LE TABACCHINE
Alcune di loro raggiungevano a piedi la “fabbrica”, che a volte distava tre chilometri
di Mauro De Sica
Alle ore 7.00 in punto di ogni giorno feriale, la sirena della “fabbrica” dei tabacchi chiamava a raccolta le tabacchine, giunte sul posto di lavoro almeno un quarto d’ora prima. Molte erano del luogo, ma altre venivano da paesi vicini… a piedi, ovviamente, qualsiasi fossero le condizioni meteorologiche. Non erano poche le volte che, per coprire i tre-quattro chilometri di strada, si imbattessero in un improvviso e inopportuno temporale, che le sorprendeva senza concedere loro alcuno scampo. Un albero fronzuto o un trullo disabitato le riparava per pochi minuti. Poi, appena smetteva di piovere, riprendevano la strada, aumentando l’andatura per recuperare il tempo perso. Erano fortunate quelle che raggiungevano il posto di lavoro utilizzando un carro coperto o, negli ultimi tempi, un pullman della Sud-Est.
Appena un minuto dopo il suono stridente della sirena, il portone d’ingresso della fabbrica veniva sbarrato e alle operaie ritardatarie non era più concesso di accedere nei locali, nonostante avessero buone ragioni per giustificare il ritardo. Per loro non rimaneva altro che fare mestamente ritorno a casa tra tante imprecazioni. Insomma, oltre al danno provocato dall’improvviso temporale, anche la beffa della perdita della giornata lavorativa.
Una volta entrate in fabbrica, le tabacchine avevano a disposizione solo un paio di minuti per indossare il grembiule, ricevere l’ordinativo di lavorazione dalla “maestra” e iniziare a svolgere, in assoluto silenzio, il proprio compito.
All’interno della fabbrica ogni operaia aveva un compito ben specifico. in relazione alla propria qualifica.
Vi erano le spulardatrici che, avendo una modesta conoscenza del prodotto da lavorare, erano addette unicamente a scegliere le foglie a seconda della loro consistenza. Vi erano, infatti, foglie quasi inservibili (che venivano scartate), altre scadenti, altre ancora passabili ed infine (le poche) ben integre e grandi. Queste operaie ricevevano la paga più bassa.
Le operaie cernitrici, invece, dividevano le foglie in basse alla “classe” di appartenenza e al colore.
Le spianatrici, dal loro canto, le appiattivano, lisciandole, pressandole e ordinandole in mazzetti. Questi venivano consegnati alle torchiatrici per la confezione delle cosiddette “ballette”, che in seguito erano “stufate”, per essere meglio conservate. Dopo circa un anno, il tabacco era periziato da appositi tecnici ed acquistato dal Monopolio di Stato. Succedeva che alcune ballette fossero di scarsa qualità, per cui, dopo attenta perizia, erano rifiutate.
Le operazioni descritte erano svolte dalle operaie sistemate attorno al banco in modo da costituire un’efficiente catena di lavoro. Insomma le foglie, partendo dalle spulardatrici, arrivavano, attraverso diversi passaggi, alle cernitrici, che provvedevano a “stufare” il prodotto finito.
Sovraintendeva a tali operazioni una capo-squadra, che, oltre a ricevere una paga migliore rispetto alle operaie generiche, controllava attentamente il lavoro svolto dal gruppo a lei affidato (generalmente era di una dozzina di operaie).
Al vertice della piramide, svettava la figura autoritaria della “maestra”, che adottava sistemi di sorveglianza e di controllo molto duri. Essa manteneva la disciplina, spostandosi in continuazione da un gruppo di operaie verso un altro e intervenendo con sguardi paralizzanti ed aspri rimproveri nei confronti di coloro sorprese a chiacchierare. Qualora le stesse continuassero a parlottare, la maestra ricorreva alla sospensione dal lavoro per uno o più giorni, a seconda della gravità dell’episodio.
Nello stabilimento, in cui le maestre erano molto vigili ed austere, il silenzio era sovrano. L’unico rumore percettibile era rappresentato dal modesto stridio dalla manipolazione delle foglie di tabacco. Alle tabacchine non era consentito di scambiare parola alcuna, neanche se fosse pertinente alla lavorazione del prodotto. Qualora sorgesse un problema, di qualsiasi entità o natura, la tabacchina poteva interpellare unicamente la “maestra”, anche per impellenti motivi fisiologici.
“Nu’ pputivi tire ‘na parola cu’ lla cumpagna te coste, nu’ pputivi respirare, nu’ tti putivi mancu fiatare lu nasu, ca se no la mèscia te critava!” – raccontava una tabacchina di Casarano in una vecchia intervista rilasciata nel lontano 1973.
Colei che era sorpresa a parlare o anche bisbigliare era richiamata energicamente perché sottraeva tempo al lavoro. In ogni caso la tabacchina era tenuta a chiedere scusa alla maestra, la quale decideva, arbitrariamente, se sospenderla per qualche giornata oppure licenziarla definitivamente. La tabacchina intenta a mangiucchiare qualcosa era immediatamente licenziata, poiché era severamente proibito farlo.
