Nel Salento vi erano oltre cento, mentre un migliaio nell’intero Regno delle Due Sicilie
LE SOCIETÀ SEGRETE
Erano movimenti clandestini sorti per contrastare il governo borbonico o per difenderlo
di Mauro de Sica
Premessa
Grazie allo storico Pietro Palumbo di Francavilla Fontana, al notaro Nicola Pignatelli e a Ferrante Tanzi, direttore dell’Archivio di Lecce, la storia salentina del primo Ottocento si è potuta arricchire adeguatamente. Il primo, grazie ad una ricerca meticolosa, ha studiato in lungo e in largo il Risorgimento Salentino; il secondo ha redatto uno zibaldone di cause criminali risalenti alla Repubblica Napoletana del 1799, mentre il terzo ha riordinato pazientemente molte notizie sulle Sette o Vendite Carbonare.
Poco è emerso dagli Atti di polizia relativi al periodo 1800-1860, ammucchiati qua e là disordinatamente in diversi luoghi del Regno. La scarsità di notizie è anche dovuta al fatto che molti storici dell’epoca erano asserviti al regime borbonico, per cui poche verità furono consegnate alla Storia; anzi, uomini di provato stampo repubblicano e patriottico, come Oronzo Massa, Giuseppe Libertini, Nicola Mignogna, Giuseppe Fanelli, Liborio Romano, Epaminonda Valentino, Sigismondo Castromediano, Antonietta de Pace e altri, furono a lungo perseguitati, incarcerati, torturati. Alcuni marcirono in galera, altri furono passati per le armi, in pochi si salvarono.
Origine delle società segrete
Va innanzitutto precisato che, nel Meridione d’Italia, le società segrete erano già operanti ancor prima della Repubblica Napoletana del 1799, fallita nel sangue dopo appena mezz’anno.
A quei tempi si contrapponevano due fazioni estremistiche con finalità diverse: i Giacobini da una parte, i Realisti (poi diventati Sanfedisti, Concistoriali, Trinitari, Calderari) dall’altra.
Sia gli uni che gli altri si muovevano clandestinamente. I primi erano convinti assertori che la libertà, l’indipendenza e il retto governo si potessero ottenere soltanto con una Repubblica democratica. Si muovevano nell’ombra, ma erano legati da vincoli indissolubili e da una buona rete organizzativa. Anche i secondi agivano in clandestinità, ma erano foraggiati e manovrati dai Borbone. Appoggiati dal clero e da alcuni nobili fedeli alla corona, i realisti ritenevano che i giacobini fossero nemici del Papa, di Cristo e del Trono e, come tali, dovevano essere eliminati. Essi usavano tutti i mezzi, leciti o illeciti, per scovarli e combatterli. Molti esponenti giacobini di spicco perirono per mano realista.
La società segreta dei Carbonari[1]
La carboneria vera e propria era stata introdotta nel Regno delle Due Sicilie intorno al 1807, forse dal generale francese Miot, e aveva attecchito immediatamente in quasi tutti gli strati della popolazione. Molti borghesi e nobili napoletani erano stati adeguatamente istruiti e guidati da alcuni ufficiali transalpini al pensiero politico giacobino, in modo che fosse diffuso in tutte le terre del Meridione, sino a radicarsi nelle coscienze di ogni cittadino. Nel 1811 il governo repubblicano di Gioacchino Murat aveva istituzionalizzato il movimento della carboneria, conferendogli il necessario riconoscimento politico e tutelandolo legalmente; ma ben presto le sette carbonare gli si rivoltarono contro per la politica economica sbagliata e ben distante dall’iniziale pensiero riformista.
