Lu Muscia
di Pippi Onesimo
Il telefono de lu Chieròndula non funzionava né a gettone, né con la scheda, ma nemmeno completamente gratis.
Si doveva affrontare una modica spesa, con pagamento anticipato in natura, più che altro consistente in una offerta spontanea di una birra, ma preferibilmente de na lampa de vinu.
Sotta lla putia de lu Mùscia, quando l’euforia raggiungeva il suo giusto livello, spinta inesorabilmente in alto dai fumi dell’alcol, era facile pe llu Piethruzzu trovare… lavoro.
Le richieste di telefonate si susseguivano e si accavallavano velocemente.
Erano solo in due a guadagnarci in questo simpatico e singolare mercato: lu Mùscia, che riempiva a ritmo serrato le lampe svuotate dai clienti… e lu Chieròndula che tracannava insieme a loro, ma gratis, dopo ogni commissione, schioccando le labbra, all’ultimo sorso, in segno di compiaciuto e gustoso apprezzamento, mentre reggeva il bicchiere ormai vuoto solo con le quattro dita della mano destra.
Il mignolo, infatti, appartato, solitario e leggermente discosto, puntava dritto in alto come se volesse cantare un inno di ringraziamento alla vite e al contadino che avevano prodotto, fondendo sapientemente insieme sapori ed energie, quel gustoso e afrodisiaco nettare.
Sembrava inneggiasse anche alla sua sorte benigna che gli consentiva di inebriarsi, con voluttuosa abbondanza, senza sborsare una lira.
In quell’ammezzato, l’aria si surriscaldava in breve tempo e diventava irrespirabile, specialmente perché appesantita dal fumo maleodorante di sigarette fatte a mmanu, (con cartine e tabacco tritato).
Oppure, perchè li sicàri, o le pippe de crita, (sigari, pipe di terracotta sostenute da una sottile cannuccia arcuata, ricavata artigianalmente dalla pianta di bambù), arrotolavano il loro fumo in volute ondeggianti sotto la volta a botte, bassa e angosciante, perché poco distante dal pavimento.
Questo era formato da chianche de leccisu (larghe lastre quadrate, o rettangolari, di pietra leccese), alcune concave per il calpestio, come quelle a ridosso dei gradini d’ingresso, altre screpolate, rigate o consunte per l’usura del tempo.
Le screpolature del pavimento erano la testimonianza inconfutabile degli affari de lu Mùscia, che innegabilmente andavano sempre a gonfie vele.
La Guardia di Finanza, se fosse entrata per un controllo fiscale, non avrebbe certamente consultato le scritture contabili (la libretta de li dèbbati), ma avrebbe esaminato solo il pavimento.
Infatti la frequenza costante e abituale dei clienti, come un infaticabile libro mastro, era documentata con maniacale precisione su quel pavimento da tutte le entrate e le uscite, attraverso le tacche che gli scarponi chiodati, calzati dai contadini del tempo, lasciavano sul leccisu, la pietra leccese notoriamente conosciuta per la sua duttile malleabilità.
Tutto l’arredo dell’osteria era costituito da alcuni tavolini in legno di forma quadrata, coperti con tovaglie di plastica, e artisticamente ricamati dai tarli.
Per ognuno, tutt’intorno, quattro sedie di legno mpajate (col pianale intrecciato con robuste corde di rafia, o di juta), alcune mal ferme e zoppicanti.
Sullo sfondo, vi era un tavolo rettangolare di noce grezzo, appena sgrossato, alto e imponente, sul quale venivano servite le lampe per gli avventori che consumavano in piedi e al di là del quale troneggiavano ‘na quattrina de vutticeddhre (alcune botticelle di vino), sollevate dal pavimento ed adagiate su cuccetti de tufu (conci), lievemente modellati per non farle scivolare.
Erano riverse in posizione orizzontale con un robusto tappo sulla pancia, avvitato con una pezza di tela di sacco e presentavano un rubinetto ciascuna, infisso sul lato basso de lu timpagnu (coperchio), dal quale con un boccale di terracotta (la vucala) veniva prelevato il vino occorrente.
Ogni rubinetto si affacciava su ‘na suppiera (scodella di latta ), o su ‘na limba (bacinella), perché, gocciolando, non sporcasse il pavimento.
Accanto ad esse, poggiata al muro, si reggeva appena appena in piedi una piccola credenza, realizzata in formica color noce con due ante ricoperte da una fitta rete di ferro sottile e protette da due tendine di tela, che custodivano e riparavano (si fa per dire) dalla polvere i bicchieri, i piatti e le posate.
Una scodella di terracotta, larga e capiente, conteneva una forma di pecorino, una di latte vaccino e dei pezzi di grana.
Il tutto serviva pe llu nsurtu e per accompagnare li pezzetti.
Su un lato, in un camino annerito e fumoso, attrezzato a bocca larga come una cucina economica e lastricato con chianche, alcune asche de vulìa (legna da ardere), adagiate a croce, bruciavano lentamente per tenere in caldo la pignata ripiena di pezzetti di carne di cavallo.
