Gli sfollati del ‘43
di Emilio Rubino
Col termine sfollati venivano indicati, durante la seconda guerra mondiale, i profughi, cioè tutti coloro che, per il verificarsi di eventi bellici, erano costretti ad abbandonare la propria casa o, addirittura, la propria patria per andare in luoghi lontani, risparmiati dalla furia della guerra. Si trattava di gente, di famiglie distrutte, senza ormai alcun bene, che, o volontariamente o d’autorità, erano costrette a trasferirsi altrove.
Dopo l’invasione anglo-americana del 1943, Nardò ospitò enormi masse di sfollati che furono collocate dalle autorità di occupazione nelle tantissime abitazioni requisite, sparse nel suo immenso feudo, in modo particolare ai Massarei, alle Cenate Vecchie e Nuove, a Mondonuovo, a Santa Maria al Bagno e a Santa Caterina. Si trattava prevalentemente di ebrei di varie nazionalità, come serbi, rumeni, polacchi, greci, ecc., sfuggiti alle persecuzioni dei nazifascisti. Rimasero nostri ospiti sino alla fine della guerra; dopodiché poterono tornare nei luoghi di origine o nella biblica terra promessa d’Israele, dove fu fondato il nuovo Stato. Furono decine di migliaia gli stranieri confinati nelle nostre terre, i quali si portarono dietro l’incubo e l’angoscia di aver perduto nella loro patria, oltre che i beni, anche molti dei loro congiunti.
I profughi erano assistiti dalle truppe inglesi, che si avvalevano anche di soldati di colore. Ovunque vi erano servizi comuni di vettovagliamento e di sussistenza. Per tale motivo abbondavano le cucine da campo, i carri-botte per la distribuzione di acqua potabile, i camion per il trasporto di pane, di indumenti e quanto altro necessario. Vi era un continuo via vai di mezzi motorizzati di ogni specie scortati dalle forze armate, che si incrociavano lungo le strade polverose delle nostre contrade. Insomma era stato costituito un immenso campo profughi.
Recarsi da Nardò verso la sua marina era tutto un susseguirsi di case, ville e villette situate in piccoli appezzamenti, quasi sempre circondate da parchi pieni di verde e, lungo le coste, agglomerati urbani e case sparse che si affacciano sull’azzurro dello Ionio. Contrade che ci sono state sempre care e che in quegli anni di guerra furono spesso rifugio di neritini per paura che Nardò fosse colpita dalle bombe o quant’altro.
Poi, con l’arrivo delle truppe di liberazione, dovemmo subire il peso delle decisioni del vincitore: evacuare ogni casa e metterla a disposizione degli stranieri travolti da quella guerra. Guerra che, in verità, anche noi italiani avevamo concorso a scatenare, andando a rompere le scatole (fosse stato solo quello!) proprio a quella gente che ora la faceva da padrone.
Per la verità dobbiamo pur dire che questa “invasione” fu molto salutare per tutti i neritini. La guerra ci aveva ridotti alla miseria e alla fame più nera, che neppure il contrabbando era capace di alleviare. Contrabbando che era alimentato, in particolare, da alcuni proprietari terrieri, i quali, in barba all’ammasso obbligatorio, nascondevano i sacchi di grano, di orzo, di avena, di legumi e i grossi recipienti di olio e di vino, addirittura murandoli in casa o in campagna, per poi venderne piccole quantità per volta a prezzi da strozzini al popolo affamato.
Mancava di tutto e quel poco che il mercato poteva offrire, come indumenti e generi di prima necessità, era sempre insufficiente. Il razionamento, poi, non garantiva neppure il minimo necessario. Ogni alimento o bene di prima necessità era razionato dalle autorità cittadine e, per poter usufruire della quota personale giornaliera di zucchero, olio, latte e pane si doveva esibire la tessera e disporsi in una fila interminabile sotto la pioggia o il sole cocente.
Di pane, ad esempio, ogni cittadino poteva avere 150 grammi al giorno. Era miseria vera, ancor di più acuita da un’insaziabile fame, una fame che cresceva maledettamente sempre di più e che era avvertita in particolar modo dai bambini e dagli anziani. Era una fame senza fine, alla quale non si poteva resistere. E noi, a piedi, come in una processione, andavamo a trovare gli sfollati, casa per casa, villa per villa, a chiedere di venderci del pane e tutto ciò che si poteva mangiare.
