Gioacchino Toma, indagine a cavallo di due secoli
– da Sofia Stevens alla Scuola Salentina –
di Massimo GALIOTTA
Descrivere la figura di Gioacchino Toma è un compito decisamente complesso e, come spesso avviene in questi casi, non si può farlo scindendo dall’artista l’uomo. Così com’è necessario comprendere la situazione storica in cui Toma si inserisce, è altresì utile capire quale uso fare delle numerose fonti bibliografiche disponibili. A tal proposito è essenziale, ai fini di una migliore analisi dei testi che a esso fanno riferimento, scrollarsi di dosso il pesante fardello del suo autobiografico “Ricordi di un orfano” relegandolo al ruolo primigenio, che lo stesso autore gli conferì, una raccolta di aneddoti e confidenze indirizzati dall’artista al figlio Gustavo, quale monito a non darsi mai per “vinti” di fronte alle dure prove della vita. Data alle stampe per la prima volta nel 1886, questa pubblicazione costituisce un nucleo di memorie che il padre scrive al figlio prima di morire, e allo stesso tempo la prima fonte bibliografica alla quale attingerà la critica dell’arte che si distinse per quell’approccio per certi versi appesantito da pregiudizi e stereotipi, per altri da un atteggiamento ostile all’opera sua.
Esaminiamo ora la figura di Gioacchino Toma, cercando di capire come si fece artefice (caposcuola) di un movimento artistico che oggi possiamo definire “Scuola Salentina”. Giunto a Napoli nel 1856, all’età di vent’anni Toma iniziò a inserirsi nell’organizzazione sociale e artistica dell’allora capitale del Regno Borbonico; ampia la narrazione in merito da parte della critica dell’arte che, sin dai primi anni del Novecento, iniziò a indagare nel vissuto e nella poetica dell’artista, senza mai approfondire veramente la situazione socio culturale dell’epoca e di cosa si nutrissero le menti dei giovani intellettuali che in quegli anni raggiungevano Napoli per motivi di studio.
Ne parla in maniera esaustiva il Prof. A. L. Giannone[1] nel suo libro “Scrittori del Reame, Ricognizioni meridionali tra Otto e Novecento”, (Pensa Multi-Media, Lecce, 1999). L’autore parlando della poetessa gallipolina Sofia Stevens (che non a caso visse la sua esperienza formativa, parallelamente a Toma, tra Galatina e Napoli) analizza l’ambiente formativo di quel periodo e ci illumina sulle reali fonti d’ispirazione della poetica del tempo:
«Pubblicati postumi a Napoli nel 1879, i Canti racchiudono l’intera produzione poetica di Sofia […], composte presumibilmente tra il 1860-61 e il 1876. La Stevens infatti, nata a Gallipoli nel 1845, incomincia a scrivere versi […] intorno ai quindici – sedici anni, […] e termina l’anno stesso della sua morte, il 1876. […]. In quel periodo, […] si era affermato un genere di poesia basato sulle facili effusioni sentimentali, sull’inclinazione al patetico, al sogno, all’evasione […]. Ebbene, le composizioni della Stevens riflettono fedelmente questa situazione. Della poesia tardoromantica sono presenti infatti, nel suo libro, i temi più tipici, quali l’amore, la famiglia, la natura, la religione, la storia, la patria […].
Ma per completare il quadro dei riferimenti principali […], occorre aggiungere anche il nome di Giacomo Leopardi, che godeva già di ampia risonanza in quel periodo, soprattutto nel Meridione. Ovviamente, l’aspetto della poesia leopardiana che più la colpiva, come succedeva del resto a tanti altri lettori del tempo, era quello “idilliaco” […], della meditazione sulla condizione umana.
Non c’è dubbio che un’importanza decisiva sulla formazione della giovane Sofia abbia avuto il periodo passato a Napoli, dal 1856 al 1860».
