Con la fine di settembre alle porte, si va ormai incedendo verso il cuore della stagione dell’anno che, fra i suoi connotati, reca, prodigiosamente insieme, la caduta delle prime foglie e l’insorgere e l’accensione di colori particolarmente straordinari, caldi e dolci. Sole, cielo terso, mare tranquillo e sorridente, temperatura su livelli ancora miti e gradevoli, fanno, altrettanto mirabilmente e piacevolmente, da cornice. Cammino in seno all’autunno, si diceva, e cammino parallelo, nella fattispecie, anche in senso personale, giacché il prossimo foglietto da staccare sul calendario segnerà il numero settantatre. E, però, v’è il conforto che il sole benefico che campeggia in alto, splende pure nell’animo del ragazzo di ieri. Ad ogni modo, l’accostamento e la concomitanza delle due situazioni suggeriscono una breve parentesi di semplice, naturale, leggera e spontanea riflessione, sotto forma di un’intera giornata da vivere e sentire in stato d’animo oltremodo coinvolto. Beninteso, nulla di eccezionale ma acceso sentimento e ripetute scariche adrenaliniche.
Sguardi intorno, pause silenti al cospetto del paesaggio naturale che, fortunatamente, sopravvive, almeno per grandi linee. Ne deriva la riscoperta di bellezze, incanti e ricordi: scenari, immagini, realtà, facce e fatti.
Per cominciare, la magia insita nelle caseddhre di pietra.
Caseddhre, non pajare o trulli come vorrebbero certe mode in voga, dal momento che tali siti, fino ad alcuni decenni addietro, rappresentavano vere e proprie abitazioni, nel lungo arco da aprile a ottobre, per moltitudini di persone e famiglie, le quali, sul metro anche degli esigui o inesistenti mezzi di movimento e spostamento di quei tempi, vi dimoravano, dormivano, mangiavano, attendevano alle faccende domestiche, procreavano figli.
Si trattava d’intere collettività, coinvolte ad attendere, al ritmo più pieno, ai lavori comportati dalle colture presenti nei piccoli appezzamenti di terreno attigui ai manufatti di pietra, da cui ritrarre frutti e risorse indispensabili per le occorrenze e le economie del nucleo. Non potevano, perciò, permettersi il lusso d fare su e giù dalle case nel paese, il che avrebbe significato una o due ore di cammino il giorno.
Del resto, l’impegno dei lavoratori nei campi iniziava verso le 3,30 – 4 del mattino e si protraeva sino alle venti e passa, salvo il breve stacco per una spartana acqua e sale oppure una frisa con pomodoro e origano, a mezzogiorno.
Strumenti e attrezzi di siffatta e immane fatica, erano la zappa, le falci nelle mani ruvide e leste, le schiene ricurve, le panare di canne e giunchi per raccogliervi i frutti e le derrate; a servire d’orologio, l’avanzata e la curva del grande astro sul capo, in alto.
Ora, a illuminare all’improvviso lo sguardo di una luce desueta, ecco stagliarsi un piccolo arbusto di corbezzoli, nell’idioma dialettale armeculi, con i primi, minuscoli pomelli colorati di rosso, sintomo della maturazione, granulosi, gustosi, autentici assaggi di sapore genuino e profumo agreste.
Una visione circoscritta e però indubbiamente eccezionale, seguita, in continuità, dall’impatto con l’elemento mare, del manto senza confini – dalle tonalità fra l’azzurro, il verde e il blu – incipiente dal rude e frastagliato fronte di scogliere misteriose e incantevoli; l’infrangersi, anche se lieve, delle onde sulle rocce produce ghirigori, mantiglie e piccoli vulcani di schiuma candida.
Sulla scia, non può, lo spettatore, esimersi dal calarsi nel cuore della magica insenatura “Acquaviva”, di una bellezza unica nella sua assoluta solitudine, appena intaccata da sparute sottili sagome umane in piedi sul pizzo che la delimita verso sud.
Anzi, contatta letteralmente col corpo l’angolo detto della bagnalora, determinandosi d’impulso a cogliere ivi, mediante il palmo della mano, un sorso d’acqua discendente da una piccola polla sotterranea, liquido dal sapore quasi dolce, appena insaporito di salsedine. Mistero e, in uno, miracolo naturale. Dirigendosi più avanti, sosta, poi, nei pressi del Pizzo della Merdara, appellativo di origine e significato sconosciuti a chi scrive e, però, un punto, del tratto di costa, ben stagliato nella memoria, a motivo che, lì, la roccia del minuscolo promontorio (pizzo) cala sul già stretto bagnasciuga erboso (lapitu) proprio a pelo d’acqua. Di guisa che, in tempi lontani, transitandovi di notte, alla fioca luce della lampada ad acetilene, per catturare granchi o piccoli scorfani, e analogamente di giorno per staccare dagli scogli, con un coltellino, le patelle (cozze mateddhre), si rendeva indispensabile curvarsi, quasi distendersi sull’acqua, se si voleva avanzare senza il rischio di ferite o graffi sulla testa, sulla spalla o sulle braccia.
