Il Salento delle leggende
Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto
di Antonio Mele ‘Melanton’
Quando muoiono le leggende finiscono i sogni. Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.
Siamo stati fortunati, quelli della nostra generazione.
L’ultima della millenaria civiltà contadina, la prima di quella spaziale e tecnologica. A cavallo – e il gioco di parole è qui davvero inevitabile – tra i cavalli che scalpitavano sulle strade di polvere bianca e le astronavi che sono sbarcate sulla luna.
Una generazione passata dalla povertà al benessere economico. Dalla semplicità alla smoderatezza. Una generazione che ha conosciuto i lumi a petrolio e le luci fatue della televisione, l’analfabetismo diffuso e il precariato per i laureati, la felicità dell’attesa per le piccole cose e l’insostenibile insoddisfazione del tutto e subito…
Siamo stati fortunati perché possiamo confrontare, capire, e fors’anche spiegare, quanta ricchezza ed amore avevamo. Quando noi siamo stati piccoli, le nostre famiglie erano tutte numerose. Ai genitori, e fratelli, e sorelle, si accompagnavano nonni, nonne, zii, cugini, amici, conoscenti, persone di passaggio, vicini di casa. Un tesoro di umanità inestimabile. Forse mai più ripetibile. Sicuramente mai dimenticabile.
Non sembra, ma sono trascorsi secoli. Anni-luce, anzi. La gente – ciascuno di noi – viveva con naturalezza nelle case e nelle strade, e dividevamo le stesse emozioni.
I racconti, ad esempio. Quel fascinoso momento, soprattutto in estate, quando le sere all’aperto – seduti con gli occhi curiosi intorno ai nostri maestri di vita – si affollavano di orchi, di draghi, di figlie del re, di misteriosi tesori nascosti… Le nostre fantasie ci accompagnavano verso eroi temerari e invincibili che attraversavano boschi e montagne, e cammina e cammina, superando insuperabili prove e rompendo incantesimi, sempre arrivavano in quell’indefinibile e magico confine del mondo, al di là di tutti i possibili orizzonti, “dove non canta gallo e non luce luna”…
Siamo stati fortunati. Perché quella nostra generazione ha saputo comunque tenere viva la memoria e trasferire qualcosa di quei vecchi tempi che i tempi nuovi non potranno più disperdere: la purezza dell’essere, il senso dell’identità e dell’appartenenza, l’orgoglio delle ‘radici’.
Valori autentici. Resistenti. Inalterabili. Ovunque e con chiunque si concerti la propria esistenza. E che il Salento in buona parte conserva e sa trasmettere ancora, grazie anche (e soprattutto) attraverso la cultura e le salde tradizioni popolari.
Autentico marchio di fabbrica della civiltà salentina sono alcune leggende come questa, riguardante la famosa “pietra miracolosa” della cappella di San Vito a Calimera.
Vi si va obbligatoriamente nel giorno della Pasquetta, e si accede al tempietto – ubicato appena fuori dal paese, ad est del cimitero, sulla strada che conduce a Martano – per il rito propiziatorio “della fertilità e della salute”, arcaico e pagano, ma cooptato nella religione cristiana. Al centro dell’unica navata spunta dal terreno un masso forato, preesistente alla chiesa stessa.
L’apertura nella ‘pietra miracolosa’ pressoché circolare, è alquanto stretta. E tuttavia, appiattendosi sul pavimento, stirandosi e contorcendosi all’occorrenza, una moltitudine di pellegrini (di varia e diversa età, sesso, peso, volume e statura) si provano tenacemente ad attraversare questo monolite d’epoca preistorica, redimendosi e assorbendo dalla magica petra de santu Vitu ogni proprietà benefica e rinnovate energie.
Un’impresa, come si può facilmente intuire, inconsueta e per nulla agevole, ma che – come vuole la leggenda – avrà un esito immancabilmente positivo per chi sia animato da purezza di spirito e da una fede solida e profonda, elemento essenziale perché il prodigioso ‘passaggio’ purificatorio si verifichi.
Se la fede muove le montagne, qui nella chiesetta di san Vito le attraversa.
Ci sono altre “pietre” che continuano a solleticare la fantasia del popolo salentino.
Fra queste, le più misteriose e spettacolari sono sicuramente quelle che si trovano (da secoli, ed anzi da millenni) nelle campagne fra Minervino e il comune più piccolo e anche più grazioso della provincia di Lecce, Giuggianello.
Benché di dimensioni eccezionali, non è facile trovarle, dissimulate come sono fra le vaste distese di ulivi che ricoprono le serre del luogo. Una volta reperite, però, la fatica cederà il passo alla meraviglia e al piacere della scoperta, e la sorpresa e l’ammirazione saranno assolute. Non è neanche facile descriverle in tutta la loro completa magnificenza: bisogna insomma pazientemente cercarle, vederle, e toccarle (davvero) con mano. Un’emozione unica e stupefacente.