Ecco il quadro storico nel quale vive e opera Gioacchino Toma, in sostanza contemporaneo dell’esperienza della Stevens. Chiari e univoci i riferimenti culturali e sociali che Giannone traccia nel suo saggio sulla poetica e sugli autori che segnarono culturalmente il nostro sud: tematiche ricorrenti e influenze leopardiane che descrivono perfettamente la cifra artistica del Toma. Nonostante ciò la critica nei suoi confronti non fu mai troppo morbida e nel tempo, Toma, di detrattori ne ebbe molti, tutti pronti a dipingere un profilo dell’artista non veritiero: M. Uda, R. de Zerbi e il barese F. Netti sono solo alcune voci della critica avversa. L’epiteto più ricorrente fu e lo è ancora oggi «Toma pittore del grigio», oppure, con riferimento alla sua infanzia travagliata, di «artista (che) appartiene alla categoria delle vittime del destino, dei confinati della vita[2]». Francesco Netti nella sua rubrica sull’«Illustrazione italiana» commenta, nell’Esposizione dell’anno 1877, le opere presentate da Toma alla mostra, Il viatico dell’orfana e La guardia alla ruota dei trovatelli, valutando così la sua arte: «La sua pittura è debole come plastica; ma per lo più, se non sempre, si accorda coi soggetti che tratta. Soggetti tristi, melanconici, pittura scolorita, timorosa, quasi sofferente[3]»; ma dal saggio di Giannone emerge che fu ben altro a muovere la produzione artistica degli autori di allora.
Non è tutto, in quegli anni, dal punto di vista stilistico imperversava a Napoli «la moda coloristica, scaturita dal facile successo mondano di Fortuny a Parigi (questa) era stata conosciuta a Napoli pel tramite dei negozianti parigini che si recavano in Italia per acquistar dipinti, con autorità di mecenati[4]». L’influenza esercitata dal pittore Mariano Fortuny con il suo modo appariscente di “colorire” condiziona gli artisti e gli accademici napoletani, e su tutti il caposcuola Domenico Morelli. Gioacchino Toma si allontana dai dettami di questi autori e sviluppa una propria idea dell’arte che trovava i suoi fondamentali nel caravaggismo (l’uso della luce tagliente, del chiaro-scuro e di un’attenzione quasi ossessiva per i raggruppamenti di persone) e negli studi condotti da J. W. Goethe sulla luce e il colore. Goethe pubblicò nel 1810 il suo studio empirico sugli effetti che luce e percezione del colore hanno sull’occhio umano affermando alcuni principi ravvisabili nelle opere di Toma e del suo allievo Giuseppe Casciaro. Sarà Goethe per primo, nel suo saggio “La teoria dei colori”, ad affermare che: «Solo il contrasto simultaneo rende il colore idoneo a un impiego estetico[5]». Alla base dei suoi esperimenti c’era l’uso del colore grigio. Questi studi furono ripresi negli anni ’60 del Novecento dallo svizzero J. Itten che nel suo “Arte del colore” parla di «equilibrio armonico» e avvalora le teorie ottocentesche di Goethe sull’importanza del grigio definendolo colore dell’armonia, di equilibrio tra le forze: «due o più colori sono armonici se la loro combinazione da un grigio neutro[6]». Entrambi gli autori affermarono l’importanza del grigio negli equilibri e nei contrasti cromatici e parafrasando Itten possiamo concludere che Gioacchino Toma non fu pittore del grigio ma dell’armonia e dell’equilibrio, della “simmetria di forze6”, in buona sostanza un pittore della luce.
È chiaro che il vissuto del Toma lo rende particolarmente sensibile alle tematiche sociali del suo tempo, ed è evidente che la sua frase, che R. Causa giudicò millantatoria[7], «[…] e, datomi presto alle letture, lessi in quel tempo quanti libri potetti aver per le mani[8]» non fu casuale. Egli studiò approfonditamente la prospettiva, lo racconta nella sua autobiografia, e studiò l’uso della luce e del colore in modo maniacale, ne lascia traccia nei suoi quadri. Sancisce la propria autonomia sin dal 1864, quando con l’opera “Un rigoroso esame del sant’uffizio” conosciuto anche come “Tribunale dell’Inquisizione” dichiara apertamente il suo credo artistico, fatto dalla leopardiana meditazione sulla condizione umana, dei «temi più tipici [ibidem][9]», dall’uso tagliente della luce e degli effetti chiaroscurali, nonché dall’uso sapiente della prospettiva. Da questo momento in poi Gioacchino Toma darà il via alla sua idea