Perché tutti gli italiani sappiano quello che c’è stato
L’economia nel Regno delle Due Sicilie
A metà Ottocento era la terza nazione europea, poi purtroppo…
di Salvatore Cesari
Premessa
Uno sprovveduto è portato a pensare che, se non fosse intervenuta la salvifica Unità d’Italia, il Meridione sarebbe oggi un cumulo di macerie in ogni ambito vitale e, presumibilmente, vivrebbe in un’economia interna pari o addirittura inferiore a quella del Bangladesh. Niente di più falso. Vale esattamente il contrario e senza alcuna ombra di dubbio.
Prima di entrare nel vivo del discorso, mi preme sottolineare che lo scrivente non deve essere considerato un neoborbonico, anzi. I Borbone andavano combattuti (democraticamente parlando) per la politica economica, quasi tutta rivolta a curare gli interessi degli ambienti altolocati, mentre il popolino era costretto a lavorare sodo nelle varie industrie, a zappare la terra per conto dei signorotti latifondisti, a vivere sempre sulla corda della sua parca esistenza. Ma va anche detto che non c’erano barboni, che vi erano asili e dormitori pubblici dove i senzatetto erano ospitati, che vi era un’assistenza medica di base che garantiva quanto meno il minimo di sussistenza, che non vi era una leva obbligatoria alle armi per non sottrarre manodopera all’agricoltura. Era, insomma, una vita difficile per i tanti, una molto agiata per i pochi.
Il sistema industriale
L’industria rappresentava il fiore all’occhiello del Regno e addirittura in alcuni settori, come nella siderurgia, metallurgia e cantieristica navale, era la prima al mondo, superiore anche a quella inglese, costretta ad importare alcuni prodotti duosiciliani di alta qualità, soprattutto dell’acciaio prodotto negli stabilimenti di Mongiana e di macchinari e utensili di precisione in quel di Pietrarsa.
In Calabria (il termine deriva dal greco ‘Kalon brion’ e significa bello e brillante) vi era un sistema economico diversificato, basato per il 70% sull’agricoltura e per il resto su stabilimenti industriali di notevoli dimensioni.
Si pensi ad esempio al grande opificio siderurgico di Mongiana, meglio chiamato come “villaggio o Polo siderurgico di Mongiana”, in cui si producevano barre di acciaio, di ferro e di ghisa, tutte di ottima qualità. Il complesso era costituito dagli stabilimenti di “Fabbrica di armi”, “Ferriere Fieramosca” e le “Nuove Regie Ferriere”. In queste fabbriche, suddivise in tanti stabilimenti, vi trovavano posto ben 2.500 operai, oltre alle maestranze specializzate.
Travolto poi dalle vicende legate al processo di unificazione politica della penisola italiana, fu messo in secondo piano da parte del governo sabaudo, causando un rapido e inesorabile declino, conclusosi con la cessazione dell’attività nel 1881.
Anche la fiorente economia legata alla produzione della seta fu ridotta all’osso per via degli espianti dissennati degli alberi di gelso, voluti dai Savoia. Alla stessa stregua anche le industrie manifatturiere di cotone, lana e lino.
Una vera potenza economica che in breve tempo conobbe un precipitoso declino.
Un’altra regione che ha contribuito enormemente alle fortune dell’industria del meridione d’Italia è stata la Puglia, soprattutto il Salento. Anche qui troviamo le industrie manifatturiere della filatura e tessitura della lana, del cotone e della seta. Un’importanza a parte meritano le industrie manifatturiere del legno (si ricordano in modo particolare i mobilifici dislocati nel basso Salento), della ceramica (Grottaglie e Cutrofiano su tutti), della carta e della lavorazione del cuoio (Salento in genere).
Molto intenso il commercio dell’olio pugliese, che era esportato in numerosi paesi d’Europa. Gallipoli si vantava di avere ben 25 frantoi ipogei che lavoravano ininterrottamente le olive da ottobre a febbraio per 24 ore al giorno. Nel porto della città salentina i velieri commerciali stavano alla fonda prima di entrare in porto; solo dopo alcuni giorni potevano attraccare per caricare botti di olio e di vino, granaglie, legumi, tabacco, fichi secchi (quest’ultimi buoni per la distillazione). Per farsi un’idea compiuta dell’intensità commerciale in questa città salentina, vi erano numerosi consolati stranieri, come quello francese, inglese, turco, russo e spagnolo.
