Le lampe
di Pippi Onesimo
Subito dopo la putìa (l’esercizio) de ‘a Bòmbana, si svolta a sinistra (per chi dall’Orulogiu scinde versu l’Anime) per salire dalla via de le Moniceddhre (Via Scalfo), che, snodandosi in tutta la sua lunghezza, supera la strada de lu Spitale vecchiu (Via Siciliani) e si ferma su Via Turati, affacciandosi con candido stupore sul balcone dell’arcu de la Porta Nova.
Poco prima, la Chiesa della Purità, posta proprio sulla strozzatura di Palazzo Vallone, segnala la presenza di una delle più vecchie e nobili Opere Pie operanti in Galatina: l’Istituto Immacolata.
Qui le Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli hanno gestito, fino a parecchi decenni fa, un apprezzato educandato, che ospitava prevalentemente le orfanelle, ma anche, a proprie spese, altre fanciulle provenienti da famiglie agiate, tanta era la rinomanza, la notorietà e la considerazione per la saggia e oculata conduzione del Convitto.
Chicco percorreva quella strada per tornare a casa, pedalando lentamente anche perché in leggera salita.
Arrivato in fondo, veniva attratto, però, dal vociare divertito di un capannello di gente, fermo nel piccolo spiazzo fra via Orfanotrofio e la Chiesa.
Nonostante avesse fretta di tornare a casa (lo aspettavano per la merenda e… per ‘nfilare tabacco), qui si fermava, reggendo la bicicletta dal manubrio, dal quale penzolava, ciondolando, la borsa della spesa.
La curiosità, fortemente solleticata dagli atteggiamenti allegri, divertiti e stravaganti della combriccola ferma al centro della strada, convinse Chicco (nonostante sapesse di rischiare, al ritorno, qualche sostenuto e pericoloso rimprovero per il ritardo) ad assistere alla sceneggiata de lu Piethruzzu Cheròndula.
Avevano di fronte un innocuo e simpatico ometto, forse un finto tonto per studiato opportunismo o forse effettivamente nu pocu de la bbuccàta (un po’ svanito), come sostenevano in tanti.
Chicco intuì facilmente che tutti i presenti erano pervasi da una leggera e soffusa estasi e che il loro allegro vociare era dettato, più che altro, dai ritmi avvolgenti dell’ebbrezza… spiritosa di qualche lampa, (ma certamente più di una) che era, ed è, un robusto e spesso bicchiere di vetro a spigoli arrotondati, usato nelle osterie, e può contenere circa un quarto di vino.
Non era nemmeno difficile capire che la comitiva era partita da la putìa de lu Muscia (una famosa, storica osteria galatinese, ora dismessa) posta allora sulla vicina Via de lu Cazzasajette, fra llu Giuliu Tecu (una delle più antiche edicole di giornali e barberia di Galatina, ora solo edicola) e ll’angulu de la Gilli (Arco Andriani).
Le lampe si consumavano preferibilmente in questa osteria, perché lu Muscia disponeva sempre di ottimi vini paesani, certamente i migliori, prodotti dalla antica, saggia ed eccellente maestria vitivinicola dei sapienti contadini salentini.
Vi trovavi un sincero, robusto e corposo “negroamaro” d’annata, che accompagnava sempre pezzetti di carne di cavallo cotti alla pignata (piccolo tegame di terracotta, prodotto, come tanti altri utensili, dalla antica e affascinante arte figulina della vicina Cutrofiano).
Oppure la faceva da padrone il malizioso e vellutato “aleatico” simpaticamente vivace, leggermente abboccato e invecchiato almeno da un anno, perché era il vino più richiesto e apprezzato, ma che diventava pericolosamente malandrino, se bevuto a digiuno.
A lui si deve il primato di lunghe sbornie e innocui, quasi amichevoli, innocenti litigi.
Quante notti insonni ha procurato a diversi incauti avventori!
Quante ne hanno passate all’addiaccio, per non aver saputo trovare, offuscati dai fumi dell’alcol, la strada di casa!
Non si poteva neanche fare a meno dell’astringente “primitivo” rosso cardinalizio, che si gustava prevalentemente cu nnu nsurtu de casu, assaggio di formaggio pecorino, o vaccino appena ‘nceratu (stagionato da pochi mesi), come antipasto.
