La tuvaja nova
di Pippi Onesimo
Solo dopo un accurato controllo igienico delle mani, ci si poteva finalmente riunire per il pranzo, mentre i più piccoli, impazienti e nervosi, nnu ssi dàvano cansa, passando e ripassando attorno al tavolo.
La fame era più grande di loro, ma anche l’artètica e li dispietti, ripetitivi e sfiancanti comu ‘na litania.
Era ‘nu vurrisciare continuo e per questo qualche castima, dalla attigua ramesa, di tanto in tanto, prendeva il volo.
Il padre di Chicco si faceva sentire.
Si aspettava che la mamma, che sfaccendava per preparare il pranzo fra il camino e l’ampio stipo a muro, portasse a tavola le pietanze.
Più che un tavolo, si trattava di una antica, disadorna cassapanca di legno di noce ( la matthra ) per tre quarti ‘ncravulisciata da autentici tarli doc.
Era posizionata al centro della stanza della cucina, disadorna, appena coperta, per una parte della sua lunghezza, con una sottile tovaglia di plastica, facilmente recuperabile e lavabile.
Su di essa erano sistemate in posizione strategica le forchette e i cucchiai in alluminio, i coltelli col manico di plastica, i bicchieri, una bottiglia di vino e una d’acqua frizzante con tappo ermetico, chiuso a pressione con un gancio metallico su una guarnizione di gomma rosso-mattone.
Ma non sempre quella stanza (si chiamava sala da pranzo solo per le grandi occasioni) era così approssimativa e disadorna.
Qualche volta, di domenica, o durante le grandi solenni, ma rarissime, ricorrenze festive infrasettimanali ( compleanni, battesimi, onomastici ) compariva a tavola una tovaglia di stoffa, quella di cotone, quasi pregiato.
Era la tuvaja nova (usata ad ogni morte de papa), elegante, maestosa, solenne come ‘na messa cantata.
La tovaglia, con gli angoli ricamati a punto giorno, incorniciata da piccoli rombi azzurri intervallati da birichine margheritine giallo-oro e delimitata da una frangetta bassa e sottile sfumata in un azzurro chiaro, da sola parava tutta la stanza.
Faceva parte della dote matrimoniale della madre di Chicco, insieme a quattro misere cose (ma preziose, non certamente per il loro valore commerciale) fra lenzuola, federe per cuscini, coperte, camicie da notte, calze in cotone ed altri piccoli e modesti indumenti personali.
Costituiva la ricchezza che ogni ragazza da marito portava con sè, quando andava a formarsi una propria famiglia.
Il rituale della preparazione delle nozze, allora, era complesso, di sicuro suggestivo, e caratterizzava forse l’aspetto più interessante della civiltà contadina, ma anche di quella borghese, o psèudo tale.
I corteggiamenti cominciavano nei modi e nei luoghi più disparati.
Le occasioni più propizie erano fornite dalle feste patronali, o quelle rionali (la festa de Cristu Risortu sotta l’Anime, o la Madonna della Luce, o Santu Lazzaru, o la Madonna de la Crutta).
O dai film nel Cinema Tartaro o nel Teatro Lillo, o dalle feste da ballo nelle case private, dove si accedeva per invito attraverso parenti o amici degli amici, quando, aspettando la chiamata delle mitiche quadriglie, si sperava, attraverso l’ordine di “changer la dama”, di stringere fra le braccia la carusa chhiu beddhra.
C’erano anche i festini organizzati, a pagamento, nei garage o negli scantinati.
Ma i lavori di campagna (la vindegna, lu tabaccu, le vulie, la mmetitura e la trebbiatura), che duravano giorni e settimane, erano i momenti più belli, perché si aveva l’opportunità di familiarizzare e quindi di conoscersi più facilmente e più a fondo.
Questi erano gli approcci più caserecci, quelli più propriamente proletari.
Poi c’erano quelli borghesi, quasi d’elite: i girotondi alla Funtana, fatti di domenica mattina, dopo la Messa. Brevi e veloci.
I fratelli Lagna, fotografi ambulanti all’inizio della loro carriera, scattavano fotografie alla sprovvista e a contrabbandu, fra il Monumento ai Caduti e la Sirena con conchiglia, che l’Armandu ‘Ntunaci aveva fatto costruire alle spalle del Bar delle Rose.
Ma, ciò nonostante, si compravano ugualmente per ricordo e soprattutto per narcisismo.
La domenica a pomeriggio, invece, i giri erano più frequenti e interminabili, quasi delle maratone.
Dopo un giro completo si faceva capolinea al Bar delle Rose, mentre un’orchestrina allietava la serata vicino alla Sirena.
Qui si invertiva il senso di marcia per incrociare altre caruse e, quindi, avere più possibilità di scelta.
