Lungo la valle dell’Idro
di Massimo Negro
Una splendida domenica di dicembre, quella tra poco andrò a raccontare. Una mattinata trascorsa piacevolmente in compagnia dell’amico Michele Bonfrate che ci ha introdotto alle tante bellezze che rendono unico il paesaggio della Valle dell’Idro.
E solo di un’introduzione effettivamente si è trattato, dato che l’area che abbiamo attraversato con una suggestiva passeggiata racchiude numerosissimi punti di interesse storico e naturalistico, che solo in minima parte abbiamo potuto toccare.
Qui trovano dimora le memorie di un tempo lontano. Cavità scavate nella roccia e antichi ripari. Sentieri che si snodano lungo l’Idro, accarezzando canneti, con il lieve suono dell’acqua che scorre a fare da sottofondo.
Si potrebbe forse dire che Otranto ebbe origine dalle acque dall’Idro.
A tal proposito il Galateo, nei primi del ‘500, nel suo “Liber de situ Iapygiae” scrisse:
“Tolomeo chiama quella località [Otranto] Idra, credo dal nome del fiume Idro, che, diversamente da quanto si sostiene comunemente, ritengo abbia fornito alla città anche l’insegna il cui corpo è costituito appunto da un serpente d’acqua, l’idra… Nei pressi della città vi sono molte sorgenti e fonti di acque salutari, che scorrono tra boschetti di lauro e di limoni. I pozzi sono in gran numero e così poco profondi, che si può attingere l’acqua direttamente con le mani, cosa rara in questa regione: sembra un territorio sottratto al Peloponneso o alla valle di Tempe [valle della Tessaglia] e trapiantato in Italia”.
Per certi versi l’immagine che il Galateo ci restituisce della zona è molto simile a quella che oggi è possibile ammirare, pur non essendoci più gli alberi di limoni che lo storico menziona e gli stessi boschetti ormai di molto ridotti (non sono un esperto, per cui non so se e quanto il lauro sia rimasto nella zona). Camminando lungo i piccoli argini del fiume, ci si addentra in una zona verde piacevole alla vista. L’azione condotta nel tempo dai contadini ha modificato sostanzialmente i suoi tratti, ma l’area ti restituisce comunque una sensazione di tranquillità e di salubrità.
Ben diverso è quanto ci racconta Cosimo De Giorgi verso la fine dell’800, nei suoi Bozzetti di Viaggio:
“Io l’ho traversata nel luglio del 1879, in compagnia del Cav. Dottor Vincenzo Licci… Il fatto che più mi colpì fu l’aspetto della vegetazione in rapporto a quello delle famiglie coloniche che ivi dimoravano. La flora spontanea e quella coltivata erano oltre ogni credere lussureggianti per la fertilità immensa del terreno; i prodotti agrari ad esuberanza remuneratori. … ma l’aria che ivi si respira è umida e grave ed in molti punti pestifera; nelle prime ore del giorno e nelle notti estive è micidiale. I contadini sono anemici, bolsi, infingardi, in preda alle febbri periodiche; e i loro figli nascono deboli, scrofolosi e incapaci a combattere le battaglie della vita”.
Prima dell’avvio delle bonifiche l’area, pur essendo caratterizzata da una vegetazione lussureggiante, ci viene descritta come non piacevole da viverci e fonte di malattie, tra cui la malaria.
Tornando a quella mattinata di dicembre, la meta della nostra passeggiata era la cripta denominata Sant’Angelo, che da il nome al monte nella cui roccia è stata scavata. Lungo il sentiero che s’inerpica dolcemente verso la sommità della piccola altura iniziano a comparire le prime grotte.
All’interno, in una di queste, una selva di croci incise nella roccia. Difficile dire a cosa potessero servire, considerando che la cavità non presenta le caratteristiche di un luogo di culto.
Nel descrivere la cripta, riprendo le parole del De Giorgi che ritorna, dopo il 1879 nella zona, e precisamente nel 1884.