Per la produzione dell’olio nel Salento erano usati impianti meccanici tecnologicamente all’avanguardia, che accrebbero fortemente l’economia del paese. Le macchine agricole salentine erano considerate fra le migliori d’Europa, mentre la Borsa più importante del regno era quella di Bari.
Rinomate erano anche le tipografie, in particolar modo a Lecce e a Galatina.
L’Abruzzo e le Marche erano importanti per le cartiere (Fabriano in primis, poi quelle del Basso Lazio e della Penisola Amalfitana), la fabbricazione delle lame, posate e stoviglie in genere. Anche l’industria tessile era ben rappresentata.
La Sicilia esportava vini liquorosi in grande quantità (passito, zibibbo, marsala, ecc.). Era la ditta Florio nel trapanese a rifornire diverse ditte britanniche, presenti nell’isola.
Lo zolfo era preziosissimo perché essenziale nella produzione di esplosivi e disinfettanti. La zona da cui lo si estraeva era quella di Caltanissetta, all’epoca una delle città più ricche e industrializzate d’Italia. Ad avvantaggiarsene erano in modo particolare la Francia, l’Inghilterra e la Russia.
In Sicilia c’erano porti commerciali, come Messina, Catania, Siracusa, Palermo e Trapani, da cui partivano navi cariche di prodotti siciliani per tutto il mondo, le Americhe in modo particolare. Importante, infine era l’industria chimica della Sicilia che produceva tutti i componenti e i materiali sintetici conosciuti allora: acidi, vernici, vetro.
La Basilicata, che si affidava in modo particolare all’agricoltura e all’allevamento del bestiame, era importante anche per i prodotti caseari, i lanifici e le industrie tessili, molte delle quali già motorizzate.
La Campania, però, svolgeva il ruolo più importante, in particolare la capitale Napoli che disponeva di un porto molto capiente, tanto da ospitare oltre 40 velieri per volta. Gli scambi commerciali con altre parti d’Italia, d’Europa e delle Americhe erano talmente sviluppati che, per poter smaltire l’enorme traffico di merci, erano impiegati per 24 ore al giorno centinaia di operai e facchini, che si alternavano in diversi turni di lavoro. Napoli, con 600.000 abitanti, era la città più prosperosa, anche perché, essendo la capitale del Regno, accentrava la maggior parte delle attività commerciali ed artigianali. Basti pensare che nel 1848 nel registro portuale di Napoli erano censiti oltre 9.000 velieri commerciali.
Rinomata in Campania era l’industria della ceramica e della porcellana, soprattutto quella della “Real Casa di Capodimonte”, famosa per le splendide porcellane. Fu la regina Maria Amalia di Sassonia, moglie di re Carlo III di Borbone, a fondare, all’interno della famosa Reggia di Capodimonte, un assortito museo delle migliori capolavori porcellanati.
La più grande fabbrica metalmeccanica del Regno era quella di Pietrarsa, (fra Napoli e Portici), con oltre 1.200 addetti: un record per l’Italia di allora. Dietro Pietrarsa c’era l’Ansaldo di Genova, con 400 operai. Lo stabilimento napoletano produceva macchine a vapore, locomotive, binari, motori navali, cannoni, campane, ecc. precedendo di 44 anni la Breda e la Fiat.
Un’altra importante pietra miliare è da considerare il Setificio di San Leucio. Dai suoi stabilimenti, in cui lavoravano oltre mille operai e maestranze, erano sfornati i migliori capi di abbigliamento, soprattutto femminili. Le richieste di acquisto provenivano da ogni parte del mondo. La magnificenza di San Leucio conobbe la fine nel 1861, quando il Regno fu annesso al Piemonte a seguito della invasione sabauda. Il setificio fu dato ai privati che non riuscirono a mantenerlo in vita. Un ridimensionato stabilimento è sopravvissuto alla catastrofe savoiarda e continua a mantenere in vita la buona tradizione d’un tempo.