di arte e lo farà dai banchi delle numerose scuole che egli stesso fondò e dal 1878 da quelli dell’Accademia di Belle Arti napoletana. È proprio in questi anni, grazie alla stretta collaborazione con il Prof. Paolo Emilio Stasi, già suo amico e allievo, Toma “inizia all’arte” i numerosi artisti che giungevano dal Salento inviati dallo stesso Stasi, professore di disegno presso il Liceo Capece di Maglie. Primo a giungere “verso la fine del 1879[10]” fu Giuseppe Casciaro da Ortelle, accolto e incoraggiato dal Toma a proseguire sulla strada intrapresa. Alla Promotrice del 1888 «[…] ove espose dodici paesaggi del genere fatti nella nativa terra di Puglia […] anche Toma gli fece i suoi elogi: anzi ne rilevò la perspicacia e la finezza di esecuzione. Mi dice – annotò Casciaro nel suo taccuino – che ho buona lente. Mi incoraggia9». Inoltre si trova traccia dei forti legami tra Gioacchino Toma e il Salento in una lettera di raccomandazioni che il pittore scrive all’Accademia di Belle Arti di Napoli per “attestare la preparazione artistica” dei giovani salentini inviati da Stasi: «Certifico io qui sottoscritto Professore insegnante in questo Istituto di Belle Arti, che il Prof. Sig. Stasi Paolo Emilio del Ginnasio Convitto Capece in Maglie, avendo molto ben preparati nel disegno elementare di figure e ornato i Sig.ri Casciaro Giuseppe, di Ortelle, Giannelli Errico, di Alezio, Palma Domenico e La Noce Egidio di Maglie, questi chiesero di ottenere l’ammissione all’alunnato dell’Istituto medesimo e furono iscritti alla classe immediatamente superiore a quelle degli elementi, e tutti quattro in breve tempo conseguirono il titolo di Patente d’abilitazione allo insegnamento del disegno nelle scuole tecniche normali e magistrali del Regno[11]». Con la sua arte e con questo modus operandi autentico, sempre attento agli altri, Gioacchino Toma scaverà un profondo solco che condizionerà la poetica degli artisti suoi conterranei. Solco stilistico che Giuseppe Casciaro allargherà ulteriormente, dopo la scomparsa di Toma, con la sua lunga attività di pittore e di professore all’Accademia di Belle Arti di Napoli dove, anch’egli in contatto con Stasi, continuerà a ricevere e preparare i giovani promettenti dell’allora lontana provincia salentina. Casciaro, infatti, sarà raggiunto a Napoli da molti nomi noti: Michele Palumbo da Calimera[12], Giulio Pagliano da Gallipoli, Vincenzo Ciardo da Gagliano del Capo e tanti altri ancora. L’ampia narrazione paesaggistica salentina continuerà negli anni che vanno dalla morte di Vincenzo Ciardo, nel 1970, fin quasi a ridosso del XXI Secolo, grazie ad una nutrita schiera di pittori salentini operosi soprattutto nel capoluogo, la città di Lecce. Paesaggi e marine, nature morte e scene di genere, ritroveranno in questi autori il fil rouge della propria identità artistica territoriale che nasce sulle colonne portanti di Toma, Stasi, Casciaro, Palumbo, Pagliano e Ciardo, vale a dire dei grandi maestri della “Scuola Salentina”.
[1] A. Lucio Giannone è professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento, autore di numerosi libri;
[2] F. Geraci, Gioacchino Toma, in “Iapigia” II, pp. 192-200, 1931;
[3] L. Palma, La Real Casa dell’Annunziata, Atti XVII congresso ADI, Adi editore, Roma, 2014;
[4] A. De Rinaldis, Gioacchino Toma, A. Mondadori Editore, Milano, 1934;
[5] Johann Wolfgang von Goethe, La teoria dei colori, il Saggiatore, Milano, 2008;
[6] Johannes Itten, Arte del colore, edizione ridotta, il Saggiatore, Milano, 2010;
[7] R. Causa, in Bollettino d’Arte, G. Toma, supplemento al catalogo della mostra, Napoli, 1955;
[8] Gioacchino Toma, Ricordi di un orfano, Tipografia Pontieri e Velardi, Napoli, 1898;
[9] A. L. Giannone, Scrittori del Reame – Ricognizioni meridionali tra Otto e Novecento, Pensa MultiMedia, Lecce, 1999;
[10] A. Schettini, Giuseppe Casciaro, Morano Editore, Napoli, 1952;
[11] P. A. Vetrugno, Paolo Emilio Stasi Pittore, in Amaltea Trimestrale di cultura, anno VII/numero uno, marzo 2012;
[12] M. Galiotta, Michele Palumbo e la Scuola Salentina, in “la Kinita” periodico di politica, satira e cultura, n° 51, Calimera 7/2018;
[13] Luigi Galante, Lettere inedite tra Gioacchino Toma e Pietro Cavoti, cit., Lettera di Toma a Cavoti del 1874, da Napoli.