LE IDEE DI SINISTRA SONO MIGRATE A DESTRA?
Sì, secondo il bel saggio di Luca Ricolfi “LA MUTAZIONE”
di Giovanni Leuzzi
Un breve scritto divulgativo come questo non può dare conto della ricchezza e complessità dei temi che Luca Ricolfi, noto sociologo, politologo e saggista sviluppa nel suo recente libro La MUTAZIONE – COME LE IDEE DI SINISTRA SIANO MIGRATE A DESTRA – Rizzoli, 2022.
Intanto, il termine Mutazione nel linguaggio della politica non è nuovo, ma richiama alla mente la famosa espressione di Mutazione Genetica, che Enrico Berlinguer aveva usato nel bollare il radicale cambiamento di orizzonte che, secondo il leader comunista, aveva man mano subito il Partito Socialista Italiano nel lungo periodo del craxismo.
L’interessantissimo libro di Ricolfi, pubblicato nel novembre del 2022 poco dopo la formazione del governo di destra-centro di Giorgia Meloni, sostiene, col corredo di tutta una serie di analisi sull’orientamento del voto, una tesi di fondo: le idee che storicamente hanno caratterizzato l’azione politica e culturale della sinistra italiana sono migrate a destra, a segnalare un epocale sconvolgimento dei blocchi sociali di riferimento delle coalizioni e dei singoli partiti, nel quadro di un fortissimo astensionismo e di una fluttuazione del consenso elettorale, che per la tradizione storica dei flussi in Italia appare del tutto straordinaria e imprevedibile. Dato, quello dell’astensionismo, che getta un’ombra cupa e minacciosa sul paese e sull’intero suo sistema della rappresentanza, che mai ha registrato percentuali così alte di sfiducia e disaffezione da parte dei cittadini, chiaro segno di degrado e svilimento della politica, che vive solo della partecipazione dei cittadini.
In effetti, per tornare al merito del problema, appare convincente l’analisi dell’autore, secondo cui, fotografando la situazione socio-politica del 2022, la sinistra tradizionale, così come si è evoluta dalla fine del PCI e dalla sostanziale scomparsa del PSI ad oggi, rappresenterebbe in gran parte la società delle garanzie, la destra già a trazione Berlusconi e oggi Meloni la società del rischio, e il movimento dei 5 Stelle, “anomalo” rispetto ai parametri storici consolidati, la società degli esclusi. E addirittura, secondo uno studio sul rapporto tra livello socio-culturale e appartenenza alle tre diverse società, proprio la società delle garanzie avrebbe la percentuale più bassa di rappresentanza dei ceti più deboli ed esposti, minore perfino di quella della società del rischio, mentre ovviamente la società degli esclusi ne avrebbe una percentuale vicina al 50%.
I risultati “storici” delle elezioni politiche del settembre ’22 hanno esercitato le menti dei politologi e dei sociologi, condizionando in qualche modo anche le relative analisi: in alcuni studi si esprime la convinzione che la svolta meloniana inciderà profondamente sulla storia politica dei prossimi anni, e non solo in Italia, anche a causa della mancanza di un’opposizione in grado di offrire una prospettiva di governo alternativo, ma perfino in Europa, dove il partito di cui la Meloni è presidente potrebbe mettere in crisi la coalizione tra popolari, socialisti e liberali che regge il governo dell’Unione.
In altri studi si legge invece la convinzione di una sostanziale provvisorietà dell’esperimento di destra-centro in atto in Italia, sia a causa della gravità oggettiva dei problemi che incombono sul paese anche per le criticità economiche indotte dalle guerre in atto, e sia per la quotidiana avvilente gara elettorale tra Salvini e Meloni all’interno della coalizione di destra. Per cui di fatto Meloni non avrebbe la forza, nonostante le tante adesioni al suo partito europeo, di mettere in crisi l’asse politico attualmente egemone in Europa.
È ovvio che la svolta meloniana abbia potuto influire sulle ultime analisi di Ricolfi, ma va dato atto che questo suo saggio è confortato da tutta una serie di scritti precedenti che esprimono una lunga riflessione sulla sinistra italiana e sulla sua evoluzione-involuzione. In effetti chi come il sottoscritto ha fatto già in gioventù scelte di vita che lo hanno portato ad un lungo, anche se modesto ma spesso gratificante, impegno nella politica e nelle istituzioni, ha motivo di riflettere sulle tesi di Ricolfi, verificandole con la propria esperienza personale.
Lo scollamento di vasti ceti popolari dalla sinistra in verità comincia col fallimento della prospettiva del compromesso storico a seguito del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, dell’isolamento del PCI di Berlinguer, e infine dell’affermarsi dell’asse Craxi-Andreotti-Forlani fino alla svolta di Tangentopoli.
