Ancora presenti nella vita di oggi
Modi di dire dialettali
Espressione semplice e colorita del linguaggio popolare
di Piero Vinsper
Ho sempre sostenuto che il dialetto è la lingua dell’anima: una lingua profonda che esprime preghiere, pene, desideri, allegria, rabbia, nostalgia. Una lingua a volte cupa, ruvida, scarna, a volte concreta, immediata, spontanea. Una lingua nella quale forme, espressioni, atmosfere, suggestioni si mescolano e si confondono, una lingua nella quale si può individuare un’espressione genuina della storia della cultura di un popolo.
E i modi di dire rappresentano il senso realistico di una espressione semplice, chiara, colorita, spesso arguta e a volte canzonatoria, che va aldilà di ogni metafora e di ogni traslato o di qualsiasi altra figura retorica.
Fare ‘n antu, detto dei mietitori, è il tagliare con la falce una lenza di biade, andando avanti. Antieri, infatti, è colui che, in una fila di mietitori, precede gli altri dettando i tempi della mietitura.
Mbruschione è una specie di spazzola rudimentale, fatta con fili di saggina. Viene usata per strigliare i cavalli oppure per pulire i cannizzi (lat. cannis innexi) dopo l’essiccazione dei fichi. Per scherzare sulla sporcizia di una persona si è soliti ancor oggi dire: “Quiddhru vulia ‘na friculata de mbruschione”.
Nel nostro dialetto il letame è detto rrumatu (lat. ruminatus, cibo ruminato). Però se a una persona diciamo: “Va’ ccoji rrumatu” (Va’ a raccogliere letame), vogliamo significare di uno che non ha alcun mestiere, che non sa fare nulla. La stessa cosa è il modo di dire: “Va’ ccoji còpite”. Le còpite (gr. ϰόπτω, taglio, spezzetto) sono dei pezzettini di risulta dello spaccare la legna.
Il sale, è noto, per il suo sapore sapido e amaro, è esteso alla funzione della mente e denota senno, saggezza, sagacia e arguzia. Il popolo ha allargato questo concetto con sfumature che denotano la sua strabiliante fantasia. Di una persona che abbia giudizio si dice: “Tene sale ‘n capu”; se invece si rivela una sciocco: “Ede duce de sale”, o meglio ancora: “Ede cchiù ffessa de l’acqua salata”.
Si badi bene che fessa è il termine con il quale, nel nostro dialetto, si indica colui che non sa far valere i suoi diritti, e l’essere fesso appare come una colpa: giudizio che non va preso come una condanna della non intelligenza, ma come un marchio di inferiorità sociale, accostabile, sotto certi aspetti, al marchio con il quale vengono bollati coloro che hanno delle menomazioni fisiche dalla nascita. Per esempio: “Ѐ ffessa de ‘na manu, è ffessa de ‘nu pede, è ffessa de capu” ecc.
E a proposito di sale, per dare l’idea del mai, cioè di una cosa che non può accadere, il popolo così si esprime: “Quandu spica ‘u sale”, quando il sale mette fiori e semi, oppure: “Quandu chiove fiche e pàssule”, quando piove fichi secchi e uva passa.
“Stuppa” è la materia filabile che si trae dopo il capecchio, durante la pettinatura del lino e della canapa. “Tene stuppa ‘n capu” significa che una persona è molto ingegnosa e astuta.
Il verbo “mprenare” identifica, in primo luogo, l’azione dei venti che trasportano il polline e provocano la fecondazione delle piante. Dicono i contadini: “Marzu mprena l’àrvuli” (Il vento di marzo feconda gli alberi) e lasciatemi passare questo proverbio che cade ad hoc: “Marzu ventaluru mprena l’àrvuli cu llu culu”.
Per traslato si usa la stessa voce per indicare animali fecondati e anche le donne. Infatti la donna incinta è detta “Fèmmana prena”.
A proposito di donne, una donna caparbia, puntigliosa, e dal carattere un po’ troppo difficile, è definita “spina pòntica”. L’immagine popolare è azzeccatissima se si pensa che con il termine “pòntico” (aspro, acerbo) si definisce il sapore aspro e forte di certi frutti selvatici.
“Ste cu lle patùrnie”: è rattristato, è preso dalla malinconia, sta imbronciato. La stessa cosa vale: “Ste cu llu musu mpisu”. Il termine “patùrnie” (gr. πάϑος), infatti, significa passione, commozione, dolore, tristezza, malinconia, afflizione.
Il senso dell’arroganza, della prepotenza è espresso dal modo di dire: “Ѐ bbenutu de puthrìmisi” (Ѐ venuto senza essere invitato, si è messo in mezzo con prepotenza, si è intercalato per diritto). Lo stesso significato ha: “S’have mpizzatu a mmienzu comu ‘a sciuvidia” (Si è messo al centro dell’attenzione come il giovedì sta al centro della settimana).
“Puthrìmisi” deriva dal greco classico προτίμησις, neogreco προτίμηση (leggi protìmisi), greco salentino protìmisi e si traduce non solo diritto prepotente ma anche preferenza e considerazione maggiore. Da notare come il griko e il neogreco abbiano la stessa pronuncia.
L’immagine popolare del crepare e del non potersi contenere è dato dal verbo “schiattare”. Per cui si hanno le espressioni: “Sta sse schiatta de chiantu” (sta scoppiando di pianto), “Li schiatta la venthre” (gli scoppia la pancia), “Sta sse schiatta de risi” (si sta crepando di risate). A quest’ultimo modo di dire aggiungo “Sta sse pìscia de risi” (Se la sta facendo sotto per le risate).
