La Masseria Papaleo
Lì ove dimorano le Fate
di Massimo Negro
Se le fate sono esistite non potevano che vivere in un luogo incantato come questo. Prima che gli sfregi dell’uomo, i segni del tempo e dell’abbandono le facessero allontanare da noi. Ma prima di andar via hanno voluto lasciare un segno della loro presenza, affinché ce ne ricordassimo. Per lungo tempo non l’abbiamo fatto, dimenticando la loro dimora, lasciando che questo splendido luogo fosse alla mercé di vandali e devastatori. Ma forse le loro speranze non erano state poi così inutilmente riposte in noi. Infine il loro ricordo è nuovamente riaffiorato. Ma di questo scriverò in seguito nelle conclusioni.
Bisogna svuotare la mente, occorre dimenticare il mondo che attualmente ci circonda con le sue frenesie e isterie. Un bel respiro e ci si immerge nell’ocra della pietra, nelle macchie di verde intenso, in un mondo sospeso tra l’oggi e ieri, tra terra e cielo.
Ed è questa la prima impressione che si ha nel guardare la grande Masseria Papaleo. L’antica azione dei cavatori, che hanno lasciato le loro profonde tracce incise nella roccia, ha reso visibile questa sensazione di sospensione.
Che risulta ancor più evidente se ci si sposta sul retro del complesso. Si ha quasi l’impressione che la Masseria sia stata poggiata da chissà quali forze sovraumane sul blocco di pietra calcarea su cui si erge. Pare quasi che da un momento all’altro possa sollevarsi e scomparire quasi fosse il Castello errante di Howl.
Un gioco di archi dalle grandezze e altezze variabili, mantenuti ancora in piedi grazie a chissà quale miracolo, ci conduce all’interno del complesso, dinanzi alla lineare e imponente facciata dell’edificio. Le decorazioni esterne sulle architravi delle tre porte di accesso al piano nobile fanno intuire, con pochi dubbi, l’importanza del luogo.
Da segni ormai non più visibili, ma giunti sino a noi da chi nei primi decenni del secolo scorso visitando il luogo ha voluto lasciar memoria per iscritto della propria visita, si pensa che sia appartenuta a Scipione de Summa, che governò nella Terra d’Otranto dal 1532 al 1542. Siamo nel periodo in cui, grazie a Carlo V, si iniziava la progettazione e costruzione del maestoso Castello di Lecce. E’ evidente che la stessa attuale denominazione di masseria potrebbe essere impropria, trattandosi quindi di un vero e proprio palazzo nobiliare.
Ma il complesso ha molto probabilmente origini che potrebbero andare poco più indietro nel passato. Infatti, giunti dinanzi alla scalinata che conduce all’esterno, sul lato sinistro del complesso, ove molto probabilmente sorgeva un giardino, in alto sulla lunetta vi è un affresco rappresentante l’Annunciazione, e in basso (forse) si legge 1518 [?]. L’affresco è rovinato ma grazie all’altezza non a subito danni ancora maggiori.
La scalinata anzidetta conduce all’esterno, alla base del blocco calcareo su cui poggia il grande complesso. Dopo pochi passi è ben visibile una piccola porta. A guardarla oggi, con sguardo superficiale e veloce, sembra una normalissima entrata. Una di quelle che possono condurre in qualche locale di servizio, in qualche scantinato. Ma basta porre un minimo di attenzione per rendersi conto che non è un accesso come tanti altri.
Il tempo e lo sfarinamento della pietra leccese ha ormai reso irriconoscibili i dettagli di una architrave che doveva essere di particolare pregio.
Francesco Tummarello che visitò il posto, nel 1925 (1) ci ha lasciato questa descrizione:
“Appena si mette piede nel giardino, si è richiamati da un grande bassorilievo su l’architrave d’una porta -della murata a destra del caseggiato soprastante. Tale bassorilievo, intagliato sulla pietra leccese, e formante l’architrave, è quasi tutto corroso, ma vi si scorgono ancora due grandi angioli che sostengono una targa con una logora e indecifrabile iscrizione, la quale principia colla seguente parola: NIMPHIS ET…. POMO…. in carattere lapidario romano. Poco al disopra, sono intagliati due piccoli scudi colle insegne attaccati alla cornice; in uno dei quali scorgonsi due torri e un leone rampante.”