L’evoluzione del PCI a PdS, poi a DS, fino alla convergenza nel PD con la sinistra ex democristiana, segnala ulteriori tappe di questo graduale spostamento verso il centro riformista di uno dei più forti ed organizzati partiti della sinistra europea. Per arrivare all’oggi, un tempo in cui il PD viene identificato da tantissimi analisti come il partito delle ZTL (Zone a traffico limitato), ormai assente nelle periferie abbandonate all’influenza della destra, ed attrattivo soprattutto per le classi abbienti dei centri storici e dei quartieri ricchi, abitati da ceti sociali garantiti, stabilmente insediati nei piani medio-alti della società, nel mentre le grandi e piccole periferie, dove si agita il mondo dei precari e quello estesissimo del non lavoro o del lavoro sottopagato, hanno maturato un sentimento di distacco da quel partito, con punte di avversione che sempre meno viene frenata dalla presenza di validi e riconosciuti amministratori locali. Né i tanti partitini, o movimenti nati alla sinistra del PD, pur protagonisti di dignitose battaglie politiche orientate su cruciali questioni sociali e ambientali, riescono a fare breccia su strati sociali che o vanno a destra o non votano più.
Sul rapporto ceti popolari e rappresentanza un esperimento tutto italiano è stato rappresentato dal movimento 5 stelle, di iniziale stampo grillino ed ora approdato, sotto la guida di Conte, ad una politica più tradizionale di impronta “progressista”. Questo movimento è riuscito a parlare soprattutto a quella società degli esclusi di cui al testo di Ricolfi, con le due scelte politiche fatte dai governi Conte: la prima, di impronta salviniana, con i Decreti Sicurezza contro i migranti, per dare soddisfazione a tanta parte di ceti popolari morsi dalla crisi; la seconda, col Reddito di Cittadinanza, che, secondo Di Maio, avrebbe eliminato la povertà nel nostro paese. Ci eravamo illusi, e Grillo lo affermava a suo merito, che i 5 Stelle avrebbero impedito in Italia lo scivolamento a destra del popolo degli esclusi, invero maggioritario in tante aree soprattutto del Sud, come è accaduto invece in tanti paesi europei, con consenso crescente anche per formazioni di estrema destra di impronta nazifascista.
E invece il fallimento sostanziale dei 5 Stelle nella prova del governo, evidenziato da una gestione demagogica del Reddito di Cittadinanza e dal disastro economico innescato dal Bonus edilizio del 110%, hanno, anche in Italia, aperto il campo del governo ad una destra di impronta nuova, a trazione meloniana, ma erede, anche nei simboli, del MSI di Almirante. Ciò è avvenuto a causa certo di quella mutazione su cui insiste Ricolfi, ma anche per effetto di una legge elettorale assurda, ottenuta per gemmazione dal famigerato “porcellum”, che per il premio di maggioranza ha riempito le camere di parlamentari di destra-centro spesso di infima qualità grazie alla capacità della destra di fare coalizione, ottenendo quasi il pieno dei seggi nei collegi uninominali. E intanto il centro-sinistra rimaneva diviso e inconcludente.
Torniamo alla questione di fondo: è poi realmente vero che le idee di sinistra sono migrate a destra, come afferma Ricolfi? Nel supportare la sua tesi l’autore seziona i concetti di destra e sinistra: in Europa – egli scrive – “non solo esistono due destre, una liberista e pro Europa, l’altra sociale e sovranista, ma esistono due sinistre: una liberal, illuminista, cosmopolita e pro mercato, l’altra anticapitalista, internazionalista e non priva di nostalgie romantiche per il “mondo fino a ieri”, come lo chiama Jared Diamond”. E, trasferendo queste categorie all’Italia di oggi, l’autore si domanda come mai la visione comunitaria (in senso nazionale) del mondo, che pone al centro della politica il sentire e gli interessi dei nativi, trova spazio fra le forze politiche di destra e quasi nessuno tra quelle di sinistra. Ma, anche qui, la convinzione di tanti politologi è che la sinistra ufficiale, specie dopo la caduta del muro di Berlino, ha sposato la visione liberal del mondo, che promuove i diritti delle minoranze, crede nell’apertura delle frontiere, accetta il consumismo, quando Berlinguer non molti decenni fa predicava l’austerità come occasione di un nuovo modello di sviluppo.
Sostanzialmente condivido questi ragionamenti, che Ricolfi riprende anche da alcuni scritti di Marcello Veneziani. Ma, se andiamo a scavare un po’ più a fondo, accanto a questa differenza tra comunitarismo nazionale e liberalismo più o meno radicale, che avrebbe sostituito il novecentesco scontro tra la destra e la sinistra classiche, tutto centrato sulle istanze economiche e sociali, e con le parole d’ordine della sinistra di ogni paese che erano uguaglianza, giustizia sociale e diritti, forse possiamo leggere qualcosa di più concreto, più vicino a noi, ma per me ancora più allarmante.
