Quando i migranti erano italiani
Il naufragio del Titanic, avvenuto il 15 aprile 1912, è l’incidente marittimo forse più famoso nella storia della navigazione civile, per svariati motivi: innanzitutto, perché era al suo primo viaggio, quello di inaugurazione; poi perché era stato progettato per essere, almeno nell’intenzione degli armatori, inaffondabile; non ultimo, per il lusso degli allestimenti interni e per l’alto rango sociale ed economico dei passeggeri di prima classe.
Quel naufragio, dovuto alla collisione con un iceberg, costò la vita a circa 1500 persone, mentre i sopravvissuti furono 706. I membri dell’equipaggio che si salvarono furono 214 (comprese 20 donne), su un totale di 900; nel totale dei passeggeri sopravvissuti, le donne e i bambini costituivano la maggioranza, 354, a fronte di 138 uomini. A volte i numeri non sono solo statistica, ma servono a far comprendere, nell’immediatezza matematica, lo svolgimento dei fatti.
Una tragedia immane certo, quella del Titanic, ma non l’unica di quegli anni.
Altri naufragi, meno famosi, meritano di essere ricordati, anche se tra le vittime non c’erano personaggi ricchi e famosi, né un’orchestra che suonava durante l’affondamento.
Meritano di essere ricordati proprio per il motivo opposto: tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900 solcavano l’oceano, dirette verso l’America (Stati Uniti, Argentina, Brasile), decine di carrette del mare, cariche di migranti italiani, che oggi definiremmo “economici”. Non scappavano dalla guerra, ma da una condizione di miseria atavica e irredimibile, si avventuravano verso l’ignoto con l’animo in subbuglio e la pancia vuota, nella speranza di trovare un posto nel mondo, dove finalmente campare dignitosamente. A convincerli ci pensavano personaggi senza scrupoli, intermediari delle compagnie di navigazione, che decantavano le meraviglie della Merica, un “eldorado” a portata di mano.
Quei viaggi della speranza rappresentano però un vero azzardo: le compagnie di navigazione usano spesso bastimenti buoni solo per la rottamazione, e li caricano fino all’inverosimile con le “tonnellate umane”, merce composta da uomini, donne e bambini che attraversano l’oceano in condizioni disumane: ammassati nelle stive vivono una promiscuità fatta di fame, vomito, pianti ed escrementi.
Le condizioni igieniche sono terrificanti, e per molti, troppi, il viaggio finisce quasi subito: c’è chi muore per asfissia, chi di colera, morbillo o difterite, e anche di fame. Paradigmatica la vicenda della nave italiana Matteo Brazzo, che nel 1884, dopo essere stata respinta dal Brasile, arriva in vista di Montevideo, con un carico di 1333 migranti, tra i quali è scoppiata un’epidemia di colera (20 morti).
La nave viene presa a cannonate per impedire che si avvicini al porto
Ma il maggior numero di vittime si conta, ovviamente, quando quelle carrette del mare fanno naufragio. La lista è lunga e di quei morti sconosciuti e presto dimenticati nessuno parla. Le compagnie di navigazione hanno tutto l’interesse a far calare un velo sugli incidenti, ma anche i vari governi nazionali (di Italia, Francia, Gran Bretagna) preferiscono non indagare troppo, visto che potrebbero saltare fuori i mancati controlli sulle navi fatiscenti. E poi, perché rischiare di interrompere un flusso migratorio che faceva tanto comodo sia ai paesi di partenza – era una valvola di sfogo per le difficili condizioni economico-sociali delle classi povere, che avrebbero potuto portare a rivolte e insurrezioni – sia ai paesi di destinazione, pronti ad accogliere una manodopera a basso costo, in sostituzione degli schiavi affrancati da pochi decenni.