Quindi, ancora una pausa in zona “Porticelli”, in un piccolo fondo consueto, in certo qual modo familiare, luogo di giochi e antichi ricordi in compagnia. Su una giovane pianta dai caratteristici cladodi spinosi (comunemente conosciuti con il nome di pale), paiono sorridere due fichi d’india dall’aspetto accattivante, ultimi esemplari rimasti dei frutti stagionali, saporiti e graditi e, su un vicino fazzoletto di terra rossa, un coloratissimo cespuglio di lantane, vero e proprio tappeto di meraviglie cromatiche, tanto che il visitatore è tentato di sdraiarvisi sopra, di chiudere gli occhi, sognare, lasciando da parte ogni cura e/o interesse del quotidiano.
A quest’altezza, la costa disegna una piccola insenatura, giustamente nota come “ucca ‘e porticeddhri” (Bocca di Porticelli), che l’autore delle presenti righe, in altri tempi, sceglieva e prediligeva come luogo di pesca con canne armate di lenza, piombo e amo, dagli scogli o dal lapitu, insieme con gli amici Gino e Franco: abboccavano, in prevalenza, le perchie, particolarmente adatte per gustosi sughi al pomodoro.
Nei paraggi della “Bocca”, rocce e grossi massi millenari, che i calpestii delle genti paesane e dei turisti non hanno intaccato nelle loro conformazioni, mentre, in alcuni punti, al contrario, è chiaramente evidente l’impatto dei venti e lo sfregamento delle onde, da far immaginare alveari o superfici graffitate.
Nell’attuale periodo, le distese di uliveti della zona, grazie al benefico concorso delle prime, a lungo attese, piogge, danno luogo ad un autentico spettacolo, con rami carichi, quasi ricchi di piccoli frutti ancora verdi ma avviati ad abbrunirsi. E, con tempestività e zelo, i proprietari hanno già prestato fatiche e cure alle aree di terreno in prossimità delle piante, rendendole linde e pulite alla stregua di pavimenti domestici, taluni vi hanno anche posato i grandi teli a rete, su cui lasciar adagiare i frutti, quando, sazi della linfa nutriente della pianta madre, decideranno di cadere spontaneamente o, in alternativa, nel momento in cui saranno colti, con pazienti sgranature, da mani ansiose e speranzose.
Oggi, la coltivazione degli ulivi è giunta forse ai limiti, se non al di sotto, della convenienza economica; tuttavia, rimane egualmente radicata nella mente e nel sentire interiore delle persone interessate E’, quindi, proprio il caso di augurare a tutte queste ultime “buon olio”.
La visione, detta prima, della pianta di fico d’india nel fondo di Porticelli, dà lo spunto per un ricordo particolare, ossia a dire di una formula di divertimento, elementare e senza pretese, in voga, nel paese, negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso: il gioco delle stacce.
Per strumenti, sezioni, tagliate in forma di disco (in dialetto, giustappunto, stacce), di pale di fichi d’india e un torsolo (detto toturo), assomigliante ad una minuscola incudine rovesciata, ricavato dallo spuntone di una delle medesime pale.
Al di sopra del toturo, si deponevano le poste del gioco, ossia banconote di carta di una o due lire, dopo di che i partecipanti, da una distanza di circa dieci metri, lanciavano a turno le rispettive stacce. Quando riuscivano a colpire il toturo e a far cadere il gruzzolo, intascavano le banconote che si trovavano più vicine alla loro staccia che al toturo; la gara continuava fino a che il “tesoro” non si esauriva, assegnato, evidentemente, ai tiratori più bravi e precisi.
La zona del paese preferita per il gioco suddetto era l’Ariacorte e, precisamente, la strada che conduceva (e tuttora conduce) all’Acquaviva , ragione per cui lo scrivente, abitante proprio lì, svolgeva il ruolo di assiduo spettatore.
Un rosario di immagini, ricordi, voci, emozioni, così si è pensato di tratteggiare i due volti dell’autunno da poco arrivato. (Rocco Boccadamo)