La finalità precipua delle sette carbonare, che nella struttura erano molto simili a quelle massoniche, era l’emancipazione di ogni uomo e la sua uguaglianza di fronte alla società, alla legge e a Dio. A differenza delle sette massoniche, in quelle carbonare vi era un ordine androgino, cioè vi potevano aderire sia uomini (chiamati buoni cugini) sia donne (chiamate sorelle giardiniere). L’emblema di ogni setta carbonara riportava numerosi simboli caratteristici: la croce drappeggiata, la corona di spine, il fascio e la scure, la spada e il flagello, Marte e Pallade Frigia, il gallo sull’òmphalos, l’albero, il sole, la terra, l’acqua, la bilancia, la scala, il Vangelo, il Cristo e altri minori. I vari simboli erano collocati intorno ai vertici di due triangoli equilateri intersecanti, uno dei quali capovolto sull’altro nella parte mediana. I lati dei triangoli erano costituiti da lunghe catene, a testimonianza delle sofferenze del Cristo, redentore degli oppressi. La Carboneria era in pratica la società degli umili e dei perseguitati. Cristo era considerato il primo carbonaro, san Teobaldo era il patrono della setta. Nella parte interna dei triangoli vi erano delle lettere maiuscole, disposte su due righe. La prima conteneva: A…G…D…G…M…D…U…, vale a dire “A Gloria Del Gran Maestro Dell’Universo”; la seconda, invece, S…G…A…D…N…P…S…T…, cioè “Sotto Gli Auspici Del Nostro Protettore San Teobaldo”.
Come in tutte le sette, l’iniziazione alla Carboneria avveniva con riti che avevano del simbolico, del misterioso ed anche del pauroso. All’iniziato erano bendati gli occhi e poi era condotto nella baracca, luogo segretissimo, considerato il Tempio della Virtù. Qui, alla presenza di tre luci (il Gran Maestro e due Maestri) e di persone incappucciate, era sottoposto a una serie di domande e ad alcune prove di coraggio. Se l’aspirante carbonaro superava i vari ostacoli e dimostrava di possedere ingegno, fede e coraggio era sbendato. Si ritrovava con quattro pugnali puntati alle tempie e con il Gran Maestro (anch’esso incappuc-ciato) che gli ricordava che, se avesse tradito, sarebbe stato ucciso brutalmente, il suo corpo fatto a pezzi, bruciato e le ceneri sparse al vento. Dopo di che, l’iniziato era invitato a giurare e a firmare con il suo stesso sangue una pergamena. Per ultimo, il Gran Maestro gli consegnava un nastro tricolore (rosso, nero e celeste), chiamato chantillon, e, pubblicamente, lo nominava Apprendista. Alla fine del rito iniziatico, gli rammentava che l’orgoglio, la vanità e le ricchezze dovevano essere bandite dalla sua vita e che nella sua mente dovevano alloggiare soltanto l’umiltà, la giustizia e la fratellanza.
Ogni affiliato non conosceva altro che i superiori immediati della vendita (setta) di appartenenza, ai quali doveva cieca obbedienza. Nel corso della sua vita poteva salire la scala gerarchica, passando da Apprendista, a Maestro, a Gran Maestro e, infine, a Grande Eletto.
I carbonari, per riconoscersi, dovevano far ricorso a un complicato sistema di battute, di toccamenti, di passi e, infine, a seconda delle situazioni, ad una sequenza di particolari parole d’ordine.
Negli anni a seguire si costituirono in tutto il Salento numerose vendite carbonare. I titoli con cui erano denominate risentivano del risveglio della letteratura classica, iniziato dall’Alfieri, che aveva in odio i tiranni.
A Lecce troviamo ben sei vendite de L’Idume, il cui Gran Maestro era Girolamo Congedo, ad Otranto L’Idro, a Galatina I Novelli Bruti, guidati da tale Giovanni Campa, a Gallipoli L’Asilo dell’Onestà e L’Utica del Salento, a Nardò La Fenice Neretina, a Squinzano Il sollievo dell’Umanità, a Monteroni I figli di Muzio Scevola, a Copertino I Figli della Ragione, a Soleto Il Sole Rallegrato, a Carpignano Gli Alunni di Marte, a Novoli Il Nuovo Carbone e Il Novilunio, a Taurisano L’Aquila Imperiale Romana, e tanti altri ancora. A Lecce gli affiliati si riunivano presso la bottega “Alle quattro Spezierie” di tal Giacomo Macella o presso il “Gran Caffè” di Raffaele Persico, in Piazza Sant’Oronzo.
