IL CIBO DELL’ANIMA E L’ANIMA DEL CIBO
di Antonio Mele ‘Melanton’
Ebbene sì, sono anch’io un buongustaio (un gourmet, direbbero i francesisti), anche se un po’ ruspante e piuttosto indisciplinato, di quelli cioè che conoscono ma non sempre osservano le regole dell’etichetta, concedendosi di tanto in tanto qualche innocente trasgressione, e magari, alla fine di una pietanza particolarmente gustosa, non resistono al rito tentacolare della classica “scarpetta”, a gran torto, io credo, proibita dalle talvolta sproporzionate leggi del galateo.
Trovo, al contrario, che quel delizioso e casto tocchetto finale di pane e intingolo – purché fatto con grazia e con misura, s’intende – possa considerarsi come un gesto di massimo gusto, e infine un segno di cortese riconoscimento alla bontà dell’opera del cuciniere, cuoca o cuoco che sia.
Nel nostro Salento, ma anche a Roma, vi assicuro, specialmente nei quartieri maggiormente deputati alla gastronomia di antica tradizione popolaresca come Testaccio, San Lorenzo o Pietralata (ormai alla pari quando non superiori al mitico regno di Trastevere), il rito del “ripasso” è piuttosto consueto, anche per l’abituale dovizia di sughi e salse con cui si insaporiscono alcuni piatti tipici.
Come si fa, dopo aver gustato l’ultimo bucatino all’amatriciana, a lasciare i resti di sughetto ancora profumanti di pomodoro fresco, pecorino e pancetta? Infatti, da “Capo de Fero”, il “Moro”, “Meo Patacca” o “Agustarello” – fra le più antiche trattorie veracemente romanesche ancora in attività – non si lasciano. Salvo a non voler correre il rischio di essere pubblicamente redarguiti dai gioviali ma inflessibili trattori, e invitati a ripulire con una mollichetta quell’ultimo ben di Dio che attende sul fondo del piatto.
La gastronomia tipica è lo specchio forse più sincero della storia, della civiltà e della cultura di un popolo. “L’uomo è ciò che mangia” asseriva nei suoi libri il filosofo Ludwig Feuerbach, significando il legame inscindibile tra psiche e corpo, tra la nostra sfera spirituale e quella materiale. E se il libro, simbolo assoluto del sapere e della conoscenza, viene argutamente considerato il cibo dell’anima, la cucina tradizionale è, a buon diritto, l’anima del cibo.
Da alcuni anni, peraltro, i libri di ricette tipicamente salentine sono fra i più richiesti dai viaggiatori forestieri (ma non soltanto), i quali – anche attraverso le varie opere divulgate dai non pochi e illuminati editori e stampatori di casa nostra (Mario Congedo, Manni, Capone, Guitar, Lupo, Del Grifo, Editrice Salentina, Torgraf, Panico, per citarne alcuni) – continuano a scoprire e ad amare gli incanti del Salento, compresi quelli gastronomici, da noi fortunatamente non del tutto dispersi.
“Mangiare bene e in buona compagnia mi fa stare meglio con me stesso, con gli uomini e con Dio”, mi confidò qualche anno fa un vecchio ingegnere palermitano, salutandomi dopo un pranzo di lavoro al quartiere della “Vuccirìa”. E mi fece dono, per sopraggiunta, di un bellissimo proverbio siciliano che non conoscevo – “La tavola è un sentiero” – a comprovare che le occasioni conviviali spesso costituiscono un autentico cammino nella vita, nella memoria, nelle emozioni di ciascuno di noi. È capitato anche di recente, a “La Campina de don Paulu”, in una cena con alcuni dei miei amici più cari. Chi di loro mi legge (spero tutti) si riconoscerà. E riconoscerà che ogni pietanza che giungeva a tavola – si trattasse di rape ‘nfucate, còcule de patate, panzarotti, pìttule o purpette – ci riportava indietro e avanti nel tempo.
Non è forse stato, anche quello, un “sentiero” culturale?
In molte delle nostre famiglie di un tempo (che non è poi lontanissimo, anche se sembrano passati secoli) sussisteva perfino un “menu fisso settimanale” che, sulla base di risorse ordinarie e il più delle volte modeste, sapeva cadenzare l’assimilazione di proteine, vitamine, grassi, zuccheri, e quant’altro necessario al nostro minimo fabbisogno energetico. Una sorta di dieta “equilibrata” (o forse, più propriamente, “obbligata”), che associava e alternava con sapienza il consumo di cereali, legumi, verdure, ortaggi, frutta, carne (una tantum), pesce (solo di venerdì, ma non tutti i venerdì), e poco altro.
I rifiuti alimentari – che nella odierna società consumistica rappresentano un gravoso e talvolta drammatico problema, con risvolti anche di natura etica – a quei tempi praticamente non esistevano. I piselli avanzati a pranzo diventavano “cecamariti” per la cena. Col pane raffermo (e non di rado ammuffito), e con l’ausilio di un pomodoro, una patata o una cipolla, le nostre massaie erano capaci di rimediare pietanze appetitose (come la mitica ciardeddha), sufficienti a ristorare un’intera famiglia.
C’era, al di là del bisogno, un’autentica “religiosità” del cibo. Che, di riflesso, si traduceva in un’economia domestica povera e ricca insieme, umile e fantasiosa, alla quale bisognerebbe ancora guardare con ammirazione e rispetto.
Quello che non mancava mai, nella tavola salentina di ieri (come non manca in quella di oggi), era lu mieru, il nostro vino quotidiano. Nessun’altra regione d’Italia – forse soltanto il Piemonte, o alcuni territori della Toscana e della Sicilia – può vantare una civiltà e una cultura del vino ultramillenarie come quelle della Puglia (non a caso definita “la Cantina d’Europa”), e particolarmente della nostra Terra d’Otranto.
Autentico gioiello dell’agricoltura, del commercio e dell’alimentazione, il vino continua a legarsi soprattutto alla convivialità, all’amicizia, all’allegria, al benessere fisico e spirituale. “La penicillina – affermava il suo scopritore sir Alexander Fleming – forse guarisce gli uomini, ma è il vino che li rende felici”. E un altro grande uomo di scienza, Louis Pasteur, rimarcava che “C’è più filosofia in una bottiglia di vino che in tutti i libri”.
Molti, infine, ricorderanno il nostro famoso “vino nero”. La D.O.C. dei poveri. Quello che macchiava i bicchieri. Denso, corposo, con forte profumo di mosto, fors’anche imperfetto ma sicuramente sincero, era familiare su tutte le mense e soprattutto nelle classiche mescite o putìe.
A casa nostra, tutte le volte che venivano i contadini a giornata per ritirare la paga, mentr’io mi preparavo ad andare a scuola, restavo sempre con gli occhi sgranati nel guardarli bere tutto d’un fiato uno o due bicchieri ricolmi di quel vino, offerti da mia nonna. “Bona salute, patrun’Anna!”, dicevano. E mandavano giù, come se fosse acqua fresca. La mia ammirazione era sconfinata. Li ho sempre contemplati e ricordati come eroi, o cavalieri di un altro mondo fantastico.
Poi, qualcuno mi ha rivelato che quei miei eroi, quando li vedevo bere il vino nero “di buon mattino e a stomaco vuoto”, come a me sembrava, avevano già duramente lavorato nei campi per ore, da molto prima dell’alba, e alla fine della loro fatica avevano consumato una giusta e robusta colazione.
Un po’ di disincanto l’ho provato, confesso. Ma quegli uomini restano ancora, e indelebilmente, gli straordinari cavalieri del mondo fantastico della mia infanzia. Pròsit!