PIJÀTILE!

di Pippi Onesimo

Accostati alli stàntari della vetrata d’ingresso e con un piede poggiato su llu pazzulu che delimita il limbatale dal pianerottolo della scala, i due uscieri de lu Circulu de li Signori chiacchieravano fra di loro, mentre erano particolarmente attenti a seguire con lo sguardo le Signurine in passerella.

Circolo dei Signori

Al momento erano libberi de servizzie; infatti lu Ucciu, col suo immancabile muzzone de sicaretta fra le labbra, fletteva con i pollici di entrambe le mani accostati alla pancia gli elastici delle sue variopinte bretelle, mentre ‘u Cici, l’inseparabile collega, rimaneva in pensieroso silenzio.

Poi, con diplomatica aria distratta, abbozzavano un fugace sorrisetto compiaciuto ed eloquente, mentre scambiavano una breve, indecifrabile battuta (sicuramente un complimento) cu mmesciu Pippi Mengoli, titolare della omonima barberia posta di fronte.

Più in alto, sollevando il capo verso la Torre dell’Orologio e superando una bacheca in legno dove venivano pubblicizzati i film in programmazione nel “Cavallino Bianco“, salutavano con deferente ossequio anche don Cicciu Bardoscia, affacciato allu perpitagnu del terrazzo del suo palazzo, mentre trafficava cu lla pumpetta de lu flitti, china de prufumu alla lavanda.

Ogni giorno ripeteva la stessa liturgia nel provare e riprovare l’efficienza, la gittata e la rosa dello spruzzo.

Aveva cominciato a usare questo strumento a pressione, con l’inaugurazione del Cine-Teatro “Cavallino Bianco“ nel lontano 1949, quando ancora non si erano spente le ultime note del “Rigoletto“ con gli acuti sfarzosi del tenore di turno che concludeva la romanza de “la donna è mobile“, o con le grevi e dolenti invettive lanciate contro i “cortigiani, vil razza dannata”.

Questa sterpaglia (i cortigiani moderni, simbolo permanente di “servo encomio“ e sempre in cerca di favori, di incarichi e… del pagamento delle cambiali elettorali), ancora oggi purtroppo, vegeta con lussureggiante intraprendenza, evidenziando senza alcun ritegno tutto il fulgore del suo infinito processo di fotosintesi clorofilliana.

Via V. Emanuele II – 1943

E’ sempre la stessa razza, verde e rigogliosa, anche se dall’incrocio di via Siciliani, via Cavoti e lu Paranza, dove, intorno agli anni ’90 del secolo scorso, cresceva con sfacciata e indomita improntitudine, ora si è disseminata con più discrezione fra i semafori di Piazza Toma, o vicino allu Barra de Sant’Antoni, o vicino all’ex casa de lu Cioffi, o in Piazzetta Orsini fra lu Cafè de la Basilica e lu Caty Barra.

E proprio vicino alla Comune, nonostante l’arsura, attecchisce più facilmente fra le chianche, sconnesse dalla furia irriverente del traffico automobilistico e… dalla insipiente, delittuosa indifferenza di tutte le Amministrazioni pubbliche, fino ad oggi succedutesi.

Quelle di fronte alla Basilica, un anno fa, sono state riposizionate due volte… a spese di Pantalone!

La stessa Basilica è ancora in piedi per miracolo, per cui s’impone un imperativo categorico, a cui nessun Amministratore, o cittadino, o operatore economico del Centro Storico può sottrarsi: salvare oltre sei secoli di storia, di arte e di cultura, tutti testimoniati con legittimo orgoglio dalla Chiesa di Santa Caterina!

Piazzetta Orsini 1902

Trovate qualunque soluzione per il traffico veicolare nel Centro Storico:

– magari comprate qualche elicottero ai poveri clienti, che, avendo perduto l’uso delle gambe, possano planare dolcemente sulla soglia dei negozi;

– o distribuite tickets gratuiti per i parcheggi a pagamento, disseminati con provvida abbondanza nelle immediate vicinanze del Centro e non sempre completamente utilizzate.

Ma non dimenticate di ridimensionare subito il traffico della autostrada (Piazza San Pietro/Corso Vittorio Emanuele/Corso Umberto I°), che scarica ogni giorno centinaia di macchine su Piazzetta Orsini.

