Due cuori uniti per l’eternità
Francesco Castromediano Sanseverino
Beatrice Acquaviva d’Aragona
Un sigillo d’amore che da quasi quattro secoli sfida la morte e il tempo
di Giuseppe Pascali
Due cuori uniti per l’eternità, sigillo di un amore che da quasi quattro secoli sfida la morte e il tempo. È un posto romantico l’antica chiesa del convento dei Domenicani di Cavallino, il luogo dove trova il suo epilogo la storia d’amore di Beatrice Acquaviva d’Aragona e del marito Francesco Castromediano Sanseverino, primi marchesi di Cavallino.
In questo tempio fatto riedificare dalla bella marchesa Beatrice che un tempo fu la chiesa di famiglia dei Castromediano, nel monumento sepolcrale sormontato dalle statue dei nobili coniugi potrebbero, infatti, riposare i loro cuori, custoditi in due urne, uniti per sempre. Una verità conosciuta nei secoli solo per metà, che potrebbe incontrare il tassello mancante se trovassero conferma le supposizioni degli architetti Giuseppe Fiorillo e Antonio Novembre, i tecnici che hanno curato il restauro della chiesa e che basano le loro ipotesi su quanto riportato nelle «Orazioni funerali» di frate Antonio di Bisceglie, un documento datato 1637 che l’architetto Novembre, quasi per caso, rinvenne circa venticinque anni addietro nella biblioteca «Bernardini» di Lecce.
«All’epoca stavo conducendo uno studio sugli altari barocchi del Salento – racconta Novembre – e trovai per caso questo antico documento. La vicenda era così toccante che pensai di trascriverla: fu quasi un presagio, visto che oggi mi trovo a lavorare al cospetto di questo monumento».
Questa la storia: il 5 agosto del 1637, nel castello dei Castromediano a Cavallino, a soli ventotto anni, dopo dieci anni di matrimonio, spossata da dieci gravidanze e dai travagliati parti, cessa di vivere la bella marchesa Beatrice Acquaviva d’Aragona, sposa di Francesco Castromediano. Il marchese, innamoratissimo della consorte, non riesce a rassegnarsi alla sua perdita; preso da un dolore devastante giura di sigillare quell’amore unendo i loro cuori per l’eternità. Quasi segretamente, don Francesco fa espiantare il cuore di donna Beatrice, donna Bice come la chiamava il suo popolo cavallinese, lo fa riporre in una cassetta di piombo, ricoperta di lastre di argento, a sua volta racchiusa dentro un’altra cassa di cipresso ricoperta di velluto verde listata d’oro e lo fa custodire nel Convento dei frati Domenicani di Cavallino, fino al completamento della chiesa annessa. Qui, un giorno, per sua disposizione, si sarebbe ricongiunto con quello dello sposo. Nel 1663 Francesco muore a Venezia in circostanze misteriose, si dice pugnalato durante un carnevale. Il figlio Domenico Ascanio erige un monumento funebre nella chiesa di famiglia, con le statue dei genitori ritratti nel fiore degli anni, a grandezza naturale, sereni e dignitosi e vestiti alla moda spagnola. E con ogni probabilità al suo interno vi colloca anche i loro cuori, compiendo la volontà del padre.
Antonio da Bisceglie, frate lettore maggiore del convento di san Giovanni d’Ajmo di Lecce, dell’ordine dei Predicatori, nelle sue «Orazioni» stampate a Lecce nel 1637, scrive infatti così: «Lo stesso Santo Patriarca per divina disposizione pose nell’animo del suo Marchese, che del pudico e Regio Cuore, si come fu sempre stanza Reale di quello, così, da odorosi balsami profumati e preservato in una cassa d’argento, nella Chiesa di esso Santo e suo Convento in detta Terra si conservasse aggiungendovi anco, come per pubblica scritta appare che nella di lui morte debba riporsi il Cuor suo nell’istesso luogo, acciò stiano congiunti quei due cuori nel medesimo tempio in Terra, insegno che le loro due anime beate nel Tempio del Cel, sotto la bandiera di detto Santo staranno eternamente uniti».
C’è poi un particolare che potrebbe avvalorare questa ipotesi: le due statue, che sembrano tenersi per mano, in realtà stringono insieme un oggetto: è un cuore. Verità storica o solo una supposizione?
«Di certo c’è che è una storia bellissima – sottolinea l’architetto Fiorillo – che solo un’indagine radiografica sul monumento potrebbe avvicinarci; ma questo necessiterebbe di finanziamenti ad hoc».