Non mancava il cono di gelato, tanto per darsi un contegno, o una sigaretta accesa fra le dita, ma non aspirata. Si esibiva solo pe figura .
Ad ogni incontro, uno sguardo furtivo, sottecchi, quasi indifferente.
A sera tardi, al rientro a casa, non mancava a volte il pedinamento a discreta distanza, per scoprire l’indirizzo della ragazza ‘nducchiata.
Dopo i primi approcci e con la sicurezza che la simpatia era corrisposta, lu ‘nnamuratu mandava l’mbasciata a casa de la zzita per far sapere che aveva intenzioni serie.
La futura suocera, di rimando (se era d’accordo) gli faceva sapere “ca la seggia era libera”, o “occupata” (mentendo), se lu partitu nnu lli ‘ndurgiava.
Dopo una serie di frequentazioni a casa della carusa, tutte rigorosamente presidiate dalla madre o dalla sorella maggiore, veniva sottoscritta la carta de la zzita, cioè l’impegno (che a volte dissanguava le famiglie nei debiti) a costituire la dote con un minimo di capi di biancheria (“ Iu li dau panni de dece. E ttie?”, domandava la suocera, rivolta alla sua rispettiva).
Qualche giorno prima del matrimonio, si svolgeva la solenne cerimonia della trasatura.
La madre della sposa esponeva in casa, con cura e con molta attenzione nei particolari, tutta la dote promessa alla figlia.
Il letto matrimoniale, le sedie, la cascia, le maniglie delle porte e delle finestre, gli attaccapanni costituivano il palcoscenico improvvisato per appendere e mettere in bella mostra tutti i capi di biancheria.
La futura consuocera , con le vicine di casa che curiosavano e, a volte, tajàvanu, esaminava con attenzione, annuendo o storcendo il naso a seconda del gradimento, ma soprattutto controllando quantità e qualità dei capi promessi.
Non erano rari i fidanzamenti scijati, durante questo rituale !
Da qui nasceva la fusciuta (consensualmente i fidanzati si allontanavano dalle proprie case, simulando un simbolico rapimento della sposa e andando a convivere da soli, a volte ospiti di qualche parente consenziente e più comprensivo).
Il matrimonio riparatore, dopo il misfatto, (spesso celebrato con l’abito bianco, perché non necessariamente il fatto era stato consumato; per questo garantiva la zia o la sorella maggiore sposata che li aveva ospitati) riportava le relazione delle famiglie nella normalità.
Addhre capu e addhri tiempi!
Quella tovaglia era il pezzo più pregiato e per questo veniva conservata come una reliquia nel cassetto, a piano terra, del comò.
Ripiegata con amorevole cura in una busta di plastica trasparente, era custodita nella sua originale scatola rettangolare di cartone, sulla quale campeggiava ben impresso un noto marchio di fabbrica.
Delle bucce d’arancia mischiate a chiodi di garofano, ristrette in due distinte pezzuole di stoffa, legate a ciuffetto con un filo di cotone bianco la proteggevano con profumata venerazione, costringendo le tarme a stare alla larga. Nun cc’eranu santi!
La tovaglia vedeva la luce rarissime volte, o quasi mai, e comunque mai senza un motivo preciso.
In presenza di invitati o di ospiti di riguardo, sempre.
Veniva prelevata dal cassetto e dispiegata sulle spalliere di due sedie sotto l’albero di noce qualche ora prima della cerimonia.
Così pijava aria, mentre l’odore di chiuso, che poteva far arricciare il naso, lentamente si attenuava.
Copriva il tavolo in tutta la sua lunghezza e in tutto il suo splendore floreale, mentre i bordi delimitati dalla frangetta svelta, leggera e sbarazzina pendevano a circa mezzo metro dal pavimento e ondeggiavano lievemente ad ogni passaggio del gatto di casa.
Con un paio di andirivieni fra le gambe del tavolo, con la coda ritta e sollevata in alto come un piumino, strofinava la schiena appositamente arcuata, massaggiandosela.
A brevi intervalli, emetteva impercettibili miagolii di piacere.
La madre di Chicco, tutta ‘ndaffarata e concitata per i preparativi, non si accorgeva delle manovre del gatto, sicuramente pericolose per gli angoli ricamati, che potevano rimanere danneggiati dagli artigli.
Diversamente, l’hia già fiondulisciatu ‘nu zocculu, senza leggere e scrivere. Era certo.
“Tocca mmentu la tuvaja nova, se no te malànganu”, sussurrava sua madre, fra il semiserio e il faceto.
Ma non era vero.
Delle sue cose (compresa la dote) era molto gelosa.
Lo faceva più per togliere alle cummari il gusto e l’occasione del pettegolezzo, che per intima e poco convinta ostentazione.
Conosceva bene la lingua, la capu e le forbici delle sue vicine.
E vi poneva rimedio.