Generalmente la maestra era persona molto fidata, che era tenuta a tutelare l’interesse del concessionario. La sua funzione era di estrema importanza nell’interno della fabbrica. La maestra un po’ indulgente si lasciava prendere la mano, con conseguenze dannose sulla “resa produttiva” delle operaie. Le maestre rigide e inflessibili erano molto richieste dai vari concessionari, che, per accaparrarsele, arrivavano a remunerarle profumatamente.
Il lavoro era interrotto a mezzogiorno per consentire a tutto il personale di consumare la “pagnotta”, per poi essere ripreso un’ora dopo e concludersi alle ore 16.30. In pratica ogni operaia lavorava otto ore e mezza al giorno per sei giorni settimanali, per un totale di 51 ore settimanali. Una sorta di sfruttamento in piena regola!
Al rientro in magazzino, dopo il sobrio pasto di mezzogiorno, le operaie riprendevano il programma di lavoro interrotto, che doveva essere concluso entro l’orario di chiusura del magazzino. Va però detto che il lavoro programmato non era quasi mai portato a termine a fine giornata, per cui si rendeva necessario prolungarlo sino a quando ogni cosa non era definitivamente ultimata.
Il tempo “straordinario” svolto dalle operaie era retribuito (malamente) solo da pochissimi concessionari[1]. Al termine del lavoro quotidiano, le tabacchine dovevano lasciare il proprio posto perfettamente pulito e ordinato. Se qualcuna abbandonasse sul banco lo strumento del lavoro o si dimenticasse di rimuovere qualche sbriciolatura di tabacco, rimediava un severo rimprovero o una breve sospensione da parte della maestra.
I concessionari, per prolungare anche di pochi minuti il lavoro, escogitavano strani marchingegni. Uno su tutti era la recita del Santo Rosario… con tutti i Misteri. Se nel bel mezzo della preghiera squillava la sirena (che segnalava la fine della giornata lavorativa), le operaie erano costrette a rispondere al Santo Rosario senza alzarsi dal posto e continuando a svolgere le proprie mansioni.
Per tale motivo l’orario di lavoro giornaliero automaticamente saliva da otto ore e mezza a nove e, in alcuni casi, anche a dieci[2].
Alla fine della stressante giornata, le tabacchine se ne tornavano stanche morte alle loro case, ma con il pensiero rivolto al lavoro domestico che le attendeva e che le avrebbe ancora di più spossate. Poi, intorno alle dieci di sera, finalmente si coricavano, non prima di aver recitato le sante preghiere e rivolta la supplica al santo di turno perché proteggesse la loro famiglia dalle malattie e desse loro la forza per tirare innanzi. Infilatesi nel letto e chiusi finalmente gli occhi, si addormentavano,voglie del marito permettendo.
All’indomani mattina, intorno alle cinque e mezza, con i sogni ancora lasciati a mezz’aria, si rialzavano, si scrollavano di dosso la voglia di dormire, davano una veloce ripassata alle cose di famiglia, preparavano in fretta e in furia il pasto del mezzogiorno, e via, insieme alle altre compagne di ventura, ad incamminarsi a piedi verso il magazzino del concessionario, che, a volte, distava anche tre-quattro chilometri.
Lungo il percorso, si riparavano dal freddo avvolgendosi in larghi e confortevoli scialli e cantando canti popolari per farsi coraggio ed allentare il morso della fatica. Per loro il canto era una liberazione, che le riscattava da ogni sofferenza e sopruso della vita. Arrivavano al magazzino con un buon quarto d’ora d’anticipo, per cui si adagiavano in un cantuccio a riprendere il sogno spezzato, sino a quando lo stridulo suono della sirena non le riportava con i piedi per terra. Era l’inizio di un’altra faticosa giornata di lavoro e così per tanti anni, sino a quando, ormai consunte dal lavoro, sofferenti e ferite dalle rughe, rimanevano in casa a filare la lana, a lavorare a maglia e, di tanto in tanto, a rivangare i ricordi di una fuggente gioventù, vissuta alla lucerna, fra tante fatiche, amarezze e privazioni, e rischiarata da pochissimi sorrisi e gioie piene.
[1] I concessionari erano rappresentati da ditte autorizzate a lavorare il tabacco e a consegnarlo in ballette al Monopolio di Stato. Generalmente si trattava di ricchi proprietari terrieri ai quali, e solo ai quali, erano affidati questi remunerativi appalti statali.
[2] Addirittura, quando il lavoro era eccessivo, le tabacchine erano chiamate a lavorare di domenica e a ricevere un salario molto basso. Le donne era costrette ad accettare le umilianti condizioni di lavoro per non perdere il posto, che, per alcune, rappresentava l’unico introito familiare… mentre intanto i forzieri dei signori concessionari s’ingrossavano sempre più.