E fate presto, prima che l’Unesco rischi di acquisire al patrimonio dell’Umanità, non la Basilica di Santa Caterina, ma un rudere sconsolatamente diroccato, in compagnia di un patetico mucchio di macerie!

Via Pietro Siciliani 1903

Don Cicciu (comproprietario, ab origine, del Cine-Teatro) maneggiava la pumpetta ogni sera con rituale, maniacale, puntualità, “per cambiare l’aria“ (diceva con candido e disarmante convincimento) nella platea del “Cavallino Bianco“ durante la proiezione dei film.

Lo faceva a luci spente con silenziosa, signorile discrezione, camminando lentamente sulle corsie laterali e dirigendo lo spruzzo verso l’alto con studiata intermittenza.

In effetti riusciva, quando riusciva, a coprire l’aria consumata, ma non a cambiarla!

E non c’era “versu cu sse cunvinca“.

Infatti, nonostante l’impegno, la buona volontà e la laboriosa assiduità de le pumpate de lavanda, la puzza de piedi aleggiava ugualmente incontrastata nell’aria, galleggiando nel fumo de li sicàri, misto ad altri prepotenti, indecifrabili olezzi e misteriosi effluvi che si sprigionavano nel chiuso della sala.

Intanto accanto al Circolo, in un baleno, si erano radunati anche i clienti de lu Barra de lu Maffei, che avevano abbandonato per un momento seggiulini e tavulini, cafè friddi o in ghiacciu, o cafè caddhi, puru curretti cu ll’anice, capuccini spolverati de cacau, bicchierini de sthreca, de china o de marsala, salatini, ‘nsurti e savujardi, cazzose cu lla pallina, peruncini, biliardo, stecche, palle, pallino, birilli e ggissu… per sognare ad occhi aperti!

Studio odontotecnico anni 1950

Lu Circulu de li Signuri, come riferiva allora la ben informata peripatetica Gazzetta de la “Funtana“, pare fornisse clienti discreti e danarosi, a condizione… che avessero la precedenza assoluta ed esclusiva durante i primi giorni del turno quindicinale.

Per i rampolli di sangue blu (sanu me toccu!) si trattava di un privilegio, questa volta ottenuto a pagamento, che reiterava, come in un risvolto patetico e grottesco, quella atavica barbarie, che i loro antichi progenitori avevano praticato fino a qualche secolo addietro, selvaggiamente e gratis, con lo jus primae noctis.

‘U Giuliu Tecu, più in là, col camice bianco, forbici, pettininu e pettanessa nel taschino e spazzulinu nella tasca laterale, reggeva in mano lu pinnieddhru de barba ancora gocciolante, quando si affacciava sull’uscio per fare la sua brava, veloce, competente, doverosa e silenziosa… sforbiciata.

Dopo pochi passi, le Signurine non potevano fare a meno di dare una fugace e sbrigativa sbirciatina ai capi d’intimo, che ammiccavano con eloquente impertinenza dalla Merceria de lu Carrozzu, dove erano esposti con provocante, sbarazzina e sfacciata civetteria.

La porta de la putìa de lu Muscia, sicuramente più proletaria in trucido legno tarlato, era particolarmente affollata, rumorosa ed effervescente, anche per l’arruffata, scoppiettante simpatia dei clienti della macelleria de lu Ninu Patutu, posta all’angolo dell’Arco de la Gilli (GIL: Gioventù Italiana Littoria).

Dalla finestra a primo piano de lu Tore Marianu si affacciava con timida circospezione il proto col suo compositoio, appena coperto con alcuni minuscoli caratteri di piombo.

Lo reggeva con la mano sinistra accostata al suo grembiule blu scuro, mentre stringeva la pinzetta fra il pollice, l’indice e il medio della mano destra.

Aveva osato interrompere imprudentemente la composizione de ‘nu manifestu de mortu, ancora ristretto, in bozza, nella forma (o pizza), lasciata con lo spago penzolante sul bancone di lavoro e, per questo, si bbuscava ‘na llavata de capu (si guadagnava un richiamo) de mesciu Pippi Marianu (contitolare della Ditta): l’invito perentorio a riprendere, senza indugio, il lavoro interrotto non lasciava scampo.

Sala da barba – mesciu Mimmi Negro

Il motivo di tutto questo fermento era dovuto al fatto che la notizia del loro arrivo e del loro passaggio si era sparsa in un baleno, come un tam tam, e tutti, conoscendo il rituale, volevano gustarsi la scena in ogni pur minimo particolare.

