La strage di Bronte

Premessa

Ogni cosa ebbe inizio da un ambiguo e tendenzioso decreto di Giuseppe Garibaldi, diffuso all’indomani della presa di Palermo, con il quale si prometteva ai contadini l’assegnazione di terre del demanio pubblico e i diritti fondamentali ad una vita dignitosa, in cambio del loro aiuto nella cacciata del Borbone dall’isola. Finalmente i cafoni, dopo diversi secoli di sottomissione ai nobili latifondisti, cominciavano ad assaporare il tanto desiderato riscatto sociale. Si trattava, però, di un proclama a doppio gioco, nel senso che i contadini si sarebbero dovuti schierare immediatamente dalla parte di Garibaldi, sperando di ricevere nell’immediato futuro il gratificante premio della ‘terra promessa’.

L’accorato appello di don Peppino fu subito recepito da migliaia di cafoni, che abbandonarono la zappa per impugnare lo schioppo ed indossare la camicia rossa, in vista di una vita meno tribolata. Si tenga conto che, a quei tempi, il contadino viveva tra mille stenti in casupole malsane, senza acqua e prive dei necessari supporti igienici, ed era assoggettato ad un’obbedienza cieca ed assoluta nei confronti dei notabili del paese (cappeddi)1, verso i quali doveva pieno rispetto, senza se e senza ma, pena la perdita del duro ma necessario lavoro.

Pertanto, sull’onda della promessa sbandierata più volte, i contadini, sventolando il tricolore per le strade dei vari paesi e villaggi, inneggiavano a pieni polmoni “Viva Garibaldo, abbassu li cappeddi”.

Senza il loro corposo sostegno, difficilmente Garibaldi avrebbe conquistato l’isola. I contadini, però, non potevano mai immaginare che stavano per arrendersi ad un padrone più spietato ed aguzzino dei Borbone, che avrebbe disatteso le promesse e si sarebbe schierato dalla parte dei ducali di stampo liberale, ai quali era inviso Ferdinando II.

Intanto, nella seconda quindicina di giugno su ordinanza di don Peppino, furono sciolti i vari municipi ed indette le elezioni comunali.

A Bronte, contro ogni previsione, l’avv. Nicolò Lombardo, candidato del partito dei cafoni comunisti, ne uscì clamorosamente battuto, a vantaggio del barone Vincenzo Meli e del notabile Sebastiano De Luca. A niente valsero le ripetute proteste del Lombardo nei confronti dei vincitori, ritenuti rei di aver commesso grossi brogli elettorali e convinto con la forza molti cafoni a votare per i cappeddi. Anche altri paesi del circondario avevano subito lo smacco della riconferma degli antichi detentori del potere. In pratica le speranze per i poveri cafoni stavano già per spegnersi. I contadini cercarono di occupare i terreni del demanio e quelli della Ducea, ma furono presi a schioppettate ed alcuni arrestati.

Invano fu richiesto l’intervento di Garibaldi a difesa delle promesse ricevute qualche tempo prima.

Una strage senza fine

Per oltre un mese si visse in un clima di guerra silenziosa tra le due parti. Furono in tanti i contadini che, per non morire di stenti, a capo chino tornarono a lavorare la terra degli antichi padroni.

Scriveva lo storico dell’epoca Benedetto Radice che – «la popolazione, angosciata dai vecchi ricordi ed esasperata ancor di più dalla mancata applica­zione dei decreti dittatoriali garibaldini rimasti lettera morta assieme ad altre provvidenze prome­sse, decise di rompere gli indugi e di protestare sino al riconoscimento dei loro sacrosanti diritti”.

Nel bollore degl’interessi e nel desiderio di vendicare i torti ricevuti dalla Borghesia, tolto ogni freno alla pazienza, i cafoni si decisero di finirla una volta per tutte” – in tal senso si esprimeva l’arciprete brontese Politi.

«Gli interessi opposti di classe, le ambizioni deluse, la sete di vendetta, gli inve­te­rati odii covati nel seno dei contadini resero il conflitto inevitabile, fatale” – così concludeva il Radice nel suo racconto.

La rivolta contro i governi cittadini ed i nobili ebbe inizio nei primissimi giorni di agosto nei vari paesi situati intorno alle pendici del vulcano. A Bronte, in modo particolare, i cafoni affamati e delusi si lasciarono andare ad un vero e proprio saccheggio dei palazzi nobiliari e delle case dei loro sostenitori, al grido di “Cappeddi guaddàtivi, l’ura du giudizziu s’avvicina, pòpulu non mancari all’appellu!” (Nobili, state attenti, l’ora del giudizio s’avvicina, popolo non mancare all’appello!).

