Il Capitano
di Andrea Tarantino
Dopo ore di navigazione la prima persona che la luce toccava era il capitano. Era l’ultima persona che andava a dormire e la prima a svegliarsi.
Timonava nella notte e la guardava in faccia: dopo anni di “strade” senza luce aveva trovato certezze senza bisogno di vederle.
Parlava poco il capitano, ma quando lo faceva il silenzio che supportava le sue parole era tombale. Tutti si irrigidivano e davano massima attenzione a quello che diceva: di solito ordini.
Erano rare le sue emozioni, ma vere. Quando si intravedevano avevano lo stesso effetto dell’onda lunga, travagliavano in fondo.
Era una certezza anche quando fuori c’era il nulla, bastava guardare la sua espressione per trovare conforto. Socchiudeva gli occhi per difendersi dai riflessi della luce cercando in lontananza l’onda più alta con la quale misurarsi. Non ho mai capito se la sfida era con il fuori o con il dentro, comunque lui era una certezza.
Non aveva paura o meglio dava a questa la giusta importanza. Senza paura è come non esistere, ma senza l’onda da sfidare è come vivere da morto, diceva.
Per il capitano la nave erano i suoi uomini ed era consapevole che ognuno di loro aveva la propria onda da sfidare. Le onde occasioni per conoscerli meglio.
Dopo anni di terra liquida il capitano aveva capito che ci sarebbe sempre stata un’onda più alta della propria nave, ma mai una nave più grande della sua.
Ogni giorno il mare era un’esperienza in più. Quel giorno scivolavamo sul marmo.
Il viaggio era lungo così il capitano fece partire il suo racconto da lontano.
Le storie salvano e condannano nello stesso tempo.
Pietro Micca era un militare sabaudo. Nella notte del 29 agosto 1706, in pieno assedio di Torino da parte delle truppe francesi, Micca fece saltare una galleria fermando i nemici. Mentre era di guardia ad una delle porte della città assieme ad un commilitone, Micca, dopo aver fatto allontanare l’amico, conscio del rischio che correva, decise di utilizzare una miccia corta per l’esplosione.
Fermò i nemici, ma lui cadde con loro.
Nero e interrogante era il fondo, ma il viso del capitano era niente a confronto. Parlava senza fissare nulla in particolare.
Non avevamo ancora capito dove volesse arrivare. Quel giorno era partito da troppo lontano anche per chi lo conosceva da anni.
La sensazione era simile a quella che si avverte durante la formazione di un’onda anomala: raccoglie l’acqua da molto lontano per poi infrangersi con violenza e distruzione.
La sua espressione divenne di ghiaccio, guardava il mare come se non lo avesse mai visto. Si diceva che il capitano in quel tratto di mare cambiava, si ammutoliva, e quel giorno vedevamo tutto quello che raccontava, stranamente parlava.
Eravamo a circa tre miglia dal faro di Santa Maria di Leuca.
Le parole del capitano scivolavano sul quel marmo graffiandolo.
Il mare non ha memoria. Questa è proporzionale alla nostra capacità di non dimenticare: il mare dimentica mentre gli uomini cambiano.
Il Pietro Micca era un sommergibile della Regia Marina che, avvistato da un sottomarino britannico il 29 luglio del 1943, fu silurato ed affondato in pochissimo tempo.
Si salvò solo il capitano con altri diciassette marinai.
Sessantacinque uomini furono inghiottiti dal mare ancora vivi. Vissero per due giorni, il terzo giorno si udirono dei colpi di arma da fuoco.
Un corpo deceduto da anni che non ha ancora lasciato andare la sua anima, questo è il Pietro Micca adagiato ad 80 metri di profondità.
Noi gli eravamo sopra.
Istintivamente tutti guardammo giù ma si vedeva solo il riflesso del sole. Partiva dal punto più nero che riuscivamo a scoprire e si allargava con raggi lunghissimi.
In mare non affondano navi, ma uomini, concluse il capitano.
Non lo disse espressamente, ma dalle sue parole sembrava di capire che un capitano può morire tante volte ma quando lascia un solo uomo in mare, muore davvero.
Ci sentimmo più uniti, più forti. Il capitano ci aveva dentro … e non ci avrebbe “lasciato”; il mare faceva meno paura ed eravamo contenti di averlo al timone.
Quel giorno su quella lastra di marmo la nostra nave si era arricchita della presenza dell’altro, di quell’altro che prima di salvare o prendersene cura, bisogna accoglierlo dentro.
Tutti avvertimmo la nostra nave più forte, ed era strano sentirlo in un giorno di bonaccia…
Il capitano abbassò la visiera del cappello, accese l‘ennesima sigaretta, alzò il collo della giacca gettando lo sguardo lontano. L’insegnamento era chiaro: prima di intenzionare lo sguardo occorre guardare “dentro”.
La nave ci teneva insieme, il mare ci legava e questo il capitano lo sapeva. Non lo ha mai palesato, però aveva scelto di andare lontano, e questo lo si può fare solo insieme: noi la sua nave, lui il nostro capitano.