La ruota degli Esposti
Oggi i neonati ‘indesiderati’ sono abbandonati per strada o, buon per loro, in ospedale
di Emilio Rubino
Il bambino trovatello, o semplicemente esposto, era per sua sventura un bambino ‘non gradito’, nato dalla relazione di due amanti al di fuori del matrimonio. La gravidanza era quanto più possibile nascosta dalla futura madre per non essere umiliata e, a volte, picchiata dai familiari e, peggio ancora, per non essere ‘svergognata’ dai paesani. Per tale motivo la donna, che incautamente era rimasta in cinta, ricorreva ad ogni mezzo per apparire agli occhi di tutti una donna ‘normale’. Soprattutto negli ultimi mesi, quando la gravidanza era molto evidente, la futura madre trovava mille scuse per non apparire in pubblico. La donna preferiva rimanere in casa, appartandosi in una stanzetta per ultimare un lavoro di ricamo oppure facendo credere di non sentirsi bene, piuttosto che recarsi in chiesa ad assistere alla santa Messa domenicale o partecipare alla passeggiata pomeridiana per le vie cittadine e correre il rischio di essere ‘scoperta’.
Altre donne, invece, fasciavano con molta aderenza l’addome per diminuirne il volume e, nel contempo, indossavano abiti alquanto larghi e vaporosi. A volte la donna arrivava alla fine della gravidanza senza essere stata scoperta e, dopo aver partorito in un luogo sicuro, magari aiutata da un’amica confidente, avvolgeva in un fagotto la piccola creatura e l’affidava alla “ruota degli esposti” nel più vicino convento di suore. In quei frangenti la donna avvertiva emozioni diametralmente opposte: da un lato si disfaceva definitivamente della prova ‘evidente’ del peccato, dall’altro consegnava alla bontà delle suore quel corpicino tenuto in grembo per tanti mesi e che aveva protetto gelosamente.
In alcuni casi, il neonato era affidato al padre naturale, che poi lo deponeva nella ruota. Si ricorreva a questo espediente per due motivi ben precisi. Innanzitutto per non creare alla madre un forte dolore nel momento del distacco; in secondo luogo, per non esporla ad eventuali rischi di essere riconosciuta.
L’abbandono dei neonati è comunque un fenomeno che si perde nella notte dei tempi.
Anticamente abbandonare i figli indesiderati era un vezzo molto comune presso tutte le popolazioni. Gli Ebrei, ad esempio, consideravano legale l’abbandono o la vendita di figli illegittimi, ma ne vietavano l’uccisione, mentre i Greci consentivano l’uccisione ed anche l’abbandono. Nell’Antica Roma l’abbandono dei neonati si attestava intorno al 30%, mentre nella Grecia antica la percentuale scendeva al 10%. Ergo, le romane erano donne a cui piaceva molto l’arte fedifraga in amore.
A quell’epoca il trovatello era affidato ad una balia, che, dopo averlo cresciuto ed iniziato al lavoro, lo vendeva ad un mercante di schiavi.
Nel Medioevo tale fenomeno diminuì di colpo per effetto delle rigide regole morali imposte dalla religione cristiana, ma riprese vigore a partire dal 1600.
Nell’Ottocento si ebbe il culmine dei neonati abbandonati ed affidati alla ruota degli esposti. Pare che, in modo particolare in Piemonte e Lombardia, il fenomeno raggiungesse proporzioni consistenti. Addirittura, a Milano un neonato su tre era depositato nella ruota degli esposti.
Proprio perché l’andazzo era molto diffuso in tutta Italia, fu deciso di dotare ogni paese di un luogo sicuro dove abbandonare i neonati ‘indesiderati’. Fu legalizzata la ruota degli esposti, che era collocata nelle vicinanze di una chiesa o di un convento. Il corpicino del neonato veniva appoggiato su un piano in legno che era fatto ruotare intorno per 180%, in modo che entrasse nell’interno della chiesa o del convento. Durante la rotazione, un congegno metteva in movimento una campanella, al cui suono le suore si precipitavano a prelevare il trovatello.
