MESTIERI SCOMPARSI
di Emilio Rubino
Attraverso i secoli, l’uomo le ha provate ed “inventate” tutte pur di arrabattarsi alla miglior maniera e sbarcare il lunario. Quando si ha bisogno, quando si è poveri in canna, quando in casa manca tutto e bisogna ad ogni costo portare qualcosa per sfamare i propri congiunti, è necessario darsi da fare, stringere le meningi per inventarsi qualsiasi lavoro, impegnativo o meno che sia, sobbarcarsi a quelle attività, anche se degradanti ed umilianti, che consentano di raggranellare un po’ di danaro per i bisogni infiniti della vita. Oggi è più facile vivere, anche se con preoccupazione e fra tanta disoccupazione. Ieri era davvero impossibile, era disperante; ieri non vi era né l’Ufficio di Collocamento, né l’iscrizione nelle liste dei disoccupati e nemmeno i cantieri scuola approntati dal Comune per dare un po’ di illusione. Dovevi cavartela da te, perché gli altri se ne “infischiavano” del tuo stato di estremo bisogno, dei bambini che avevi lasciato a casa, laceri, scalzi e affamati: dovevi vedertela da solo! Si comprende allora come pullulassero le attività lavorative secondarie rispetto alle principali dell’agricoltura, dell’edilizia, del commercio, dell’artigianato, del pubblico impiego ecc. ecc., e che noi tenteremo qui di individuare, sforzandoci di delineare le linee più caratteristiche di ognuna di esse, alcune delle quali scomparse del tutto, altre ancora in vita anche se lentamente in via di estinzione:
LU ‘CCONSALIMBURE. Solitamente era uno zingaro, proveniente da Galatone o da qualche altro di quei pochissimi Comuni del leccese ove essi vivono in tribù organizzate nei ghetti o nelle estreme periferie di quei centri urbani (gli zingari si distinguono dagli altri cittadini non solo per quel loro modo di vivere tribale, scostati dagli altri cittadini e restii anch’essi ad ogni integrazione sociale, ma anche per la consequenziale impossibilità ed incapacità di dedicarsi alle usuali attività lavorative; facilmente individuabili per le particolari fattezze fisiche: razza bruna, zigomi sporgenti, capelli neri e ricciuti). Una delle principali attività degli zingari era quella degli “cconsalimbure”, cioè della riparazione, per un misero compenso, di quei grossi vasi di terracotta (limbure, plurale di limbu), internamente smaltati, ove venivano lavati gli indumenti e in genere qualunque altro recipiente di terracotta (còfane, capàse, craste, ecc.). L’attrezzatura era ridotta al minimo, ad una tenaglia e ad un caratteristico trapano di legno (formato da un robusto asse orizzontale della lunghezza intorno ai 40 cm., con grosso foro centrale attraverso cui roteava un legno affusolato, dalla cui estremità superiore partivano due resistenti corde che, avvolte in parte al fuso, venivano a legarsi alle due estremità dell’asse orizzontale, mentre all’estremità inferiore del fuso era infissa una punta d’acciaio idonea a forare lo spessore della terracotta). Il movimento rotatorio del fuso e quindi della punta era dato dalla pressione a più riprese della mano sull’asse orizzontale, il quale compiva così un movimento dall’alto in basso e viceversa intorno al fuso al quale imprimeva così il moto rotatorio. I fori sulla terracotta venivano fatti simmetricamente, lungo la lesione o la rottura che si intendeva “cucire”. I punti venivano realizzati con fil di ferro “zingatu”. Lo zingaro, percorrendo le vie del paese, si annunciava con voce stentorea strascicando le sillabe di “lu cconsalimbure”.
LU ’MBRILLARU. Il riparatore di ombrelli di ombrelli. Solitamente era uno zingaro che provvedeva ad incollare manici o legare con sottile fil di ferro le bacchette che si erano staccate
LU QUATARARU. Il venditore ambulante di “quatare”, cioè di pentole e tegami. Nel passato girava per le vie del paese con carretto tirato da un asinello ed era caratteristica la poesia di uno di essi che diceva:
Firsore, firsureddhe e firsuruni,
so ssciutu a casa a prìncipi e baruni,
hàggiu giratu tuttu lu paese
e non hàggiu mbuscatu’ na spiràgghia e nu tornese.
Gh’era statu mègghiu pi ddhru sire mia
ci m’era misu inthra ‘na trattoria,
c’addhrà facìa l’arte di nutaru
e scrivia cu carta, penna e calamaru
E poi, con voce forte, strascicava:
“lu quatararu, ci ‘ole firsore!”