Mi spaventano due cose del quadro presente: il distacco dalla politica e il disamore per il voto di quote crescenti della popolazione, soprattutto tra i ceti medio-bassi, e le fluttuazioni continue del voto da destra a sinistra, e viceversa. Dopo la lunga e contorta ubriacatura per Berlusconi (destra falsamente liberale, in un paese assai poco liberale), si passò al Renzi del quasi 41% delle elezioni europee, al quasi 33% dei 5 Stelle alle politiche del 2018 e poi al Salvini del 34,3 delle europee del 2019, per chiudere col 26% alla Meloni nelle politiche del 2022, che appena quattro anni prima aveva conseguito un miserrimo 4,33%.
Ma ancor di più mi fa riflettere e mi spaventa la sostanziale ininfluenza dei “programmi” sul voto e la loro quasi assoluta negazione quando i vincitori delle elezioni devono passare dalle parole ai fatti. Clamorosa l’attuale vicenda meloniana: mai governo italiano fu così acriticamente prono in politica estera ai dettami atlantici e dei poteri forti in Europa, contro i quali aveva tuonato per anni con parole di fuoco. E ancora, la questione morale, connessa alla sacralità dello stato, tipica anche di certa destra “sociale” e “giustizialista”, è morta e sepolta, e oggi, in presenza di una corruzione dilagante, si punta all’abolizione del reato dell’abuso d’ufficio, che comunque esercitava una certa funzione deterrente, si afferma una pulsione irrefrenabile ai condoni di ogni tipo e all’allentamento degli strumenti d’indagine giudiziaria sui colletti bianchi e la grande criminalità economica. La tanto sbandierata flat-tax, inapplicabile se non per categorie da proteggere a fini elettorali, ha prodotto anch’essa consenso e aspettative, nel mentre rimangono i drammi veri della vita reale del paese, che sono i bassi salari, falcidiati dalle imposte alla fonte, la povertà degli stessi lavoratori e di estese fasce di pensionati, un’evasione fiscale paurosa e crescente, il sistematico smantellamento del sistema sanitario nazionale con privilegio della sanità privata. Anche la questione meridionale è stata accantonata, quando proprio al sud la destra aveva i suoi serbatoi di voti, per abbracciare la cosiddetta autonomia differenziata, che suona come una campana a morto proprio per quel valore dell’Unità Nazionale che era nel DNA della destra italiana, mentre sono state proprio le regioni, nella loro forma di autonomia sregolata, a diventare sempre di più, nel corso del mezzo secolo della loro vita, fonte di spesa incontrollata, con sprechi incalcolabili, privilegi assurdi e clientelismo di massa. Di destra pura rimane forse solo l’idea di un premierato in salsa italiana, che assai difficilmente arriverà al traguardo, ma serve come bandierina propagandista tesa – si vuol far credere – a bilanciare il potere crescente delle regioni che faranno dell’Italia una repubblica a foggia d’Arlecchino.
Non voglio essere drastico, ma la curvatura della destra italiana, così come si sta rivelando soprattutto nell’attuale fase di egemonia meloniana, mi fa ricordare quanto scriveva sul fascismo il grande storico Federico Chabod (1901-1960) nel suo L’Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, 1961, laddove riguardo a Mussolini affermava, mettendo in crisi tanta storiografia, che “i princìpi non lo preoccupano: le dottrine sono per lui espediente tattico da impiegare a seconda degli uomini e delle circostanze”. E così vedemmo il grande ex socialista, già direttore dell’Avanti, al di là dell’iniziale programma del fascismo-movimento, che mutuava spunti anche dal bagaglio ideale della sinistra, poi ripresi nell’ultima disperata fase del fascismo repubblichino, diventare espressione violenta degli interessi della borghesia industriale e, specialmente – dice Chabod – di quella agraria, assai retriva ma potente e attivissima in Emilia Romagna, poi in Toscana e poi in tutta Italia: e con l’espressione concreta di una violenza che si accaniva proprio contro le sedi dei socialisti, dei sindacati e dello stesso giornale del partito. E l’anticlericale per eccellenza divenne protagonista dello storico compromesso con la Chiesa (i Patti Lateranensi), funzionale all’estensione del consenso al regime e quindi al mantenimento del potere, al di là di principi ed ideali, tanto che ben presto sarebbe nato un serio conflitto con l’allora pontefice Pio XI, che pure aveva parlato del duce come “l’uomo della Provvidenza” e che solo la sua morte impedirà di far esplodere.
Ma, al di là di qualche pur utile richiamo alla storia, e per tornare alla nostra attualità, a me sembra che da sinistra a destra siano trasmigrate non le idee, ma solo quote imponenti di voto popolare, un tempo orientate verso i grandi partiti di massa del PCI e della DC, egemoni l’uno soprattutto nelle grandi città e nelle fabbriche, l’altro nelle campagne e nei ceti medi. Le idee di sinistra, così come si erano strutturate lungo tutto l’arco del ‘900, e che sulle questioni sociali avevano prodotto idee e risultati concreti, sono piuttosto rimaste senza casa e senza patria e vagano nel cielo della politica più come retaggio culturale minoritario che come base per la costruzione di un qualche progetto di riforma in senso progressivo di una società profondamente ingiusta, senza speranze e incattivita intorno all’eterno italico valore del “particulare”.