MUSICA LEGGERA D’EPOCA
VERSIONI ITALIANE E FURTI LEGALIZZATI
di Francesco Bucci
Qualcuno si ricorda degli Stormy Six? Nel 1967 erano un complesso emergente nel panorama del beat italiano. Dopo la consueta, lunghissima trafila di esibizioni in sale da ballo, navi da crociera e via elencando, arriva per i nostri giovani di belle speranze il momento di incidere un disco. Un 45 giri, per la precisione, che poi all’epoca è il formato più diffuso: sette pollici, due canzoni, una per lato. Per il lato A viene scelto un grande successo inglese dell’anno prima, “All or Nothing”, del gruppo degli Small Faces. I nostri, che sono ragazzi di buona famiglia mediamente acculturati, ne preparano una coscienziosa versione italiana intitolata “Tutto o Niente”. Solo che quando la propongono alla casa discografica si sentono rispondere che il brano va bene, loro sono bravi e faranno il disco, ma che al testo ci penserà un giovane paroliere che lavora presso le edizioni musicali collegate. Ed è così che gli Stormy Six registrano la versione italiana di “All or Nothing” con il titolo di… “Oggi Piango” (!). Ci sarebbe da ridere, se non fosse per il fatto che questo piccolo, innocuo fatterello nasconde in realtà una delle più grandi rapine legalizzate dell’Italia del dopoguerra.
Gli anni Sessanta passano per essere il periodo d’oro della discografia italiana. Di certo, sono il momento storico in cui la musica stampata e riprodotta passa, da prodotto destinato ad un mercato limitato, ad essere un fenomeno di massa, gestito con logiche industriali. Per un periodo piuttosto lungo, edizioni musicali a stampa e supporti fonografici viaggiano di pari passo, essendo le due gambe principali su cui si regge la raccolta del diritto d’autore. Gli spartiti delle canzoni di successo vengono stampati su dei fogli volanti piegati in due, che vengono venduti per poche centinaia di lire nei negozi di strumenti musicali. Questi deliziosi artefatti (oggi oggetto di collezionismo sfrenato) sono in genere così strutturati: in copertina una bella foto del cantante o del complesso esecutore con l’indicazione del titolo della canzone; all’interno uno spartito con la linea melodica del brano e una sommaria indicazione degli accordi utilizzati; a seguire, in quarta di copertina, il testo in lingua e, un po’ più giù, la versione italiana. Che non è quasi mai la traduzione o l’adattamento delle parole originali. Si tratta in genere di sciatti adattamenti che il paroliere di turno ha buttato giù in fretta e furia, attingendo ad un repertorio di frasi standard e cercando di avvicinarsi all’articolazione fonetica del testo originario, ma stravolgendolo nel significato. Fateci caso e provate ad ascoltare in sequenza un certo numero di canzoni d’epoca: a fronte della bellezza della parte musicale, i testi danno il capogiro, con tutto un proliferare di “io me ne andrò, tu tornerai, io piangerò, loro rideranno”.
Giusto per dare una piccolissima idea della vastità del fenomeno, si veda la seguente tabella, con una decina di canzoni pescate a caso nel repertorio di quel periodo:
Titolo/esecutore originale
For Your Love (Yardbirds)
Evil Hearted You (Yardbirds)
Baby Please Don’t Go (Them)
The Way I Feel Inside (Zombies)
Go Now (Moody Blues)
A Whiter Shade of Pale (Procol Harum)
Homburg (Procol Harum)
Till the End of the Day (Kinks)
From Me To You (Beatles)
Titolo/esecutore della versione italiana
Finirà (I Satelliti)
Non sei sincera ( Jaguars)
Sono qui con voi (Caterina Caselli)
Me ne andrò (I Faraoni)
Ora puoi tornar (Equipe 84)
Senza luce (Dik Dik)
L’ora dell’amore (I Camaleonti)
Nessuno potrà ridere di lei (Pooh)
Cambia tattica (Ricky Gianco)
Visto che roba? Da far tremare i polsi. E notate bene che tutti i brani che ho riportato hanno avuto l’onore di una versione discografica, a volte di grande successo (basti citare l’Equipe 84, Caterina Caselli, i Nomadi, i Dik Dik). Ma pensate alle centinaia, alle migliaia di versioni italiane presenti nelle edizioni a stampa, che non hanno mai visto la luce discograficamente parlando. Tanto per dire, c’era un testo italiano su ogni spartito dei Beatles, su ogni spartito dei Rolling Stones. Su ogni spartito di Bob Dylan, persino.