Quello che gli ebrei ci vendevano era il pane più buono e più profumato del mondo, un pane benedetto, che mangiavamo con gli occhi, prima ancora di addentarlo con la bocca; pezzi di pane grossi come ruote di traino, bianco come la neve, soffice come gommapiuma: era la manna che gli ebrei dopo millenni si erano portati dietro!
E poi scatolette di carne, legumi, riso, ecc., coperte per confezionare cappotti e stoffe per indumenti e vestiti. Ma tutto doveva esser fatto in poco tempo e con la massima attenzione, perché da un momento all’altro potevano piombare i Carabinieri, se non addirittura la Military Police inglese, per toglierti quello che era stato comprato, rischiando addirittura di finire in prigione, se si era recidivi.
In tali condizioni di estremo bisogno, guardavamo con ammirazione questi stranieri ed avevamo invidia del loro benessere, senza però comprendere il loro grande dramma.
Erano tempi d’oro per i contrabbandieri di ogni risma. C’erano non pochi neritini (quelli più furbi e senza alcuno scrupolo), che si erano messi al servizio degli inglesi o degli americani, accettando di ricoprire perfino lavori molto umili, come veri e propri sguatteri. In tal modo riuscivano, di riffa o di raffa, a ricavare un mucchio di soldi, a procacciarsi della cioccolata, scatolette di carne che distribuivano con parsimonia ad amici stretti e a parenti, ma che vendevano ad estranei a caro prezzo. Facevano anche essi gli stranieri: in pratica emulavano gli americani. E degli americani avevano i vestiti, copiavano il loro modo di fare, scimmiottandoli in tutto, anche nel linguaggio: “Okay… Come on… Tank you!”. Avrebbero potuto girare un film, alla stessa stregua di quello interpretato qualche anno dopo da Alberto Sordi, con una lieve differenza nel titolo “Americani a Nardò”.
Con le truppe di liberazione si fraternizzò immediatamente. D’altra parte il neritino è tutto cuore, assai fraterno ed amichevole, facile nelle relazioni umane.
Ed io, da ragazzino, ricordo che si stava bene anche con i soldati germanici, i primi stranieri che avevo conosciuto in vita mia. Insieme ai soldati tedeschi di sera cantavamo, seduti sul ponte di San Cosimo e nel buio più totale, la famosissima canzone Lily Marlen, al suono di una armonica.
Poi i tedeschi divennero nostri nemici e ci buttarono nelle camere a gas e nei forni crematori, mentre gli inglesi, che in precedenza ci avevano bombardato giorno e notte, diventarono nostri amici. Quanto sono buffi e strani gli uomini: prima si abbracciano e poi s’ammazzano!
Il comando generale degli inglesi era nella dimora più bella delle Cenate Nuove, la villa Lezzi, mentre come spiaggia frequentavano la baia di Porto Selvaggio. A Nardò-centro vi era un loro distaccamento nei pressi del Castello, ove ora c’è la sede “La Fondiaria”.
Ricordo un episodio molto caratteristico, che non dimenticherò mai. Un biondo e segaligno soldato inglese, che frequentava spesso il Cine-Teatro Comunale, era solito “familiarizzare” un po’ troppo con i ragazzi, verso i quali… allungava le mani, ricevendone ingiurie e improperi. Una sera, però, andarono oltre, rompendogli addosso una sedia.
Anche con gli sfollati, accomunati nella stessa grande tragedia della guerra, ci fu subito fraternizzazione, tant’è che alcuni giovani ebrei ebbero a frequentare le scuole pubbliche della nostra Città.
Poi, quando finalmente il conflitto bellico ebbe termine, i profughi tornarono nelle loro rispettive patrie.
Una cosa è certa. Ancor oggi noi ricordiamo il loro volto, anche se un po’ vago e sfumato. Anche essi, nonostante l’incedere dei tempi, non avranno sicuramente dimenticato quell’antica ospitalità, quella solidarietà ed amore, che concedemmo loro a piene mani.
Si sa che l’amore è presente soltanto nella casa dei poveri. Oggi forse avremmo senz’altro familiarizzato con loro, ma non più di tanto.