La setta dei Guelfi
Una setta carbonara moderata era quella dei “Guelfi”, presente in molte parti del Meridione e dello stesso Salento. Gli affiliati si limitavano a diffondere l’ideale repubblicano e liberale, piuttosto che prendere parte a movimenti insurrezionalisti e violenti.
Una tra le sette più affermate era, senza alcun dubbio, L’Utica del Salento, sorta a Gallipoli intorno al 1820 da una costola della vendita carbonara L’Asilo dell’Onestà, sanguinaria e interventista. Pare che i motivi della scissione siano da collegare all’uccisione di un gendarme gallipolino, omicidio non condiviso da alcuni affiliati. La nuova setta, guidata nei primi anni da Gregorio de Pace (padre della più famosa Antonietta) e, alla sua morte, dal fratello, il canonico Don Antonio, si riuniva nelle casine di Stracca e di Camerelle, nei pressi di Villa Picciotti (Alezio).
La setta dei Calderari
Rimpossessatosi del regno nel 1815, Ferdinando IV di Borbone aveva immediatamente vietato logge massoniche e vendite carbonare. Per completare la sua campagna contro i Carbonari, il sovrano aveva autorizzato e sostenuto una setta a lui fedele, i Calderari, o anche Calderai, che diedero inizio ad una serie infinita di regolamenti di conti. Quella dei Calderari era un’associazione segreta reazionaria e filo-borbonica, chiamata anche società «del contrappeso», perché la sua attività era contrapposta a quella dei carbonari. Il sangue si spargeva per tutte le terre del regno e la delazione era diventata un fatto quotidiano. In provincia di Lecce, resta famosa la setta dei calderari di Gallipoli, guidata dal notaio Francesco Sambati, il quale più volte si scontrò con gli affiliati de L’Asilo dell’Onestà. È da ricordare anche il violento Ciro Vergine da Maglie.
Malgrado queste pressioni la Carboneria salentina continuò a crescere.
A capo della setta controrivoluzionaria dei calderari c’era il Principe di Canosa Antonio Capece Minutolo, graziato da Ferdinando ai tempi della rivoluzione del ’99 e poi schieratosi sull’altra sponda, tanto da essere nominato ben presto Direttore di Polizia del Regno. Il nobile si lasciò andare a continue scorrerie nelle zone ad alto indice di carboneria. Godendo del favore del governo, i Calderari agivano in modo inconsulto e sfrenato, compiendo violenze e azioni brutali. Per tale motivo la setta, dopo alcuni anni, fu sciolta e perseguitata dallo stesso sovrano.
Altre sette di minore importanza si mossero nella prima metà dell’800. Su tutte ricordiamo i Concistoriali e i Trinitari, dalla parte borbonica, mentre i Filadelfi, gli Edennisti, i Turbolenti e, soprattutto, i Decisi, dalla parte liberale.
Conclusione
A un Ottocento, fervido e movimentato, in cui gli uomini si sono battuti strenuamente per il conseguimento della Libertà, della Giustizia e della Pace, ha fatto seguito un secolo pieno di guerre e di sangue, in cui sono state conquistate soltanto le Carte Costituzionali e una vita (apparentemente) democratica, ma ancora inquieta, preoccupante e molto distante dalle grandi aspettative umane e sociali.
Oggi, purtroppo, godiamo di una libertà contenuta, ristretta, tascabile. Vi sono persone che ne usufruiscono a piacimento, a volte anche per perseguire degli interessi illeciti; ad altre, invece, è concesso il minimo indispensabile per muoversi entro spazi vitali sempre più ridotti e ritagliarsi una vita appena appena decente. La vera libertà, quella di cui tutti vorrebbero usufruire, è ancora inchiodata sulle pagine della Carta Costituzionale e stenta a muoversi tra la gente. Occorrono decenni e decenni di dura fatica, di lotte civili, di impegni sociali perché si riesca ad abbattere definitivamente le roccaforti egemoniche e possa avverarsi il grande disegno che l’uomo si porta dietro dall’alba della Storia.
[1] La Carboneria era sorta dalla setta dei “Filadelfi”, chiamati anche “Filateti”, il cui capo era Filippo Buonarroti.