Una massa compatta ed arrabbiata invase le strade distruggendo ogni cosa che appartenesse all’alta borghesia e nobiltà. I cafoni erano fiduciosi che ben presto si sarebbero liberati con la forza dal giogo ducale e si sarebbero impadroniti dell’immenso patrimonio terriero della Ducea2, poco sapendo, però, che i “gentleman inglesi”, proprietari di un immenso podere di 25.000 ettari, sarebbero stati protetti proprio da chi aveva fatto promesse sleali.

Una sequenza sconcertante di odio di classe e di violenza si abbatté sulla città, che per alcuni giorni fu messa a ferro e fuoco. Le famiglie patrizie trovarono riparo in alcune stanze ben protette dei palazzi, ma lasciarono aperte le cantine e i depositi di granaglie per dare sfogo agli aggressori di far man bassa di ogni cosa.

Alcuni storici di parte garibaldina (Abba e Guerzoni) raccontano di chierici e monache trucidati, seni di fanciulle recisi e dilaniati coi denti, bambini squartati o, come riportò il 15 settembre 1860 la ‘Civiltà Cattolica’  “quaranta persone delle più cospicue per probità e per natali crudelissimamente straziate ed uccise; le case loro messe a ruba e a sacco, poi date alle fiamme, ardendovi i cadaveri de’ trucidati; né havvi luogo a dubitare che alcuni di que’ mostri selvaggi diedero di morso a divorarne le carni mezzo abbrustolite”.

Queste notizie sono state smentite con durezza da storici locali, soprattutto dal Radice, che aggiunge “furono notizie di parte, messe in circolazione per giustificare la fucilazione di cinque brontesi, tra cui lo stesso avvocato Nicolò Lombardo, che non ebbe alcuna parte nel saccheggio dei cafoni, e per incutere il terrore a chiunque intendesse ancora provarci”. E’ pur vero, comunque, che alcuni nobili furono ammazzati per la loro ostinazione a non consegnare le cibarie richieste dagli insorti.

L’eccidio di cinque brontesi

Ricevuta la notizia della sommossa etnea, Nino Bixio, su mandato di Giuseppe Garibaldi, si rese protagonista di un atto scellerato ed infame che la storia (quella vera e non quella ufficiale e scolastica) ha condannato come “l’eccidio di Bronte”.

Quest’efferata vicenda viene riproposta all’attenzione dei lettori per non dimenticare il modo con cui i “liberatori” intesero trattare i siciliani, soprattutto i contadini, illusi dalle false promesse di Garibaldi di ricevere in assegnazione terre del demanio pubblico in cambio di una loro fattiva collaborazione per combattere la tirannia del re borbonico.

 

Il violento Nino Bixio nutriva ben altri propositi e considerazioni sui siciliani, tanto che, in una lettera alla moglie Adelaide, così scriveva: “La Sicilia è un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”.

Ben presto i siciliani ebbero modo di ricredersi sulle effettive intenzioni di questa masnada di novelli Lanzichenecchi scesi dal Nord unicamente per depredare le terre del Meridione e sottoporre le popolazioni ad una tassazione iniqua ed insopportabile per rimpinguare le assetate ed esauste casse sabaude.

Con due battaglioni e una compagnia di bersaglieri, Bixio si presentò a Bronte per punire i popolani che si erano ribellati ai ducali.

Non fu soltanto Bronte a ribellarsi, ma anche altri paesi come Regalbuto, Polizzi Generosa, Tusa, Biancavilla, Racalmuto, Nicosia, Cesarò, Randazzo, Maletto, Petralia, Resuttano, Montemaggiore, Capaci, Castiglione di Sicilia, Centuripe, Collesano, Mirto, Caronia, Alcara Li Fusi, Nissoria, Mistretta, Cefalù, Linguaglossa, Trecastagni e Pedara.

Le aspettative del popolo e dei contadini nei confronti dei “cappeddi” furono represse nei paesi succitati con il piombo e nel sangue per mano garibaldina. Quello stesso piombo che, 34 anni dopo, nel 1894, l’ex garibaldino Francesco Crispi, divenuto presidente del Consiglio, ordinò di far fuoco sui contadini siciliani che rivendicavano le terre e i loro sacrosanti diritti.