Oggi di quello che vide il Tummarello resta ben poco. E’ visibile ancora l’angioletto di destra; di quello di sinistra si intuisce che vi era dai contorni sgretolati della pietra. Dell’iscrizione non resta praticamente nulla. Una pietra particolarmente delicata (non tutta la pietra leccese è uguale in quanto a resistenza e sfarinamento) e nel tempo non curata purtroppo ha fatto giungere ben poco sino a noi.
Ma quello che lascia intuire la porta di accesso è ben poca cosa rispetto a quello che appare una volta entrati. Basta fare un passo all’interno, pochi secondi che la vista si abitui alla penombra e si viene colti da un evidente sensazione di incredulità. Grandi figure femminili sembrano prender vita dalle pareti.
Il Tummarello, preso anch’egli da evidente emozione, nel suo scritto riporta quanto segue:
“Vedesi, non una grotta, ma un gran salone a soffitto piano, colle pareti adorne di statue dentro nicchie :ad arco circolare. Le nicchie sono 12, sei per ogni lato, una rimpetto all’altra. Le figure femminili, in alto rilievo, grandi al vero, sono 6, tre per ogni parete e alternate a nicchie vuote di forma emicilindrica con una grande conchiglia bene intagliata nella parte emisferica superiore. — Ecco le Fate! delle quali una è col capo coronato di fiori!
Peccato che sono quasi tutte mutilate alle braccia, al petto e al viso; pur non pertanto si intravede una certa grazia nelle movenze e nell’insieme delle vesti eleganti, e la fantasia anima quei visi deformati, scorgendovi anche delle bellezze giovanili. E si pensa davvero alle Belle Fate !… Alle Fate Buone e benefiche!… Ma la meraviglia si aumenta, osservando meglio, quando cioè si vede che tanto le statue che le intiere pareti e le nicchie, come il soffitto a piattabanda, sono cavate e scolpite nel vivo sasso, formando un grandioso blocco di pietra leccese.”
Quanto scorge il Tummarello è sostanzialmente in linea con quanto giunto sino a noi. Le figure femminili sono mutilate e rovinate così come lui le descrive, ma il loro stato non far venir meno quel senso di meraviglia che ti coglie entrando nella sala sotterranea. Sembra quasi che volgano il loro sguardo nel controllare chi entra nei loro “domini”.
C’è solo un’evidente elemento di discontinuità rispetto alla visita dei primi del ‘900. Il Tummarello nel suo scritto scrive di un gran salone e di sei nicchie per i due lati. Oggi non vi è un gran salone ma un muro, forse posticcio, ha diviso in due stanze il grande ambiente.
In un altro passo, il Tummarello scrive di una cavità sotterranea nella quale era possibile accedere dalla stanza delle Fate. Oggi si notano nel pavimento i parziali contorni di un’apertura. Se quello è l’accesso, la cavità è completamente interrata.
Nella seconda stanza ricavata dal muro posticcio, lungo le pareti continuano ad essere presenti altre figure femminili, intervallate da nicchie decorate. Sia nella prima che nella seconda stanza si può notare che le pareti sono state rinfrescate (chissà quando) con una brutta tinta azzurra. Incluse le Fate.
Tornando nella prima stanza si nota una porta che conduce verso una stanza attualmente priva di aperture. Per cui nell’entrare si resta immersi nell’oscurità e l’unica luce che vi entra è quella proveniente dalla porta di accesso.
“ …. una stanza rotonda a volta sferica. Questa costituisce il vero Ninfèo o sala da Bagno, di forma cilindrica, con un bel sedile attorno e colla cupola a calotta sferica, nel cui centro sta un lucernario, attualmente chiuso. In essa, alla perfezione geometrica, si accoppia l’ornamentale cornicetta dentellata a mensolette, su cui poggia la cupola. In questa Rotonda, doveva osservi la vasca da bagno, ora sparita.”