Oltre tutto, guardare, osservare, commentare… tajare e ‘nfiamare (sparlare) non costava un centesimo e, come si sa… ”quandu è francu, ùngime tuttu”.

Quasi spontaneamente, si erano formate due fila di curiosi: una sulla porta de la putìa de lu Muscia, l’altra all’angolo della Farmacia Vallone, poi Graziuso.

Un silenzio irreale, appena screziato da qualche sommesso commento (“jata a ddhra mamma tua!“) e da impercettibili brusii, non faceva presagire nulla di buono.

Infatti, veloce come un lampo, partiva da qualche accalorato e spiritato avventore un sincero, inevitabile, assordante, appassionato, sostenuto e convinto grido di incitamento, che poteva sembrare irriverente, ma che, di fatto, diventava un inno alla loro bellezza.

Un “pijàtile” perentorio (prendetele, fermatele!), cui la raucedine de li cìciari ‘rrustuti, non annacquati a sufficienza cu lla mmalavasia, conferiva un tono profondo e baritonale, profanava, all’improvviso, il quieto, soffuso mormorio dell’assembramento.

Sembra che la fonte di quell’inno fosse lu Peppiceddhra, un noto e simpatico venditore ambulante di mercerie, che possedeva un timbro di voce così alto e cristallino, da riuscire a propagandare la sua merce per vicoli e corti, senza bisogno di alcun megafono.

Ci si limitava solo all’inno e allo sguardo.

Il banditore e tutti gli altri suoi colleghi di sventura presenti non avevano certamente le risorse sufficienti per concretizzare le loro aspirazioni, che, pertanto, rimanevano solo e soltanto sogni.

D’altra parte, per nessuno era pensabile organizzare un incontro, perché sarebbe costato quantu ‘na sciurnata de fatìa (il salario di una intera giornata di lavoro).

Questa angoscia non l’avevano certo i clienti più accreditati.

Infatti i signorotti facoltosi e nullafacenti, che campavano di rendita (tantu havia li fessi, ca faticavano a ccampagna pe’ iddhri), i figli di papà, i commercianti, gli artigiani, gli imprenditori, i liberi professionisti, gli impiegati e tutti coloro che, bene o male, si putìanu girare ‘n posciu quarche llira, non avevano di questi scrupoli.

Vigile urbano anni ’50

Intanto, loro impassibili, serafiche con un candore accattivante e senza scomporsi, procedevano a passo lento e misurato, quasi indifferenti, pe’ lla via de lu Cazzasajette, lungo tutta la sua discesa.

Superavano, via via, l’Arcu de la Gilli, la macelleria de lu Patutu, il Palazzo Andriani, Corte Vinella, la Bòmbana e lu Palazzu de la Pretura.

E qui, mentre passavano, potevano osservare l’agitazione dell’usciere della Pretura, l’Achille Centonze, che cercava disperatamente l’avvocato proprietario di una Fiat 600 targata Aleziu (AL–Alessandria), così almeno strillava a ripetizione nel pozzo luce del palazzo, perché ostacolava le manovra in uscita dell’auto del Pretore, parcheggiata nell’atrio.

Dopo la via de le Moniceddhre e la putia de lu Italu Campa, sfioravano via Cavour cu lla Chiesa de Santu Pantaleu, i labboratori de mesciu Cici Scanniedhru e de mesciu Lla, e l’ex Fasciu, ttaccatu a Santa Caterina.

Più oltre, nello slargo ovale che si disegna fra Palazzo Galluccio, vico San Biagio, la strozzatura della Staffa e vico Freddo e che ospita una antichissima fontanina pubblica, avevano rallentato il passo per un momento.

Erano attratte e incuriosite da uno spaccio di Coloniali, che emanava tutt’intorno effluvi de cafè, de cacau, de pepe neru e chiovi de carròfalu, de cannella, de noce muscata, de sànzicu (maggiorana), de salvia, de ‘smerinu (rosmarino), de menta, de assenzi de rusoliu, de salecìlicu pe’ lla cunserva de pummidori e di tante altre indecifrabili spezie.

Duettava con simpatica e rispettosa concorrenza cu llu “Culuniali“ de lu Farloccu, posto sulla via de lu Municipiu.

Oltretutto, la discreta distanza, intercorrente fra i due esercizi, non creava gelosie, né conflitti commerciali.