Un tempo interpellare un medico non era da tutti, perché assai costoso
I rimedi dell’antica medicina popolare
Per guarire da malattie e prevenire ogni sorta di malanno, la povera gente faceva ricorso alla natura, a credenze e a magiche pozioni, tramandate di generazione in generazione
di Emilio Rubino
I nostri progenitori erano soliti porre rimedio ai più diversi mali che affliggevano la loro esistenza facendo ricorso a vari stratagemmi.
Così, ad esempio, riuscivano ad impedire che il bambino facesse la pipì a letto, facendogli mangiare dei topolini fritti, o a far guarire dall’itterizia ingurgitando dei pidocchi vivi, i quali avevano la capacità (era credenza) di fagocitare il “verme” dell’ittero.
Nel passato, insomma, ognuno provvedeva da sé, secondo l’esperienza antica dei suoi avi, dei conoscenti, dei suoi vicini di casa, ecc., atteso che Esculapio non aveva ancora provve- duto a creare i medici delle varie specializzazioni ed anche perché la povera gente era impossibilitata a pagare parcelle mediche, anche allora salatissime.
Valeva quindi la pratica empirica, consolidatasi attraverso i secoli e così tramandata da padre in figlio, di una serie infinita di esperimenti tesi ad allontanare e, possibilmente, ad annullare definitivamente ogni malessere che travagliava l’essere umano.
Volete conoscere come la fantasia popolare, condita in certi casi con un pizzico d’intelligenza, riusciva a tener lontani dei guai, qualche volta assai seri?
Ad esempio, la donna che era incinta, se non voleva che il suo parto si presentasse assai difficoltoso, doveva evitare di bere in un otre.
Ciò si giustificava col fatto che tale azione comportava per lei uno sforzo fisico eccessivo nel sollevare e reggere il pesante otre.
La lavoratrice dei campi che fosse anch’ella incinta, per non sgravarsi prematuramente o per non correre il rischio di abortire, doveva indossare i mutandoni (cazzunetti) del marito o almeno i suoi pantaloni, i quali avevano la indubbia funzione di cinturare, cioè tenere bene stretto l’addome, culla di quella tenera e delicata creatura che aveva in grembo.
Le accortezze e le precauzioni della donna incinta erano numerose, tant’è che ella non doveva, ad esempio, portare catenine al collo, né di oro né di altro materiale, se voleva evitare che il piccolo nascesse col cordone ombelicale intorno al collo, con pericolo di soffocamento.
E così, sgravatasi senza pericoli, la puerpera doveva restare a letto per un numero di giorni dispari (sette, nove, undici, ecc.) nella certezza che così il pargolo sarebbe cresciuto più sano.
La lunga gestazione e il successivo puerperio provocavano un naturale deperimento bio-fisiologico nella donna, la quale aveva perciò il bisogno di integrare, per sé e per il piccolo, gli elementi nutritivi perduti (proteine, grassi, calcio, fosforo, ferro, ecc.). A tal uopo, dopo il parto, la puerpera, che non poteva permettersi il lusso di comprare del “brotu” (carne da brodo), rimediava con l’acquisto delle più economiche “osse” (ossa gia spolpate) e chi non poteva permettersi l’acquisto neanche di queste faceva uso del semplice sugo di ceci cotti. Contro l’improbabile conseguente suo stato anemico vi sopperiva col bere, come ricostituente, del vino nel quale era stato immerso un pezzo di ferro per alcuni giorni, vino accortamente filtrato specialmente se in esso era stata immessa della limatura di ferro.
Il prolungato allattamento, oltre a creare nella madre un indubbio disagio fisico, poteva assuefare il piccolino a nutrirsi in modo innaturale, per cui si usavano vari accorgimenti per “stagghiare” (svezzare) il viziatello, coll’ungere i capezzoli della madre con sostanze disgustanti, come, ad esempio, l’amaro peperoncino.
Al piccolo venivano poi riservate le attenzioni più amorevoli perché potesse crescere sano, forte e bello.
Gli si dava da mangiare, ad esempio, il cuore delle rondini perché in tal modo sarebbe divenuto svelto, agile e garrulo, appunto come questi simpatici uccelli.
Quando i decidui denti di latte venivano a cadere, bisognava buttarli in un pozzo nero perché era credenza che, diversamente, li avrebbe potuti ingoiare un gatto o un cane, con la conseguenza che, in seguito, al piccolo sarebbero spuntati denti simili a quelli del gatto o del cane.
Perché il bambino non crescesse con le gambe storte, le mamme di un tempo erano solite avvolgerlo per intero in lunghe fasce e così, irrigidito come una mummia, lo deponevano in un “capitarru”, cioè in una robusta colonnina di legno internamente cava (in un remoto
passato pare si scavasse una buca per terra), sicché la madre era libera per le faccende domestiche.
Si usava poi azzittire il piccolino, che incapsulato a lungo in quella posizione finiva per piangere, facendogli succhiare una “pupatella” (mollica di pane con zucchero avvolta in un lembo di stoffa leggera).
Attraverso i vari secoli il campo delle applicazioni curative si era ampliato notevolmente e la medicina popolare aveva trovato un sicuro rimedio per ogni inconveniente fisico.