Allora ricordiamo i naufragi di tante navi cariche di migranti italiani (e non solo):
Nel 1880 affonda la nave italiana Ortigia, quando ormai è vicina alle coste argentine – 149 vittime;
Nel 1888 affonda la nave Sud America, di una compagnia di navigazione genovese – 90 morti, quasi tutti liguri;
Nel 1891 la nave britannica Utopia cola a picco portando con sé 576 persone, quasi tutti italiani di origine campana, abruzzese e calabrese;
Il relitto della Utopia che affiora dalle acque del porto di Gibilterra
Nel 1898 affonda il piroscafo francese La Bourgogne – 546 vittime, molte delle quali di origine italiana;
Nel 1906, nelle acque spagnole di fronte a Cartagena, naufraga la nave italiana Sirio, partita da Genova e diretta in Sud America. Sconosciuto il numero delle vittime, stimato tra le 293 e le 500 persone. E’ il Titanic dei poveri;
Nel 1914 muoiono 1012 passeggeri, molti dei quali italiani, nella collisione tra il piroscafo inglese Imperatrice d’Irlanda e la nave norvegese Storstad;
Nel 1927 affonda il Principessa Mafalda, in quello che doveva essere il suo ultimo viaggio prima dello smantellamento. Al largo delle coste brasiliane annegano 314 persone (secondo le fonti italiane), partite prevalentemente da Liguria, Piemonte e Veneto. Ben altri numeri sono forniti da Brasile e Argentina, che parlano di 647 morti.
La storia più vergognosa di tutte, tra quelle elencate sopra, riguarda il naufragio della SS La Bourgogne, un transatlantico francese che navigava tra New York e la città francese di Le Havre. Grande e veloce, non poteva essere definita una carretta del mare, anche se al momento dell’affondamento ha già due incidenti alle spalle.
Il 3 luglio 1898 la nave parte da New York con 725 persone a bordo: 506 passeggeri di diverse nazionalità (tra i quali molti italiani) e 220 membri dell’equipaggio.
Scende la notte e sul mare cala una fitta nebbia, che ancora non si è diradata quando spunta il mattino. Lì, nelle acque della Nuova Scozia, sta navigando anche un veliero britannico, il Cromartyshire, che suona a intervalli di un minuto il corno da nebbia.
Il Cromartyshire
A bordo avvertono il suono della sirena di un’altra nave, ma non capiscono da quale direzione provenga, fino a quando il comandante non si trova davanti La Bourgogne. Nessuna manovra avrebbe potuto evitare la collisione: il veliero centra la fiancata del transatlantico, nel lato a dritta. Molte scialuppe di salvataggio vengono distrutte nell’impatto e le poche rimaste vengono prese d’assalto dai membri dell’equipaggio.
Nel frattempo, a bordo del Cromartyshire, che non ha subito danni tali da temere l’affondamento e che ha nuovamente perso di vista La Bourgogne, scambiano i razzi lanciati dal transatlantico come offerte di assistenza. Dopo mezz’ora gli inglesi vedono due scialuppe di salvataggio avvicinarsi alla nave, e man mano che aumenta la visibilità si trovano di fronte a una situazione agghiacciante: centinaia di persone che annaspano e annegano nel mare.
Alla fine, dai racconti dei pochi sopravvissuti, trapela una verità inquietante: l’equipaggio, a parte i 18 ufficiali (ne sopravvivono solo tre) ha tenuto un comportamento criminale, senza minimamente attenersi alle regole della marineria.
Il Kansas City Journal riporta:
Gli ultimi minuti a bordo della Bourgogne sono stati testimoni di alcune delle scene più terribili di orrore e crudeltà che hanno cancellato la storia di una razza civile. Al posto dell’eroica disciplina che così spesso è stata l’unica caratteristica luminosa di momenti così terribili, l’equipaggio del piroscafo ha combattuto come demoni per le poche scialuppe e zattere di salvataggio, respingendo i passeggeri indifesi lontano dal loro unico mezzo di salvezza, con il forte che ha vinto il debole e l’elenco dei 162 salvati contiene il nome di una sola donna.
E, si potrebbe aggiungere, di nessun bambino.
Dei 506 passeggeri solo 70 sono sopravvissuti, a fronte di 103 membri dell’equipaggio su 220.
Solo una donna (tra circa 200) scampa al naufragio. La signora, quando le chiedono come è possibile che lei sia stata l’unica donna a salvarsi, risponde: “Non chiedere perché sono l’unica donna che è stata salvata, meglio chiedere perché mio marito era l’unico uomo a bordo che era abbastanza uomo per salvare una donna.”
L’indignazione per quel tragico evento alla fine non porta a un giusto processo: i marinai, messi sotto protezione al loro arrivo a New York (rischiano il linciaggio), sono subito rispediti in Francia, dove una frettolosa inchiesta attribuisce la responsabilità a pochi membri dell’equipaggio di origine straniera: non francesi, ça va sans dire.