LU MMULAFORBICI. L’arrotino. Andava girando per i vari paesi su una bicicletta o, in tempi relativamente recenti, su una motocicletta o un’Ape, attrezzato di tutto punto a vendere il proprio “importante” servizio. Per poter lavorare, doveva pedalare in continuazione per consentire la rotazione della mola, su cui, da un’apposita scatola di rame, gocciolava dell’acqua per lubrificare le lame. Al passaggio dell’arrotino, molte donne uscivano di casa a farsi molare le forbici, le forbicette da ricamo o da toilette, i coltelli e quant’altro necessario.
LU MPAGGHIASEGGE. L’impagliatore di sedie. Veniva dalla vicina Gallipoli con carretto ed un asinello: portava via le sedie rotte e le riportava dopo qualche settimana rimesse a nuovo. Anche costui si faceva sentire attraverso le vie della Città strascicando la parola “lu ‘mpagghiasegge!”.
LI ROBIVECCHI. Erano uomini che andavano in giro col carretto di paese in paese ad acquistare o permutare stracci (da far riciclare nell’Italia autarchica), dando in cambio bicchieri, tazze, pentole ed altre stoviglie casalinghe, oppure soprammobili, fra cui piccoli busti in gesso, porcellana o bronzo, di Benito Mussolini, reclamizzando così: “Mussulini cu li pezze”. Quest’espressione, in quell’Italia sbirraiola, nascondeva a meraviglia il duplice ironico significato dell’Italia fascista ma stracciona e della pochezza di quel tronfio dittatore.
LU SAPONARU. Era colui che acquistava o permutava con oggetti casalinghi la “murga” (morchia, deposito o feccia dell’olio), con cui si produceva sapone nero.
L’AMBULANTE. Era un uomo che, con il carretto pieno di arance, mele ed altro, girava per le vie del paese nel tentativo di guadagnarsi la giornata. Si ricorda un fruttivendolo che, giunto nei rioni più popolari, eccitava così i piccoli: “Chiangiti, piccinni, cusì la mamma bi catta li mele”. Questo frutto era a quei tempi molto prelibato, quasi considerato come… frutto proibito di biblica memoria. Pare che con questo stratagemma l’ambulante raggiungesse l’intento.
LU FURNARU. Il fornaio che, nei forni di pietra e a legna, coceva per conto terzi il pane impastato in casa. Egli, al mattino, di buon’ora, provvedeva a passare da quelle persone che la sera precedente si erano prenotate, rilevava grosse forme di pasta lievitata, le riponeva entro “li taute” (contenitori di legno della lunghezza di un paio di metri, della larghezza di circa 40 cm. con bordi rialzati), trasportata a spalla se una sola, sul carretto se più. Forme di pasta che venivano infornate e, trasformate in odorosi e fragranti pezzi di pane, riportate a casa. Oltre la usuale mercede (un tanto per pezzo), al fornaio, che la sera prima aveva prestato il lievito necessario, si doveva consegnare anche una pagnottella di pasta da far lievitare (e che poi, a richiesta, distribuiva ai clienti). Nei forni a legna, a richiesta dei privati, venivano “nfurnati” anche frise, biscotti, taralli, paste, focacce, fichi secchi, ecc.
LI TABBACCHINE. Le operaie che, a centinaia e centinaia, forse a migliaia, affollavano (era una festa vedere sciamare tante ragazze per le vie della Città, sia all’uscita che all’entrata degli opifici, seguite da tanti giovani che le corteggiavano) i “magazzini” o “frabbiche” di tabacco, una diecina in Nardò, ove provvedevano alla “cernita”, scelta e catalogazione delle foglie, dalle più chiare (per sigarette di lusso) via via alle più scure (per sigarette… popolari), nonché allo scarto del “frasame” (residui di foglie rotte e di tabacco inservibile). Oggi, con l’importazione senza limite dei tabacchi esteri e in special modo americani, la produzione italiana è stata sopraffatta e a Nardò sono scomparsi tutti gli opifici (quel po’ di tabacco ancora prodotto viene portato in altre province), sicché neppure una sola donna svolge tale attività.