Ma torniamo al grido di libertà che si levò da parte dei contadini di Bronte. Su pressione del console inglese di Catania, John Goodwin, a sua volta sollecitato dai fratelli Thovez per conto della baronessa Bridport, Giuseppe Garibaldi, per reprimere la rivolta dei brontesi che avevano avuto l’impudenza di ribellarsi agli inglesi, protettori e finanziatori dell’im-presa dei Mille, inviò il suo fedele luogotenente Nino Bixio per risolvere la questione di Bronte e dare un’eclatante lezione ai siciliani.

Come primo atto, il “liberatore” Bixio decretò lo stato d’assedio, la consegna delle armi, imponendo una tassa di guerra e dichiarando Bronte colpevole di “lesa umanità”. Seguirono feroci rappresaglie senza concedere alcuna minima garanzia e guarentigia alla cittadinanza. I nazisti, ottant’anni dopo, presero ad esempio i brutali metodi dei garibaldini.

Bisognava dimostrare ai “padroni” inglesi che nessuno doveva toccare impunemente i loro interessi. E il paranoico “servo” con i suoi metodi criminali li accontentò appieno. Si passò ad una farsa di processo, che fu liquidato in poco tempo, senza riconoscere alcun diritto alla difesa, discutendo e dibattendo ogni cosa in appena quattro ore.

Alle 8 di sera del 9 agosto, calpestando ogni principio di garanzia, fu deciso di condannare a morte cinque cittadini, che niente avevano avuto a che fare con i tumulti e le rivolte delle precedenti giornate. Ma si doveva dare un esempio.

All’indomani mattina i condannati furono condotti nella piazzetta della chiesa di San Vito, dove finirono vittime innocenti dinanzi al plotone d’esecuzione. Tra costoro vi era anche l’avvocato Nicolò Lombardo, notabile del paese, che, da vecchio liberale e con tanta speranza, aveva atteso lo sbarco garibaldino, sognando un futuro migliore per la sua terra. Dovette, però, ricredersi nell’attimo in cui la scarica dei fucili spense il suo sogno e quello di tanti siciliani. Con lui morirono Nunzio Spitaleri Nunno, Nunzio Samperi Spiridione, Nunzio Longhitano Longi, Nunzio Ciraldo Fraiunco. Quest’ultimo era lo “scemo del paese” che fu risparmiato dal plotone di esecuzione. Fu poi finito cinicamente con un colpo di pistola alla testa dallo stesso Bixio (?), nonostante il povero Fraiunco, piangente, gridasse al miracolo “La Maronna m’ha fattu la grazzia, la Maronna m’ha fattu la grazzia!”.

Quel 10 Agosto 1860, insieme ai cinque malcapitati, moriva anche lo spirito battagliero dei brontesi, tradito da colui nel quale erano state riposte tante speranze: dal “liberatore” Garibaldi, dietro il quale anche da Bronte erano partiti dei volontari per “fare” la rivoluzione” – così si esprimeva l’arciprete Politi.

Dopo la feroce esecuzione, a monito per la popolazione di Bronte, i corpi delle vittime rimasero esposti ed insepolti sino all’indomani.

Ma non era mica finita! A questo primo processo sommario ne seguì un altro altrettanto persecutorio e vessatorio nei confronti di coloro che avevano arrecato oltraggio ai grossi proprietari terrieri e agli inglesi della Ducea. Il processo, che si celebrò presso la Corte di Assise di Catania, si concluse nel 1863 con 37 condanne esemplari, di cui  25 ergastoli. Giustizia era stata fatta.

Due giorni dopo l’eccidio di Bronte, Nino Bixio fece affiggere un proclama indirizzato ai Comuni della provincia di Catania, con il quale invitava i contadini a stare buoni e a tornare al lavoro nei campi, pena ritorsioni e feroci rappresaglie, ribadendo che “gli assassini e i ladri di Bronte sono stati puniti e a chi, tentando altre vie, crede di farsi giustizia da sé, guai agli istigatori e ai sovvertitori dell’ordine pubblico. Se non io, altri in mia vece rinnoverà le fucilazioni di Bronte, se la legge lo vuole”.

Proclami e avvisi tendenti a rassicurare i baroni, i latifondisti, i proprietari terrieri e soprattutto gli inglesi, ai quali Garibaldi e Bixio garantirono una vita normale, senza alcun pericolo di rivolte sociali. I siciliani se ne stettero calmi e anzi, nonostante le dure repressioni, con un masochismo meschino ed inconcepibile, intitolarono nel tempo a questi assassini un’infinità di strade, piazze, scuole, musei, teatri, ospedali, monumenti e quant’altro a loro imperitura memoria.