Il verbo “uschiare” (lat. ustulare, bruciare) vale non solo bruciare, aver bruciore, ma anche rincrescere. Il popolo dice: “Mi ùschia”, mi rincresce, mi dà fastidio; “Mi ùschianu ‘i cannavozzi”, ho bruciore alla gola; infatti cannavozzu (gr. ϰαννατότζος) è la “canna della gola”.
“Zzoccare” vuol dire cavare, togliere dalla terra dei massi di pietra e ridurli in pezzi di forma regolare; deriva da “zzoccu”, nome volgare del piccone, arnese del quale uno si serve per tagliare ed estrarre la pietra dai macigni. Essendo un lavoro pesante e molto faticoso, questa caratteristica ha conferito al verbo “zzoccare” il significato di lavorare tenacemente. Perciò allo studente che deve superare materie irte di difficoltà per andare avanti, si dice, con immagine figurativa: “Zzocca susu ‘lli libbri”.
Spesso, come ho scritto in qualche pagina di questa modestissima ma simpaticissima rivista, un tempo si litigava dodici volte al giorno per un nonnulla. E procedendo nel diverbio si andava a finire “alle vigne de l’arciprèvate”. Si tiravano in ballo fratelli, sorelle, padri, madri, nonni e bisnonni, fatti recenti e passati, situazioni scabrose, ornando il tutto con un linguaggio scurrile e molto colorito. Però, per casi del genere, mi ritorna in mente un antico modo di dire di mio nonno, (lui nasce nel 1878 e muore ultranovantenne) che recita così: “Su’ rrivati all’icchinnonni”. Tradurre quest’espressione in lingua italiana è molto difficile, come pure è arduo risalire all’etimo del termine icchinnonni. Penso, forse, e qui uso il condizionale, che potrebbe derivare dalla forma latina hic + nonne. E provo a dare anche una traduzione, con il beneplacito dei grammatici latini, “ancora non è forse vero?”. Quindi, stando così le cose, “su’ rrivati all’icchinnonni” potrebbe significare: “Sono giunti a cantarsele di santa ragione”.
“Suffrire le pene de lu linu” equivale a soffrire molte dure e gravi afflizioni; l’immagine è tolta dalle molteplici operazioni, alle quali è sottoposto il lino prima di essere ridotto alla filatura.
Non è provato perché, un tempo, in tutta l’area salentina era diffuso il pregiudizio per cui chi avesse un udito molto fine dovrebbe essere in grado di sentire nascere la gramigna. Sicuramente si tratta di uno stratagemma delle mamme per far stare in silenzio i loro bambini. Infatti, dicevano loro: “Cittu, cusì sienti nascire ‘a cramigna”.
La terra che, nel Salento, è la base della vita popolare attraverso la coltivazione, si trova spesso citata in molti modi di dire. “Have fattu terra pe’ cìciari” significa che una persona è passata a miglior vita, è morta; “Ste an terra”, oppure “Ste cu llu culu ‘n terra”, vuol dire che uno è senza soldi e completamente al verde.
Di fronte a un’improvvisa fregatura nei confronti di chi resta di stucco per qualcosa che non si sarebbe mai aspettata si usa il motto:” Rrumase comu ‘a zzita parata”, “è rimasta come la sposa che aveva indossato l’abito di nozze ma lo sposo non arrivò mai in chiesa”; oppure “Rrumase parata comu ‘a zzita de Tuje”: molto probabilmente un caso del genere si è verificato nella graziosa cittadina di Tuglie.
“Osce ‘d ottu”, oggi a otto, è l’espressione che noi usiamo tanto in dialetto quanto in italiano per indicare il trascorrere di sette giorni; e allora perché diciamo “oggi a otto”? La spiegazione è semplice. I Romani non contavano i giorni del mese con una numerazione progressiva come facciamo noi; ogni mese aveva tre date fisse: le Kalendae, le Nonae e le Idus. Le Calende cadevano al primo giorno di ogni mese, le None al quinto e le Idi il tredici; però nei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre, le None cadevano il sette e le Idi il quindici di ogni mese (il famoso marmaluot; e, a proposito, mi corre l’obbligo di ringraziare le professoresse Gilda Tundo e Wanda Bruno, che, per prime, mi hanno insegnato l’amore allo studio della lingua latina). Lasciando da parte come si esprimono il giorno prima e il giorno dopo le Calende, le None e le Idi, consideriamo il 25 gennaio. Ebbene, per indicare gli altri giorni di un determinato mese, i Romani computavano quanti giorni mancavano per arrivare alle prossime Calende, o None, o Idi, comprendendo nel calcolo sia il giorno di partenza sia quello d’arrivo. Quindi se voglio indicare il 25 gennaio, procedendo nell’enumerazione: 25, 26,27, 28, ecc. incontro per prime le Calende di febbraio, per arrivare alle quali mancano otto giorni; perciò ante diem octavum Kalendas Februarias, oppure die octavo ante Kalendas Februarias. Ed ecco risolta la questione dell’osce ‘d ottu.
Concludiamo questa breve carrellata sui modi di dire popolari, cetera de genere hoc, adeo sunt multa, direbbe Orazio, con “sta mmi se rrevòtanu le nthrame”.
“Nthrame” trae origine dal latino intramen (intestino, interiora); quindi “Mi si stanno rivoltando le interiora”, cioè sono molto arrabbiato. Però se dici “Sta mmi voti ‘e nthrame”, rivolgendoti a una persona, affermi che hai il voltastomaco, che sei nauseato per ciò che hai sentito uscire dalla sua bocca.