Nell’area in questione, a poca distanza gli uni dagli altri, si trovano i massi più imponenti, ai quali la tradizione popolare ha assegnato nomi favolosi come lu Furticiddhu (arcolaio) de la Vecchia (cioè della Strega, moglie de lu Nanni Orcu), lu Liettu de la Vecchia, o lu Pede d’Ercule (a forma di un piede gigantesco).
Per convincimento del celebre archeologo francese François Lenormant (1837-1883), che intorno al 1866 fu in Italia per esplorare anche le regioni salentine, lu Furticiddhu (che ha la forma di un colossale fungo pietrificato, ed è anche conosciuto come il Masso oscillante) sarebbe nientemeno che la prova fisica del famoso “mito di Ercole” narrato da Aristotele e riportato nel De Mirabilis Auscultationibus.
Secondo tale mito, Ercole rincorse i Titani fin nella Japigia meridionale (la nostra Terra d’Otranto), lanciando contro di loro dei massi enormi nello scontro decisivo, avvenuto appunto nella zona fra gli attuali centri abitati di Giuggianello e Minervino. Uno di questi massi ricadde poi su un cumulo di altre pietre colossali, posizionandosi in un tale equilibrio che il semplice tocco del dito di un bambino basterebbe per farlo rimuovere…
Sempre a proposito dei Titani, va ancora detto che essi, spinti da Ercole verso il mare, finirono poi per annegare, e la decomposizione dei loro corpi diede origine alle acque sulfuree delle terme di Santa Cesarea.
Ma questa è un’altra storia. Anzi, un’altra leggenda.
E le storie d’amore? Eccone una, particolarmente curiosa: è quella della bellissima Principessa di Brindisi e dell’intraprendente Cavaliere misterioso venuto dall’Oriente.
Le nonne dell’alto Salento narrano ancora del nobile don Alfonso, signore brindisino al tempo della dominazione spagnola il quale, essendo giunta la sua unica figlia, fanciulla di rara bellezza, in età da marito, era pronto a concederla in sposa, e con una ricchissima dote, al cavaliere che più d’ogni altro avesse dimostrato di essere forte, audace, e massimamente ingegnoso.
Per questo, ricorse ad un astuto stratagemma. In un’ala del tuttora esistente castello-fortezza posto sull’isola di sant’Andrea, in gran segreto, e in tredici stanze diverse, fece alloggiare la figlia ed altre dodici fanciulle della stessa età, abbigliate tutte allo stesso modo, sfidando gli aspiranti mariti ad indovinare il nascondiglio, e identificando poi, senza alcun indizio particolare, chi fra le tredici fanciulle fosse la vera Principessa.
Aperto ufficialmente il bando, numerosi contendenti si cimentarono nell’impresa, ma dopo molte settimane nessuno fu in grado di risolvere l’arcano. La Principessa, peraltro, si stava letteralmente ammalando di noia. Finché, a bordo di un grande veliero, giunse dall’Oriente un giovane e nobile cavaliere il quale, venuto a conoscenza della singolare ed enigmatica competizione, si fece costruire dal più valente cesellatore della città, con la massima riservatezza, una grande aquila d’oro, capace di nascondere all’interno una persona, e dotata altresì di un meccanismo che, facendo muovere le ali, diffondeva nell’aria un profumo soave, e una musica attraente e melodiosa.
Incuriosito dallo straordinario gioiello di cui parlava ormai tutta la città, don Alfonso chiese all’orafo di poterlo avere in prestito, con l’intento di mostrarlo alla figlia e, se di suo gradimento, di fargliene dono. Il gioielliere naturalmente acconsentì e l’aquila d’oro (nella quale si era preventivamente nascosto il giovane cavaliere d’Oriente) fu portata con ogni cautela nella stanza della Principessa.
Il seguito è di facile intuizione: andati via tutti dalla stanza segreta, il misterioso e scaltro cavaliere – che era peraltro di aspetto affascinante, e figlio di un ricco Sultano – uscì dal nascondiglio, si presentò alla bella Principessa, le raccontò le sue ardimentose imprese, e si dichiarò innamorato perdutamente di lei. Anche per la Principessa si trattò di un autentico colpo di fulmine: così, la storia si concluse con il primo di un’infinita serie di baci.
Superfluo aggiungere che, come in tutte le storie d’amore dei vecchi tempi, la Principessa di Brindisi e il prode Cavaliere d’Oriente vissero per sempre felici e contenti…
Auguri e figli maschi!