Se, ad esempio, il cuore ti saltava per uno “scantu” (improvviso spavento) era sufficiente bere del vino nel quale era stato immerso un pezzo di carbone, mentre al piccolo veniva ingiunto di fare subito la pipì.
Se una persona accusava un mal di schiena poteva guarire applicandole le cosiddette “coppe”. Si operava in questo modo: si prendeva un pezzo di stoffa i cui bordi venivano bagnati con dell’alcol, in essa s’introduceva poi una moneta metallica e si poggiava il tutto sulla parte dolente, dando nel contempo fuoco alla stoffa che veniva immediatamente coperta con un bicchiere di vetro (coppa). Per mancanza d’ossigeno, la fiamma si spegneva quasi subito, mentre nel bicchiere la parte del corpo dolente si gonfiava sino a riempire il vuoto interno. Il dolore andava via a causa del calore e l’operazione aveva termine col completo raffreddamento del mezzo usato.
L’uomo antico aveva tratto direttamente dalla natura tutto ciò che era idoneo a scacciare i suoi malanni, sicché lo vediamo mangiare fave secche crude per neutralizzare l’acidità di stomaco e limitare la caduta dei capelli strofinando il cuoio capelluto con delle “cantarìnule” (oggi si usa lo shampoo alle ortiche), mentre per eliminare una tosse persistente s’ingeriva un cucchiaio di miele.
Per lenire gli effetti dannosi di una scottatura si usava porre (lo si fa anche oggi) sulla parte ustionatadelle fette di patate crude o un impasto di farina con il vino, mentre i gonfiori, ed in genere ogni specie di ascesso, scomparivano applicando, al posto dell’odierno ittiolo, un impasto di foglie di malva bollite.
E poi l’aglio, utile non soltanto per gli ipertesi ma anche come vermifugo (al piccolo veniva posta intorno al collo una coroncina dei suoi bulbi).
Se la testa scoppiava per una forte emicrania (specialmente se dovuta ad un raffreddore), si usava ungere la fronte, frizionandola abbondantemente, con olio d’oliva (“l’uègghiu ti ulìa sanaogni malatia”) e cingendola poi con una fascia di lana riscaldata.
Se uno dei coniugi fosse stato preso da un forte raffreddore, per guarirne doveva indos- sare la camicia da notte dell’altro coniuge.
Così pure gli atroci dolori di una sciatica scomparivano per sempre frizionando la parte indolenzita con olio misto a petrolio e poi fasciando con un panno di lana.
Parimenti, per far scomparire gli effetti di un reumatismo, bastava frizionare la parte con dell’alcol, nel quale era stata immersa per un intero anno una vipera.
E’ sorprendente poi ritenere che anche l’autonoma azione di un estraneo potesse avere un riflesso positivo sulle condizioni fisiche di una persona e ciò è attestato dalla diffusa credenza che i porri delle mani sarebbero scomparsi per sempre se si fossero buttati, all’insaputa dell’interessato, tredici ceci crudi in un pozzo del quale quegli non avesse bevuto mai bevuto la sua acqua; e come lo scorrere dei mesi e dei giorni del calendario potesse avere degli effetti benefici.
E così, per essere indenni da ogni tipo di cefalea, era necessario radersi i capelli (oppure tagliare una sola ciocca) il primo venerdì del mese di marzo.
Ciò era anche un vantaggio perché si aveva il privilegio di morire “cattìu”, cioè di veder morire prima l’altro coniuge.
Tale giorno pare fosse magico per gli antichi in quanto, se l’uomo e la donna eranosoggetti a negative manifestazioni nevrotiche (rispettivamente “matricone” e “stèricu”), per guarirne era necessario conservare in un sacchettino di stoffa (da poggiare poi sulla pancia o sulla coscia) l’uovo disseccato di un polpo femmina pescato il primo venerdì di marzo.
Per sanare dai geloni (“pruticeddhi”), bisognava immergere i piedi o le mani nell’acqua ove erano stati tenuti a mollo dei lupini (“rupini”), o nell’acqua di mare, o, comunque, salata, ma più efficacemente nel “pisciaturu” (urina).
L’acqua salata aveva pure qualità emostatiche per le piccole ferite e i graffi.
Con somma incoscienza e col rischio di possibili infezioni, si riteneva pure che le ferite sarebbero guarite più rapidamente facendole leccare da un cane, oppure applicandovi sopra della ragnatela.
La tonsillite veniva curata effettuando “pinnillate”, con la spennellatura di tintura di iodio a mezzo di morbide penne di gallina e per scacciareun moscerino andato a finire in un occhio bisognavaprendere con la punta delle dita la palpebra superiore e muoverla imitando il segno della croce.
E’ poi davvero stupefacente sapere come la donna che aveva perduto l’amante poteva farlo ritornare a sé facendogli ingurgitare, a sua insaputa, in una qualunque minestra, alcune gocce del suo sangue mestruale.
E ancora la donna: le rughe sul viso o la presenza di acne o brufoletti oggi possono essere fatti sparire con una maschera al carciofo, o all’uva, o alle mele, o al kiwi, o al cachi, secondo i propri gusti e le stagioni. Ieri, invece, ella usava spalmare sul proprio viso lo sperma di un uomo, magico medicamento facilmente reperibile, in tutte le stagioni e senza pagar nulla, rendendo così la sua pelle più fresca e giovanile.