“Ho detto che l’Idro trae le sue origini dal Monte Sant’Angelo. Questo è così denominato da un’antica cappella bizantina semidiruta che ho visitato nel settembre del 1884.
E’ tutta scavata nei sabbioni tufacei e si denomina Grotta Sant’Angelo dall’effigie dell’arcangelo San Michele dipinta a fresco nell’atrio rettangolare della stessa. Sotto vi si legge in greco una delle solite iscrizioni votive: ricordati, o Signore, del servo tuo Basilio, del suo padre e della sua madre, amen. La volta di questo atrio è in parte crollata; l’interno è per metà interrato e convertito in deposito di canapa ed in ovile da pecore.
Bisogna penetrarvi carponi e vi si sta molto a disagio. I dipinti nelle tre absidi sono tagliati quasi per metà dall’interramento avvenuto. Le pitture si trovano in due strati sovrapposti e paiono del XII secolo, simili a quelle di altre cripte di Terra d’Otranto. Le uniche conservate sono nel vestibolo, cioè San Michele, San Timoteo ed un altro santo vescovo poco riconoscibile. Le altre sono cadute con l’intonaco.”
Negli anni ’70 del secolo scorso, ne “Gli insediamenti rupestri medioevali nel Basso Salento” a cura del Fonseca, la zona è descritta in buona parte con gli stessi termini. Nel frattempo lo stato di conservazione degli affreschi è indubbiamente peggiorato.
“Una corretta lettura della struttura è oggi difficile in quanto gran parte dell’ambiente è crollato; rimane tuttavia facilmente visibile la netta divisione tra Naos e Bema, data da un’iconostasi litoide a tre fornici. Il Naos, che ha subito maggiori danni, è oggi composto da un atrio in gran parte scoperto e, probabilmente, doveva essere a tre navate; il Bema è concluso da tre absidi, orientate a sud-est, divise tra di loro da setti litoidi, ma comunicanti attraverso piccole porte; l’abside a destra presenta un’apertura, senz’altro posteriore, comunicante con una grotticella affiancata. Il pavimento originale è del tutto scomparso e vi è moltissima terra di riporto…”
Riguardo l’affresco dell’Arcangelo si legge: “L’Arcangelo regge nella destra una lancia e nella sinistra un sigillum della cui decorazione si intravedono ancora delle linee ondulate; la croce che doveva sovrastarle è quasi del tutto scomparsa”.
Il Fonseca, a differenza del De Giorgi, non identificata San Timoteo ma scrive di un anonimo santo vescovo.
Oggi purtroppo lo stato degli affreschi è ancor più precario e molte cose che erano state identificate nel passato sono divenute illeggibili. La terra di riporto è stata eliminata con il recupero dell’area, ma è molto probabile che il terreno serbi ancora molte sorprese.
L’antica volta è stata ricreata con una copertura in legno e ci fa immaginare come doveva presentarsi il sito nel passato.
All’interno, nell’abside centrale si notano delle lievi tracce di affresco. Forse una “Deesis”, considerando che è possibile intravedere un corpo centrale e due laterali che con il capo sembrano convergere verso quello posto al centro. Ma lo stato è drammaticamente precario.
Qualche traccia anche nella terza cavità a destra, dove si trova quel che sembra essere un San Francesco.
A sinistra si apre una cavità del tutto simile a quella a destra.
Mentre, tornando nella cavità a destra, è possibile rilevare una sorta di cunicolo che conduceva verso un livello superiore visibile dall’esterno. Il cunicolo è ancora per buona parte occupato da terra di riporto.
La zona circostante è ancora poco indagata e alcuni “disegni” e “curvature” della roccia lasciano intuire la presenza di possibili cavità adiacenti la grotta principale.
L’intera area è molto bella ma andrebbe valorizzata con maggior efficacia. C’è ancora molto da fare.
Buona passeggiata!