Un’ultima solida colonna dell’economia duosiciliana era rappresentata dai cantieri navali di Castellammare di Stabia, che già operavano sin dalla seconda metà del ‘700. Erano i cantieri navali più importanti e tecnologicamente avanzati d’Italia. In questo cantiere fu allestita la prima nave a vapore, il Real Ferdinando, 4 anni prima della prima nave a vapore inglese. Ogni anno erano varati tra trenta e quaranta imbarcazioni di piccolo e grande cabotaggio. Da Castellammare di Stabia uscirono le prime navi a elica d’Italia e la prima nave in ferro.
La tecnologia era entrata anche in agricoltura. Infatti per la produzione dell’olio in Puglia e Calabria erano usati impianti meccanici che accrebbero fortemente la produzione.
Il livello di vita nel regno
Ovviamente va fatto un distinguo netto tra la capitale Napoli e quelle dell’entroterra che portavano avanti una vita di sussistenza prettamente agricola. Di fronte alla vita attiva delle grandi città, faceva riscontro una vita molto modesta nei comuni montani e rurali. Le società umane a quei tempi erano strutturate male, con pochi eletti baroni e latifondisti da una parte e una moltitudine di persone che vivevano in condizioni modeste e dovevano lavorare duramente per sbarcare il lunario. Nei paesi più interni l’analfabetismo era allarmante, mentre nelle zone costiere e nei grossi centri urbani si attestava intorno al 50%. Non è detto, però, che in altre regioni dell’Italia settentrionale si stesse meglio, anzi. I cafoni e la misera gente si trovavano dappertutto.
Il veloce tracollo dopo l’Unità
Avvenuta l’Unità, ci si aspettava che le fortune dei meridionali migliorassero, che l’istruzione provvedesse ad arricchire le menti, che le fortune e la ricchezza fossero meglio distribuite tra le persone, pur mantenendo invariate le classi sociali. Ben presto, però, le tante speranze del popolino e le aspettative della piccola e media borghesia per un’amministrazione più democratica del meridione, vennero pienamente disattese. I liberali, che tanto avevano sostenuto ed appoggiato l’ingresso dei Savoia nel Sud, furono gabbati, raggirati e derisi.
La vivacità della bella Napoli ed altre città si assopì quasi del tutto per via dei dazi e dell’iniqua tassazione (vedasi la tassa sul sale, sul macinato e su ogni prodotto agricolo e industriale, ecc.). Il sud cadde in uno stato di coma profondo, dal quale si riprese pian piano ma senza avere la forza di toccare i livelli di un tempo. Doveva essere così, e così è stato: il Sud doveva essere una colonia del Nord. La prospera economia dei Borbone ben presto decadde in una crisi senza fine. Le migliori forze umane furono portate vie nel settentrione a disposizione delle industrie locali. Stessa sorte conobbero i migliori macchinari ed utensili industriali.
Il ‘grande lume’ borbonico, pur tra alcune incongruenze e diritti negati, poco per volta si ridusse ad un’insulsa candela.
Tutti i maggiori opifici furono dapprima ridimensionati e pochi chiusi. Nel giro di dieci anni ogni aspetto vitale s’inginocchiò finendo per garantire solo il minimo necessario per vivere, anzi per vegetare.
Stanti queste inoppugnabili certezze, si può ancora continuare a credere a questa storia risorgimentale, mistificata e menzognera, che da oltre un secolo e mezzo definisce il Regno borbonico come il più regredito e odiato d’Italia?
Certamente no, anzi bisognerebbe che i signori del Nord chiedessero scusa ai meridionali per tutti quegli atti di discredito, di distruzione, di malvagità e di sciacallaggio commessi scientemente dalle alte sfere savoiarde.
C’è stato e c’è ancora uno scontro di civiltà tra le genti italiane, ma tutto deve finire. Dobbiamo trovare il coraggio di riscrivere la vera storia del Risorgimento meridionale per pacificare le genti italiche e costituire un popolo indivisibile, unito da valori e sentimenti di pace e fratellanza. Si può fare.
Se non si dovesse arrivare a tanto, le distanze tra le due parti si acuirebbero ancor di più sino a creare un solco profondo e difficilmente colmabile.