ben presto, però, dovettero constatare che gli uccelli continuavano a fare razzia (ovviamente) e, non riuscendo a darsene una spiegazione, i magliesi furono giudicati come degli “ingenui senza cervello”.
I “Macari” (stregoni), invece, sono gli abitanti di Soleto. E’ appurato che, fino alla prima metà del secolo scorso, in questo centro vivevano misteriosi personaggi che, praticando magie e sortilegi di ogni tipo, aiutavano la gente a liberarsi da influenze negative, preparavano filtri d’amore alle ragazze ancora nubili e mandavano maledizioni su commissione.
Il popolo di Ruffano, rappresentato per la maggior parte da contadini, era effigiato del nome di “Mangiafriseddhre”. La “friseddhra”, specialità culinaria tipica del Salento, era, ed è, un alimento semplice che si prepara in poco tempo. Ecco perché i ruffanesi, lavorando tutto il giorno nei campi e avendo a loro disposizione pochi minuti per consumare il pranzo, portavano con sé tale cibaria, la quale era sufficiente a fornire l’energia necessaria per affrontare l’intera giornata.
A Giurdignano i cittadini sono soprannominati “Tignusi”, nome all’apparenza molto offensivo, ma che in realtà rispecchia una triste verità. Difatti, fino a più di cinquant’anni fa, prima delle opere di bonifica, questo villaggio era circondato da paludi malsane che nascondevano fra le proprie acque stagnanti, malattie ed infezioni, tra le quali la tigna.
Chiudo la mia panoramica con Carpignano, i cui abitanti sono definiti “Giudei”, sia per la loro poca propensione verso il prossimo, sia per la loro tendenza al tradimento. A tale proposito è da ricordare un episodio, vero o presunto, che si verificò durante una processione del “Corpus Domini”.
Un improvviso temporale causò un fuggi fuggi generale e, in quel frangente, i carpignanesi che trasportavano la pisside contenente l’Ostia, per correre ai ripari, pensarono bene di abbandonarla sotto un lavatoio, ai bordi della strada. Tale comportamento non fu di certo degno di lode.
Termina qui la “piccola storia” dei soprannomi paesani salentini. Se ognuno di noi si soffermasse a riflettere, capirebbe che anche il nomignolo più offensivo e terribile, può racchiudere in sé qualcosa di storico e divertente.
Non importa se siamo “Vintri ianchi”, “Porci”, “Macari”, “’Ncracalati”, “Mangiacozze”, “Macinnulari”, “‘Mposamati” o quant’altro, perché dentro di noi sappiamo di essere tutti uguali, anche se troppo spesso lo dimentichiamo. Io sono fiera di essere un po’ “Fìgghia te li Turchi”, un terzo “Pignatara” e un po’ “Lardusa”, perché nel mio essere si fondono tre realtà diverse, seppur vicine, ciascuna con le sue peculiarità. Io rappresento l’incontro fra tre paesi dai tratti multiformi: Otranto, città in cui vivo, Cutrofiano e Castrignano, paesi nativi dei miei genitori. E sono certa che ciascuno di voi, ricomponendo il suo albero genealogico, troverà tra i propri antenati un “macaro” soletano o uno “zzucàro” di Bagnolo.
E’ il caso di dire: “Tutto il mondo è paese…”.