I ninfei hanno origini antiche. In origine si identificava un edificio sacro a una ninfa, in genere posto presso una fontana o una sorgente d’acqua. Nella civiltà greco-romana con ninfeo si indicavano dei “luoghi d’acque”, ossia strutture presentanti vasche e piante acquatiche presso i quali era possibile sostare, adibire banchetti e trascorrere momenti di ozio.
Si dice che anche il luogo dove sorge il ninfeo delle fate era in origine segnato da stagni, poi prosciugati nell’operazione di bonifica delle “tagghiate”.
Ovviamente un luogo come questo non poteva sfuggire alla narrazione di leggende e racconti di tesori (acchiatura). In una rivista di culturale edita dalla Banca Popolare Pugliese, nel 1989 compariva un articolo di Fiocco e Zellino in cui vi era riportato:
“Qualcuno racconta che anche oggi escono dal ninfeo – specie di notte – e che talvolta bussano alle porte delle case spaventando la gente, che possono impietrire con uno sguardo. Queste donne ultraterrene sono apparse talvolta in vaporosi abiti bianchi, talaltra nude e affascinanti: “mezze nute”, ci diceva un contadino. Possono cambiare aspetto a loro piacere, divenire alte come palazzi, rendersi invisibili o tramutarsi in animali. Una signora ci ha narrato così di avere visto un giorno un animale fantastico balzar fuori al tramonto dal canneto vicino al ninfeo in un gran polverone, e di essere fuggita spaventata. Colei che abita la masseria si dice abbia visto un giorno una fata, vestita di bianco; seduta al tavolo di casa sua, e dopo poco sparita.
Nel ninfeo era nascosta l’acchiatura delle fate ed è per questo che fino a qualche anno fa non vi si faceva entrare nessuno. Ora si dice che il contadino che lavorava il fondo circostante abbia trovato, nascosta in una nicchia, l’acchiatura e che egli sia protetto dalle fate: in una notte di tempesta esse lo salvarono da un fulmine che lo sfiorò, bruciacchiandogli i calzoni, senza fargli male. Egli ci ha detto di non credere alle fate, che chiama con espressione poetica “illusione di vita”, e di non averle mai viste. Ma non è forse vero che chi riceve favori dalle fate o intrattiene rapporti con loro non deve farne parola con nessuno?”
Ma queste non sono le uniche leggende che si narrano. Si racconta di una ragazza che aveva un intenso e inesaudito desiderio di maternità. Purtroppo il non poter aver figli, con il tempo, condusse la poveretta quasi alla follia. Ogni giorno si recava nelle stanze del ninfeo recando con se un ramo di un albero, cullandolo proprio come se fosse un bambino. Le fate nel vedere la disperazione della ragazza decisero di intervenire. Fu così che, si racconta, si compì un incredibile miracolo. Il ramo si tramutò in un bambino e il desiderio della povera ragazza venne così esaudito.
Ma la suggestione di questo luogo non è solo racchiusa in queste splendide stanze sotterranee. Uscendo all’esterno e volgendo i miei passi verso il retro del grande complesso mi trovo dinanzi ad un gioco di aperture e scale tutte profondamente intagliate e ricavate dalla roccia.
E in alto i fregi sul balcone e sull’architrave dei fasti del passato.
In questo luogo ci sono giunto grazie alle indicazioni dell’amico Marco Piccinni (2) che in una sua nota aveva segnalato lo stato di degrado e di abbandono del sito.
Fortunatamente questo luogo e le cave che vi sono attorno, note come cave di Marco Vito, rientrano in un complesso e vasto intervento di recupero progettato dal Comune di Lecce e finanziato dalla Regione Puglia.
La terza fase dell’intervento prevede il recupero di Masseria Tagliatelle (come altrimenti è chiamata Masseria Papaleo) e del Ninfeo delle Fate, che diventerà “la Casa del Parco” a disposizione della città.
Nell’attesa che le Fate possano nuovamente tornare tra noi, spero che l’intervento di recupero non snaturi questo splendido luogo.