La ruota era considerata, specialmente dalle famiglie povere, come un dono assistenziale di Dio.
Ora esaminiamo in che modo le suore accoglievano e crescevano gli esposti.
Ovviamente le religiose non potevano allattare i neonati che, pertanto, erano affidati ad una donna, la quale provvedeva a nutrirli e a svezzarli dietro un misero compenso, a volte consistente in indulgenze e modestissimi sussidi.
Nel Salento, la nutrice era chiamata la“rutara”. All’età di cinque-sei anni, i fanciulli erano trasferiti in brefotrofi, dove le condizioni igienico-sanitarie non erano buone, anzi, proprio in questi luoghi si verificava un’alta mortalità di bambini. Da adolescenti, infine, erano affidati a famiglie di contadini, operai o artigiani, che, avendo bisogno di manodopera, ne facevano espressa richiesta.
I cognomi generalmente assegnati agli esposti erano diversi, ma tutti con la particolare connotazione di “buon auspicio”.
Nell’Italia settentrionale i cognomi più diffusi erano: Fortunati, Sereni, Clementi, Diotaiuti, Diotallevi ecc.
Nell’Italia centrale: Innocenti, Degl’Innocenti, Benvenuti, Proietti, ecc. Quest’ultimo cognome deriva chiaramente dal verbo latino “proicio”, il cui participio passato “proiectum” significa mandato fuori, espulso.
Nell’Italia meridionale, Esposito, Onorati, Servodio, Deodato, ecc.
Nei primi anni del ‘900, il fenomeno era ancora ricorrentenel Salento, tanto che l’amministrazione comunale delle varie città provvedeva ad erogare dei contributi alle rutareper la singolare ed importante attività sociale svolta. Anche se tra queste “sante donne” e le amministrazioni comunali non c’era un vero rapporto di pubblico impiego o di subordinazione, il Sindaco era tenuto moralmente ad elargire un contributo. A volte la rutara riceveva, oltre ai sussidi comunali, anche dei consistenti donativi di ignota origine, elargiti, evidentemente, da parte della genitrice che, pentitasi di aver abbandonato il proprio figlio, le faceva un dono.
Ci chiediamo perché avvenissero episodi del genere. Secondo alcuni studiosi tutto dipendeva dallo stato d’animo della donna che, per non essere segnata dalla società come donna di facili costumi e rifiutata dalla famiglia per il gesto disonorevole, si lasciava andare all’estremo atto dell’abbandono. Oltretutto nei casi in cui il figlio fosse mantenuto nell’ambito familiare nei suoi confronti erano coniati degli epiteti infamanti che lo accompagnavano per tutta la vita. Il trovatello era registrato negli atti pubblici comunali con la dicitura“figlio di padre ignoto” o anche “figlio di N.N.” (Nomen Nescio, cioè “non conosco il nome”), e di conseguenza, a volerci esprimere con termini romaneschi, era deriso come “figlio de ‘na mignotta”. Il termine Mignotta, a sua volta, deriva dall’unione di due altre parole: Mater e Ignota. Poi la “M” fu appuntata ed aggiunta ad “ignota”. E così venne fuori “M.ignota” e poi “Mignotta”.
Fu proprio per questo motivo che un tempo le madri preferivano abbandonare il figliolo alla ruota degli esposti o, addirittura, ammazzarli perché non se ne parlasse più di loro e perché non fossero scherniti per un’intera vita.
Non ci resta che domandarci, alla maniera di Trilussa, se tale madre avesse avuto qualche volta un pizzico di rimorso.
“E io – disse la tigre – ciò er core
Che lui (l’uomo) me paragoni e me confonna
Er core mio cor core de la donna
Ch’ammazza erfijo pe’ sarvà l’onore!
So’ una tigre, è verissimo, ma io
Nu n’assassino mica er sangue mio”.
Oggi, purtroppo, nonostante le migliorate condizioni economiche e le mutate regole di vita, il fenomeno dell’abbandono non è scomparso del tutto. (Emilio Rubino)