A lungo andare la natura e il carattere di una persona vengono a galla

LA “PINDANGA”

di Emilio Rubino

 

Quello che stiamo per raccontare è un episodio veramente accaduto a Nardò nel 1865.

Un giorno di quell’anno un tale Mongiò, cittadino della vicina Galatina, assieme alla propria consorte, si recò a Santa Caterina, marina di Nardò, per acquistare del pesce. Una barca aveva da poco attraccato al piccolo molo e il pescatore esponeva con cura il pescato, sistemato in tre ceste. In una vi era del pesce azzurro, in un’altra del buon pesce da zuppa e nell’ultima delle triglie di scoglio di buona pezzatura.

Il Mongiò, dopo aver riflettuto attentamente, decise di acquistare due chili di triglie, scegliendone le più belle e accordandosi, dopo una prolungata contrattazione, per la consistente somma di quattro lire.

Proprio in quell’istante si avvicinò una giovane donna di belle fattezze in compagnia di alcuni baldi giovani, giunti a Santa Caterina per una scampagnata.

La donna, denominata la “Pindanga” (termine che, ancora oggi, sta ad indicare una donna sciatta, trascurata nel vestire e nei comportamenti), era assai nota ai cittadini di Nardò per i suoi facili costumi o, se a voi lettori piace meglio, molto generosa nel “donare” il proprio corpo agli altri in cambio di…

Costei aveva seguito il mercanteggiare tra il galatinese e il pescatore, il quale stava per consegnargli le triglie. La Pindanga, però, resasi conto della bontà e freschezza del pesce, bloccò la contrattazione, sostenendo con voce perentoria.

Fèrmate, fèrmate!… A ’na pezza lu chilu, resta tuttu a me!”[1].

A quei tempi, la “pezza” stava ad indicare una moneta d’argento del valore di cinque lire. Perciò, ammiccando un sorrisetto di finto dispiacere, il pescatore si strinse nelle spalle e, rivoltosi al forestiero, si giustificò semplicemente dicendo.

Mi tispiace, ma ci jeri statu tu allu postu mia, jeri fattu lo stesso ti comu sta fazzu iò!”.[2]

E consegnò alla Pindanga tutte le triglie pescate, circa sei chilogrammi per complessive 6 “pezze”.

Il povero Mongiò rimase malissimo *****, come se avesse ingoiato del fiele. Purtroppo non poteva farci nulla: l’offerta di quella donna era notevolmente superiore alla sua e perciò dovette rassegnarsi e subire l’affronto, senza profferire parola alcuna. Volle, però, sincerarsi chi fosse mai quella persona così tanto sfacciata, chiedendo informazioni ad alcuni passanti. Apprese che la Pindanga era amica prediletta di un suo intimo amico di vecchia data, il signor Gianvincenzo Dell’Abate, uno dei sette fratelli proprietari della masseria “Brusca”.

Il galatinese, allora, maggiormente mortificato per l’affronto, anche perché subito in presenza di sua moglie, montò sul calesse e ordinò all’imbarazzato cocchiere di dirigersi alla masseria dell’amico, sita in agro di Porto Cesareo. La strada, polverosa e molto accidentata per le numerose buche sparse qua e là, fu percorsa dal veicolo alla massima andatura e tra tanti sobbalzi. Ad alleviare le pene degli occupanti ci pensò lo spettacolo della meravigliosa riviera che da Santa Caterina, attraversando Porto Selvaggio, si protrae sino a Porto Cesareo. All’arrivo, il Mongiò, imbufalito più che mai, raccontò per filo e per segno lo sgarbo ricevuto all’amico Gianvincenzo e non mancò di dileggiare ripetutamente la Pindanga.

Anche il Dell’Abate rimase molto male, non tanto per le ottime triglie che il povero amico non aveva potuto acquistare, ma quanto perché apprese dal Mongiò che la sua “favorita” se la intendeva spudoratamente con altri uomini.

Nonostante ciò il Dell’Abate comprese il dramma che stava vivendo l’uomo e per trarlo dall’impaccio, mandò un suo dipendente in città ad acquistare delle triglie, vino e tarallucci. Ovviamente la coppia rimase a pranzo, cocchiere compreso. In questo modo i galatinesi sbollirono quasi del tutto la rabbia e, prima che facesse sera, se ne ritornarono, a lenta andatura e con l’umore per buona parte ritrovato, a Galatina.

Gianvincenzo, invece, pur avendo gradito l’ottimo pesce, ben preparato dalla governante, non riuscì a mandar giù l’amaro boccone del tradimento della sua “prediletta”. Per tale motivo non chiuse occhio per tutta la notte, tanto da voltarsi e rivoltarsi di continuo tra le lenzuola, senza trovare pace. All’indomani decise di scrivere una dura lettera all’infame traditrice, invitandola a sparire definitivamente dalla scena.

La Pindanga, essendo analfabeta, fece leggere quello scritto ad un tal Pasquale Bruno, guardia municipale di Nardò, suo intimo confidente ed anche suo… Dalle prime righe della lettera emerse subito l’intimazione di definitivo ripudio, il tutto condito con aspri e irriferibili termini di dileggio.

La Pindanga rimase indifferente e non versò, come era facile intuire, neanche una sola lacrima, ma si limitò a fare alcune strafottenti considerazioni, attestanti la sua innata maleducazione e natura.

No’ mmi face né cautu e né friddu!”[3].

Se la storia fosse finita qui, non ci sarebbe stato nient’altro da raccontare, ma il guaio è che la lettera andò a finire (non si sa come) nelle infide mani di un certo don Angelo Pinna, un poetastro vernacolare neritino dalla penna, anzi dalla “pinna”, molto mordace e salace. In seguito l’uomo ebbe la bella idea di trasformare il contenuto dello scritto in versi osceni e molto piccanti. Una poesia che, purtroppo, non abbiamo reperito e che in seguito fu “trasformata” in canzone dialettale con accenti e toni ancora più duri. La canzonetta, è ovvio, percorse in lungo e in largo  l’intera Nardò e paesi limitrofi e fu canticchiata in tutti gli ambienti del comprensorio, come nei mercati, botteghe, cantine, masserie e perfino sulle spiagge a scherno e scorno della malcapitata Pindanga, che in preda ad una vergogna infinita, decise di non uscire più da casa, se non per accaparrarsi lo stretto necessario a vivere. Durante l’estate, per non esporsi a sberleffi e pettegolezzi da spiaggia, preferì frequentare lidi posti sul versante adriatico, come Otranto e Santa Cesarea terme.

Ogni volta che metteva piede fuori dall’uscio di casa, però, c’era sempre qualcuno che, notando la sua furtiva presenza, intonava ad alta voce la canzonetta, in tal modo richiamando l’attenzione di altre persone presenti nei paraggi e invitandole ad unirsi allo scherno.

La Pindanga, amareggiata e distrutta, era costretta a fare ritorno a casa e ad abbandonarsi ad un copioso e rigenerante pianto.

[1] “Fèrmate… fèrmate…” – “Fèrmati… fèrmati, lo acquisto tutto io ad una pezza al chilo!”.

[2] “Mi tispiace…” – Mi dispiace, ma se ti fossi trovato tu al posto mio, ti saresti comportato allo stesso modo mio!”.

[3] “No’ mi face…” – “Non mi fa né caldo né freddo!”.