Ma, fra tutti, non poteva mancare “la lacrima”, il vero nettare degli Dei, un vino diafano, trasparente, dal rosa al giallo paglierino con lievi riflessi dorati, delicatamente frizzante, secco, imperioso, ma prepotente e traditore.
Questo accompagnava sempre il passatempo preferito da tutti gli avventori de lu Muscia: mangiare lentamente, uno ad uno, schiattuni crudi de cicora (polloni), appena, appena spolverati, dal lato reciso, col sale finemente stumpatu e intervallati con fave e cìciari rrustuti cu llu brustulinu, a focu lentu cull’asche de vulìa (fave e ceci arrostiti col tosta caffè, fatto girare lentamente sulla fiamma bassa, tenuta accesa nel camino e alimentata con legna ricavata da tronchi di ulivo).
Erano, e sono tutt’ora, alcuni dei vecchi, vigorosi, nobili vini salentini, che da molti anni hanno già superato orgogliosamente, e a pieni voti, anche i confini nazionali, spinti dalla competenza, dalla passione, dalla intelligenza e dalla intraprendenza di alcuni pionieri della viticoltura locale.
Sotta llu Muscia, u Piethruzzu stazionava abitualmente anche di mattina, come se fosse la sua seconda casa. Ma di sera, e fino a tardi, diventava il suo regno, dove aspettava che qualcuno gli commissionasse una delle sue speciali e singolari telefonate.
Qui trascorreva il suo tempo, fra nnu Solitariu o ‘na manu de Patrone, cercando in tutti i modi di non rimanere all’urmu (senza bere, con la bocca asciutta). Questi sono giochi che si effettuano con le carte napoletane.
Il primo è un ingenuo passatempo che si svolge con un solo (solitario) giocatore: si adagiano sul tavolo trentasei carte coperte, disponendole per nove su quattro fila e trattenendone quattro coperte, dalle quali si pesca (si estrae la carta).
Poi si scopre una carta per volta cercando di ricomporre correttamente i quattro “pali” (bastoni, coppe, spade e denari), partendo dall’asso fino al “re”.
Il gioco del Patrone è più complesso e articolato e si svolge in compagnia… anche di bottiglie di birra o, preferibilmente, de lampe de vinu.
E’ un gioco rumoroso, simpatico e divertente, dove si cerca di far rimanere all’urmu (senza bere) un giocatore avversario predestinato (la vittima sacrificale).
Ma può diventare pericoloso se l’ebbrezza raggiunge un certo… livello e se il malcapitato lassatu sempre all’urmu perde la pazienza per l’accanimento dei giocatori avversari, pe llu scornu (la vergogna) e sopratutto… per l’arsura.
Lu Cheròndula non aveva di questi problemi: all’urmu non rimaneva mai.
Anzi, durante il gioco, i compagni tentavano di fargli bere quanto più vino possibile (“beva!”, gli imponevano, nel rispetto rigoroso di una delle tante regole del gioco) per renderlo alticcio al punto giusto e prepararlo così alle telefonate… spirituali dell’oltre tomba.
Non era facile ‘mbriacare (ubriacare) lu Piethruzzu, perché era una spugna naturale e riusciva ad assorbire allegramente tutto: non solo i fumi dell’alcol, ma anche gli scherzi di cui inevitabilmente era oggetto.
Tutto questo, perché lui era, allora, l’inventore, in assoluto al mondo, del primo telefono senza fili, una specie di cellulare senza batteria e senza scheda, sicuramente il più economico e il più efficace mezzo di comunicazione.
Tutti lo conoscevano bene, come il re di denari.
I ragazzini, incontrandolo per strada, lo seguivano a frotte e, fra scherzi e lazzi, passavano il loro tempo, in mancanza d’altro, a prenderlo in giro, o a tentare di scroccare (senza mai riuscirci) una telefonata a sgrascju (gratis).
Lu Piethruzzu non si sottraeva al gioco, non si infastidiva, non si arrabbiava; sembrava, quasi, li incoraggiasse con la sua indifferenza, o li assecondasse col suo comportamento rimesso e passivo.
Anzi, in fondo in fondo sembrava compiacersi per tanta notorietà, quasi ne andava orgoglioso, anche se non lo dava a intendere, come una star navigata e furbescamente sorniona.
Gli adulti, invece, sapevano di poterlo rintracciare più facilmente in qualche putìa de vinu (osteria), quando avevano intenzione di organizzare la sceneggiata della telefonata.