Un irresistibile profumo di spezie (lauru, diavulicchiu, pepe neru, pumbidori de penda, in particolare) si confondeva col fumo di tabacco e si spandeva fuori, inondando la strada, come una accattivante e molto convincente pubblicità.
Sul lato opposto, un rubinetto di ottone, scurito dal tempo e ricoperto in prossimità dell’attacco al muro da una leggera patina verdognola di muffa, piangeva lentamente goccia a goccia in susseguente, cadenzata monotonia, come se snocciolasse una posta di rosario, in una pilozza de leccisu, nella quale venivano riposte tutte le stoviglie usate, in attesa del lavaggio.Non era ancora in voga la cultura consumistica ed inquinante dell’usa… e getta (bicchieri, piatti e posate di plastica), specialmente quella degli incivili che, dopo i bagordi e gli schiamazzi notturni, ora usano lasciare il proprio autografo, con tanto di marchio nobiliare (lattine, bottigliette, bicchieri, posate, cartoni per pizza ecc.), sui marciapiedi, nelle fioriere o sulle panchine dei giardini pubblici.
Il fumo biancastro, denso e irritante, si avvolgeva con aloni circolari intorno ad una lampada, resa opaca dalla polvere, che pendeva sotto un paralume costituito da un piatto di latta appena concavo, sorretto da una corta catena di ferro ricamata da intense ragnatele e divenuto grigio per il fumo del camino e per le… impertinenze delle mosche.
Il ricambio dell’aria diventava un problema di igiene ambientale per la scarsa ventilazione, nonostante la presenza di un finestrino, a filo di strada, protetto da una fitta e robusta grata.
La via d’uscita, sia per il fumo che per gli avventori, era rappresentata dall’unica porta, sottoposta rispetto al piano stradale, che si affacciava, superando un paio di gradini, sulla via de lu Cazzasajette.
Poi, ondeggiando lentamente su tuttu lu cchiancatu de lu curtiju, che collega l’Arcu de la Gilli alla via O. Congedo (il cortile interno lastricato in pietra leccese) e superando un monumentale, antico portone di legno con due ante diroccate e vistosamente ncraulisciate (corrose dai tarli) lu Piethruzzu, accompagnato, a zigzag, da li cumpari committenti, che a quell’ora tarda del mattino erano già particolarmente spiritosi, andava alla ricerca, svoltando a sinistra su via Scalfo, dello scenario ideale per rappresentare la sua sceneggiata.
Erano indecisi se proseguire per la Chiesa della Purità o fermarsi all’angolo di via Biscia.
Qui volevano organizzare il teatrino, perché li incuriosiva quell’ansa asimmetrica e tortuosamente disarticolata che si modella nervosamente sul frontale a spigolo, irriverentemente arrogante, di Vico San Biagio.
Questa stradina, irrimediabilmente sconnessa, conserva ancora oggi rare tracce delle sue antichissime piccole chianche ritagliate in pezzi quadrati o rettangolari e perfettamente impiantati per terra con sicura maestria, tanto da realizzare un surreale mosaico.
Esse venivano lavorate e modellate con precisa e straordinaria armonia da abilissimi artigiani selciatori (li zzuccaturi), ormai rari e introvabili, provenienti prevalentemente da Cursi, la patria per eccellenza della pietra leccese, o da Corigliano, o dalla vicina Soleto.
A tratti si presentano delittuosamente offese e violentate da macchie nerastre di bitume (nefandezze deturpanti commesse, o negligentemente tollerate, da molte passate Amministrazioni), presenti anche in altre strade del Centro antico.
Qui molte imprese, da sempre, incaricate di realizzare servizi di pubblico interesse (luce, acqua, fognatura, telefoni, gas) hanno lavorato liberamente, disselciando, frantumando e sbriciolando sbrigativamente e selvaggiamente (specialmente con l’avvento dei martelli pneumatici) il lastricato di vicoli, stradine e piazzette senza alcun controllo.
Poi ricoprivano le loro scelleratezze con breccia e bitume, dove le chianche sbriciolate non potevano essere ricomposte, …mentre Amministratori e uffici comunali vegetavano in letargo, sprofondati in soporosi sonni ristoratori.
E quando alcune stradine (via Siciliani, via D’Aruca, o via Scalfo, per fare qualche esempio) sono diventate scandalosamente impraticabili, non solo per l’usura del tempo, la Pubblica Amministrazione (sic!) è intervenuta con denaro pubblico (cioè con i nostri soldi) per riparare i danni fatti da imprese private, alle quali mai nessuno ha chiesto alcun risarcimento dei danni, nonostante sul selciato insistessero ( e insistono ancora) le firme indelebili dei responsabili.
Anzi Qualcuna, di questi interventi, se n’è fatto vanto in qualche campagna elettorale con imperturbabile faccia di bronzo e con un candore tanto artificiale, quanto irritante.