La fine di Bixio

Per quanto riguarda infine Gerolamo Bixio, detto Nino, pochi sanno che alla fine la giustizia divina, più di quella degli uomini, gli presentò tredici anni dopo un conto salato da pagare, facendolo morire tra atroci dolori, sofferenze e tormenti in preda alla febbre gialla e al colera a bordo della sua nave (s’era dato ai commerci con l’Oriente), a Banda Aceh, nell’isola di Sumatra, a quel tempo colonia olandese.

Il suo corpo infetto, chiuso in una cassa metallica, fu sepolto nell’isola di Pulo Tuan che nella lingua locale significa “isola del Signore”. Successivamente tre indigeni, credendo di trovare un tesoro, disseppellirono la cassa, denudarono il cadavere e poi lo riseppellirono vicino ad un torrente. Due di loro, infettati dal colera, morirono nel breve giro di 48 ore. Anche da morto Bixio era riuscito a fare altre vittime. Roba da guinness dei primati.

I pochi resti del suo corpo ed alcune ossa vennero ritrovati nel giugno del 1876, grazie al terzo indigeno sopravvissuto alla maledizione. Il 10 maggio del 1877 quello che rimaneva dei resti del massacratore di Bronte veniva cremato nel consolato italiano di Singapore. Il 29 Settembre di quello stesso anno le ceneri giunsero a Genova e inumate nel cimitero di Staglieno. Meno male che non sono state conservate nel Pantheon di Roma: sarebbe stato il colmo.

Conclusioni

E’ ora di finirla, cari amici lettori. Prendendo coscienza e consapevolezza della nostra vera storia, è giunto il momento di ribellarsi, di buttare giù lapidi e disarcionare dai monumenti questi crudeli personaggi, insieme ai vari Cavour e ai re sabaudi, che, dipinti come eroi, depredarono l’economia, la storia, la cultura e l’identità dell’intero Meridione d’Italia. I tribunali della storia, che per fortuna sicuramente non saranno come quelli dei processi sommari di Bronte, alla fine condanneranno questi criminali. E, qualora anche questi si coprissero di omertoso silenzio, sarà il tribunale di Dio a giudicare i veri colpevoli con una condanna esemplare ed eterna senza alcuna prova di appello.

Ancora oggi le statue (soprattutto di Garibaldi e Cavour) campeggiano in tante città del Meridione. Ancora oggi scuole e vie portano i nomi di questi assassini… Speriamo che non sia per molto tempo.

Note:

1I nobili erano chiamati “cappeddi” perché usavano come copricapo il cappello, mentre i cafoni soltanto la coppola.

2 – La Ducea era costituita da un immenso palazzo (alcuni lo definiscono castello), da un’abbazia, dalla chiesetta di Santa Maria di Maniace, da uno stupendo parco e da una vastissima estensione di terra coltivata ad agrumi, vite, olive, seminativi, da masserie, oleifici e cantine, per un totale di 25.000 ettari. Essa fu donata nel 1799 da re Ferdinando IV di Borbone all’ammiraglio inglese Horatio Nelson per aver collaborato fattivamente con l’esercito sanfedista alla riconquista del trono di Napoli. Ancora oggi quella immensa proprietà appartiene ad Alexander Nelson-Hood, discendente di Horatio Nelson. Come dire che Bronte e i paesi intorno all’Etna si portano ancora appresso una storia fatta di vecchie prepotenze che sicuramente si perpetuerà.

Abitanti della Provincia di Catania!

Gli assassini, ed i ladri di Bronte sono stati severamente puniti – Voi lo sapete! la fucilazione seguì immediata i loro delitti – Io lascio questa Provincia – i Municipi, ed i Consigli civici nuovamente nominati, le guardie nazionali riorganizzate mi rispondano della pubblica tranquillità!… Però i Capi stiino al loro posto, abbino energia e coraggio, abbino fiducia nel Governo e nella forza, di cui esso dispone – Chi non sente di star bene al suo posto si dimetta, non mancano cittadini capaci e vigorosi che possano rimpiazzarli. Le autorità dicano ai loro amministrati che il governo si occupa di apposite leggi e di opportuni legali giudizi pel reintegro dei demanî – Ma dicano altresì a chi tenta altre vie e crede farsi giustizia da sé, guai agli istigatori e sovvertitori dell’ordine pubblico sotto qualunque pretesto. Se non io, altri in mia vece rinnoverà le fucilazioni di Bronte se la legge lo vuole. Il comandante militare della Provincia percorre i Comuni di questo distretto. Randazzo 12 agosto 1860.

IL MAGGIORE GENERALE G. NINO BIXIO.

12 agosto 1860, proclama originale di Bixio, successivo alla esecuzione