E c’è una strana curiosità: sono tante le coppie di giovani fidanzati che, senza conoscere questa storia, scelgono la chiesa del convento, al cospetto delle statue di Beatrice e Francesco poste dietro l’altare maggiore, per pronunciare il loro «sì». Una semplice combinazione? Chi scrive ha voluto rendere nota oltre i confini locali questa storia singolare, narrandola in affabulandola con il romanzo «Il sigillo del marchese», edito per i tipi di Lupo Editore in cui, con un giusto equilibrio tra verità storica, leggenda e fantasia, personaggi reali e frutto di fantasia prendono vita per narrare questa affascinate vicenda, sullo sfondo di una Lecce martoriata dalla peste.
Questa la trama del romanzo: Caballino, borgo a pochi passi da Lecce, agosto 1637. La bella marchesa Beatrice Acquaviva d’Aragona, donna pia e devota, stremata dal suo nono parto muore a ventotto anni, lasciando nello sconforto il marito, il marchese Francesco Castromediano, e i popolani che l’avevano adorata per i privilegi che aveva concesso al paese come feudataria. Innamorato fino alla follia della moglie e convinto che neanche la morte potesse porre fine alla loro unione, in preda alla disperazione una notte il marchese pensa ad un gesto che potrà immortalare il loro amore nelle pagine della storia. Con la complicità di padre Bonaventura, priore del convento dei frati Domenicani, e di padre Bernardo, cugino di Beatrice, il marchese mette in atto il suo piano, consegnando a suo figlio primogenito di nove anni Domenico Ascanio il segreto di un gesto che conoscerà e dovrà svelare solo alla morte del padre. Nel frattempo, le oscure mire di don Pietro Altomonte, signorotto leccese senza scrupoli, si abbattono sul feudo di Caballino per strapparlo ai Castromediano, una sete di vendetta alimentata dall’essere venuto a conoscenza di un “segreto” del marchese. In una Lecce martoriata dall’epidemia di peste, tra colpi di scena, venature esoteriche ed essenze di vita monastica la storia riserverà, ventisei anni dopo il suo prologo, un incredibile finale.
Ma chi erano i marchesi Castromediano? Francesco Castromediano e Beatrice Acquaviva, ecco chi erano i primi marchesi di Cavallino. Appassionato di equitazione ed esperto nell’uso delle armi, don Francesco (1598 -1663) fu capitano nell’esercito di re Filippo IV di Spagna. Giovane valoroso, orgoglioso delle prerogative feudatarie, segnò l’epoca più splendida del casato dei Castromediano del ramo cavallinese. Nel 1627 sposò Beatrice, figlia diciottenne di don Giovanni Acquaviva d’Aragona dei conti di Conversano e duchi di Nardò, un matrimonio solenne i cui festeggiamenti durarono per un’intera settimana e interessato l’intero paese. La giovane e bella Beatrice che aveva portato con sé da Napoli, dove era stata educanda al convento di San Marcellino, una speciale devozione per san Domenico di Guzman, convinse il marito a includere nei progetti edilizi che avrebbero interessato Cavallino anche la realizzazione di un convento in cui ospitare i padri Domenicani (oggi sede dell’Università di Lecce).
L’adiacente chiesa fu eretta sullo stesso sito della vecchia cappella di san Nicolò e intitolata allo stesso santo e a san Domenico. Contemporaneamente il marchese Francesco Castromediano portò a termine la costruzione di un’altra ala del castello e realizzò la splendida Galleria (recentemente restaurata dalla Provincia di Lecce e recentemente, dopo essere stata concessa in comodato d’uso al Comune di Cavallino, è stata donata allo stesso da parte dell’Ente di Palazzo dei Celestini). Il marchese Castromediano poté assumere e affrontare tali onerosi impegni finanziari tenendo conto che il materiale da costruzione, la pietra leccese, gli proveniva gratuitamente dalle sue cave del «Sediolo» e del «Pigno»; inoltre, i conci di ogni taglio e misura (pezzotti, parmi, uccetti, chianche) li faceva estrarre dai propri servi cavapietre e li faceva trasportare ai cantieri dai propri servitori carrettieri per mezzo dei propri carri e cavalli. La costruzione del convento e della chiesa conventuale durò dall’anno 1626 al 1635 (pochi anni prima i Leccesi avevano costruito la barocca basilica di Santa Croce e l’attiguo convento dei Celestini), e, a lavori ultimati, i due edifici furono affidati ai Padri Predicatori dell’Ordine dei Domenicani, ai quali, inoltre, come sostentamento il munifico Marchese concesse il privilegium di riscuotere la decima sui cereali, olive, uve, legumi e fichi raccolti nel feudo di Caballino. Il convento fu abitato per 180 anni da una decina di monaci domenicani tra frati sacerdoti e frati conversi, fintantoché l’Ordine religioso con editto di re Gioacchino nel 1808 non fu soppresso e il convento confiscato. La marchesa Beatrice infine, volle fornire i sudditi cavallinesi di una fonte pubblica di acqua potabile, facendo realizzare il pozzo circoscritto da quattro colonne e sormontato dalla statua di san Domenico, che assunse a patrono del paese.