LI BANDISTI. In passato, ed in genere in tempo di crisi, nelle nostre zone, gli artigiani erano costretti a svolgere, oltre alla principale attività cui erano addetti normalmente, dei lavori secondari pur di campare con tutta la famiglia. Il barbiere, ad esempio, faceva il cavadenti, “affittava” le sanguisughe per il salasso, vendeva pipe, ecc.. Ognuno si arrabattava come meglio poteva. I falegnami, perciò, i barbieri, i sarti e gli “scarpai” (ciabattini) facevano solitamente anche i “bandisti”, i musicanti in uno dei due complessi neritini, Banda Verde e Banda Rossa, o in altre bande di Comuni vicini. Dedicatisi sin da ragazzi ad apprendere i primi rudimenti musicali, col lungo tempo affinavano ed arricchivano il loro sapere tanto da essere definiti “professori”. Nardò per sua antica tradizione, era una terra assai prolifica di musicanti, una consuetudine che si tramandava spesso da padre in figlio per più generazioni. Non deve però essere un’impressione negativa la circostanza ch’essi venivano adibiti anche all’accompagnamento di cortei funebri, perché il nome di Nardò è rimasto lungamente famoso per le tournèe delle sue bande, anche all’estero.
LI ACQUALURI. Venditori di acqua. Con un carretto e dei grossi recipienti di rame, riempiti nelle poche fontane pubbliche o nei pozzi artesiani, giravano per le vie del paese a vendere acqua a chi era privo di acquedotto (erano pochi a possederlo), di cisterna o di pozzo.
LI LUPINARI. I venditori di lupini giravano per le vie del paese ad offrire quella specie di leccornia salata nel pozzo o nell’acqua di mare, da cui il loro slogan pubblicitario: “La vera marina!”.
LI SALINIERI. I raccoglitori di sale operavano sulle scogliere della nostra marina per raccogliere il sale e venderlo per gli usi familiari. Le Guardie di Finanza, nascoste dietro muretti di campagna o in altri luoghi, cercavano di sorprendere i “salinieri” che, con sacchetti sul portabagagli della bicicletta, trasportavano, per vie traverse, il sale in Città. Le autorità, per stroncare alla fonte questa attività, dettero incarico di rompere, con martello e scalpello, in nome della legge, tutte le conche ove veniva a depositarsi l’acqua marina, creando dei cataletti per far defluire l’acqua che si era depositata o che era stata posta nelle conche. I “salinieri” chiusero, però, con dell’argilla il varco scalpellato e continuarono così la loro illecita attività. Dovevano pur vivere!
LA CARDA LANA. Era una donna che rendeva soffice la lana con due cardi, spazzole, anche meccaniche, con punte metalliche. L’uso più rudimentale era quello di fissare ad una panchetta uno dei due cardi, vi si poggiava sopra della lana spruzzata con qualche goccia d’olio e con l’altro cardo la si “pettinava”, formando poi dei “boccoli” di soffice lana.
LI ‘ASTASI. Erano dei facchini e, in genere, uomini di fatica di infimo grado, dediti solitamente al trasporto di valigie da e per la Stazione Città.
LU PULIMBU. Era colui che, per professione, lustrava le scarpe ad altri. Nei tempi passati in Nardò ve n’erano due e svolgevano la loro attività nella Piazza Principale, sul rialzo fra la Colonna dell’Immacolata ed il Sedile, il Circolo Cittadino. Erano soliti richiamare l’attenzione della gente battendo col legno d’una spazzola sulla cassettina che conteneva vari tipi di crema. La cassettina di legno fungeva anche da poggiapiedi.
LE PREFICHE. Le vendilacrime, donne d’infimo ceto che erano ingaggiate per piangere il morto. Per ricordare le sue qualità e i momenti più salienti della sua vita eccitavano, con grida e lamenti, il pianto disperato degli astanti.
LU ‘ANDISCIATORE. Il banditore. Aveva l’incarico di divulgare nelle piazze della Città (‘andisciare), gridando a viva voce, comunicati della pubblica Autorità, reclami, notizie, ecc.. Nel passato egli si annunciava con squilli di tromba o col suono del tamburo, oppure con l’avvicinare le mani aperte ai lati della bocca a mo’ di megafono. Lo si vedeva anche girare per le vie principali per propagandare prodotti, come, ad esempio, di informare la popolazione che da poco a Gallipoli o a Porto Cesareo fosse arrivato un carico di pesce fresco.
LI COZZALURI. Erano persone che andavano in cerca di lumache, cozze “piccinne”, cozze grosse e cozze munaceddhre, che poi vendevano per le vie del paese.
LI LAMPASCIUNARI. Uomini che raccoglievano dai campi incolti, dissotterrandoli con una zappettino, cipollette selvatiche commestibili e che vendevano poi alla gente.