La domanda a questo punto sorge spontanea. Cui prodest? In un momento storico in cui non esisteva tutta la disponibilità di informazioni a cui oggi siamo abituati, gli spartiti avevano un mercato molto ampio. I principali acquirenti erano giovani che si dilettavano con la chitarra e desideravano strimpellare le canzoni con gli amici, ma soprattutto le centinaia di gruppi professionali o semi-professionali che lavoravano nel circuito delle sale da ballo, in un momento in cui l’intrattenimento danzante non prevedeva ancora la formula del disc-jockey che metteva i dischi. Sì, ma a cosa serviva mettere sullo spartito un testo che nessuno avrebbe cantato? Diciamo la verità: cantare “Una Ragazza Diversa” invece di “Love Me Do” o “Un bel sottomarin” invece di “Yellow Submarine” era una roba da sfigati. Ma avere dei simili orrori stampati su uno spartito assicurava ai loro autori, grazie alla normativa SIAE allora in vigore (Articolo 7 degli “Schemi di Ripartizione” deliberati dal Presidente della Siae 28/2/1962 e successivi aggiornamenti del 12/11/1964 e 30/4/1971), una quota sui diritti ANCHE sul venduto o sull’esecuzione radiotelevisiva delle versioni in lingua originale!
E fu così che centinaia di milioni di lire dell’epoca transitarono allegramente dalle inconsapevoli tasche di autori inglesi, americani e francesi, direttamente nei portafogli di questi simpatici avventurieri (alcuni dei quali vengono oggi santificati come sommi artisti della canzone italiana). Chi è interessato li può trovare facilmente facendo una veloce ricerca in rete. Ma esiste un caso che è così clamoroso, da meritare una menzione a parte.
1968 – I Procol Harum, gruppo inglese da noi piuttosto popolare grazie alle versioni italiane dei loro brani (cfr. “Senza Luce” e “L’Ora dell’Amore”) realizzano un 45 giri appositamente per il nostro mercato. Per il lato A viene scelta la canzone “Shine on Brightly”, per la quale viene approntato un testo in italiano ad opera del solito Mogol (“Il tuo diamante”). Ma il bello arriva con il lato B, un brano solo strumentale enigmaticamente intitolato “Repent Walpurgis“. Si tratta di un tema condotto da piano e organo, su cui poi si inserisce un assolo di chitarra. A sorpresa, a metà brano spunta anche una citazione bachiana dal “Clavicembalo ben temperato”. Comunque lo si guardi, non esattamente un capolavoro. L’unico colpo di genio arriva dal produttore Paolo Dossena, il quale cambia il nome al pezzo. Adesso si chiama “Fortuna”: il nuovo titolo permette al Dossena di accreditarsi come autore della parte letteraria. Di un brano strumentale, non so se mi spiego! Se qualcuno ha ancora il vecchio disco, può leggere sotto il titolo i nomi degli autori, che sono appunto Dossena-Fisher.
Viene in mente la vecchia battuta di Ringo Starr, che quando gli chiesero in un’intervista cosa ne pensasse di Beethoven rispose “Mi piace molto, soprattutto le poesie”. Visti con gli occhi dell’oggi (soprattutto alla luce della miseria del mercato discografico attuale) certi fenomeni possono apparire incomprensibili. Ed è per questo che, per chiudere, non trovo di meglio di un’antica parafrasi mogol-battistiana: “Capire tu non puoi. Tu chiamale, se vuoi, estorsioni…”