Franco Cudazzo
un artista da non dimenticare
di Antonio Stanca
Mi sono particolarmente commosso nel leggere il manifesto annunciante il decesso, all’età di 82 anni, dell’amico Franco Cudazzo, scultore, pittore e incisore, nato a Galatina il 17 maggio 1938, ospite presso la Casa di Riposo ‘Giovanni Paolo II’ di Soleto, ultima sua residenza dopo essere scampato miracolosamente al contagio del Covid 19, che nella precedente RSA, dov’era ricoverato, aveva ucciso 23 anziani.
Ha abbandonato la vita terrena nell’ospedale di Galatina sabato 8 agosto 2020. Il giorno successivo, dopo il rito funebre con poche persone nella chiesa di S. Biagio, è stato tumulato nell’edicola funeraria delle famiglie Vitellio-De Paolis del cimitero di Galatina.
Alcuni giorni dopo ho avvertito l’impulso di fare qualcosa – ed ecco le ragioni di questo mio articolo – per sensibilizzare i suoi famigliari ed eredi, il Sig. Sindaco, l’Assessora alla cultura, il responsabile del Museo Civico, i frati del Convento di S. Caterina e l’opinione pubblica allo scopo di salvaguardarne la memoria e, soprattutto, di evitare la dispersione o l’incuria del patrimonio artistico, da lui prodotto in sessant’anni di lavoro e quasi interamente conservato nel suo ultimo laboratorio galatinese, in Via dei Romani, 4.
Si tratta di centinaia di sculture a tutto tondo e a bassorilievo, realizzate in argilla, gesso, stoffa, spugna, legno, marmo e pietre varie, di pitture su tela e cartoncino e, in misura minore, di stampe numerate, ricavate da incisioni su lastre. Non mancano bozzetti, disegni, appunti e riflessioni sull’arte.
Quest’immensa raccolta cominciò a formarla partendo dall’abitazione della sua famiglia in Via Grotti, 21 e ad ampliarla di volta in volta nei vari Studi, in genere case vecchie e umide, affittate nel centro storico. Ed ecco le tappe di questa peregrinazione: Piazza Vecchia, 22, 1° P., di fronte alla Casa di tolleranza di Rosetta e, dopo, in un altro a P.T., s.n., in un vicoletto vicino, Via A. Vallone, 36, Via Umberto 1°,19, Via Del Balzo, 20, infine, dal 1999, Via dei Romani, 4.
Iniziò il suo percorso scolastico e formativo negli anni Cinquanta: dopo le Elementari, frequentò per cinque anni la Sezione ‘Lavorazione del legno’ della Scuola d’arte di Galatina, in Via Monte Grappa, per un anno la Sezione ‘Decorazione pittorica’ dell’Istituto d’arte di Lecce e, infine, tornò nel ’61 nella scuola galatinese, divenuta intanto Istituto d’arte e trasferita nel nuovo edificio di Via G. Martinez, 4, per conseguire il titolo di Maestro d’arte nella Sezione ‘Scultura’.
Dopo il diploma, si recava spesso in visita negli Studi dei suoi ex docenti: il pittore e incisore Luigi Mariano, il restauratore Giovanni Pulcini e lo scultore Umberto Palamà, il quale gli procurò il primo incarico d’insegnamento come assistente nella scuola d’origine.
Prima di diplomarsi aveva svolto il lavoro di falegname presso la bottega in Via Turati, 16-18, del valente artigiano Antonio Sforza, suo zio. Qui, dove andavo alla fine degli anni Cinquanta per farmi costruire dei robusti pannelli di legno, adatti alle composizioni polimateriche, lo conobbi e da allora ci siamo sempre tenuti in contatto.
Spesso m’invitava nei suoi Studi per mostrarmi le nuove opere prodotte e per conoscere il mio giudizio. Erano ambienti suggestivi: le sculture, dislocate con un certo gusto e illuminate dai faretti, divenivano personaggi inquietanti e teatrali. Non mancava mai un salottino, con accanto le riviste d’arte, i settimanali, i romanzi di Dostoevskij, di Gide e di altri autori, un giradischi con LP di musica classica con sinfonie di Wagner e di Beethoven e sulle pareti tanti disegni personali e foto della sua fidanzata ideale e virtuale, Claudia Cardinale.
Nell’estate del ’62, quando aveva 24 anni, non avendo mai esposto in pubblico, mi pregò di fare una mostra insieme. Io avevo già all’attivo varie esposizioni ispirate all’Informale e stavo maturando l’idea, concretizzatasi poi nel ’63, di non farne più e di realizzare un quadro-manifesto per affermare il tramonto del ruolo dell’artista e dell’opera d’arte e per auspicare il trasferimento della creatività in campi operativi più concreti, quali ad esempio il design. In tale decisione ero stato influenzato da alcune teorie, incentrate sul rapporto tra Arte e Vita, predicate dall’amico scultore Umberto Palamà. A quell’epoca le sculture di Franco erano figurative, ispirate alla tradizione romantica, oppure molto stilizzate. Le ritenevo incompatibili con le mie esaltazioni materiche e gli dissi quindi di no. Non si arrese e dopo qualche mese mi fece la sorpresa di poter ammirare nuovi lavori: straordinarie sperimentazioni pittoriche, basate sulla sgocciolatura e spandimento d’inchiostri su carta bagnata e lastre di gesso con rilievi materici e buchi. Voleva dimostrarmi che era pronto per la collettiva, che aprimmo al pubblico galatinese il 30 settembre 1962 nell’ampio locale, al n. 65 di Piazza Alighieri, con grande afflusso di pubblico ma con poca comprensione e accettazione.
Dopo la sua prima mostra sospese per due anni l’attività artistica per prestare servizio militare a Bologna. Al rientro, avendo perso l’incarico d’insegnante, tornò al lavoro in varie falegnamerie per poi costituire ne ‘66, insieme all’amico Salvatore Mariano, il gruppo GALAS (Gruppo Artistico Liberi Artisti Salentini), ampliatosi con l’adesione successiva di Donato Cascione e Gerardo Caprioli. Essi, bravi Maestri d’arte, produssero una serie di originali oggetti d’arredamento, caratterizzati dall’utilizzo di rilievi di rame a sbalzo, resi pittoricamente tanto pregevoli mediante l’applicazione di acidi particolari, da ottenere premi in varie rassegne. Per l’esecuzione dei manufatti utilizzavano la vecchia casa di Vico S. Biagio, 21, mentre per il punto-vendita, affidato a Gerardo, avevano affittato un piccolo monolocale al n. 49 di C.so Garibaldi.
Nel ’67 riprese ad insegnare, ma continuò per qualche anno ancora a partecipare alle mostre organizzate dal gruppo, che comunque si scioglierà gradualmente. Proseguirà la sua ricerca espressiva, svolgendo in contemporanea l’attività d’insegnante negli istituti ad indirizzo artistico di Galatina e Lecce. Si unirà in matrimonio con Francesca Carrozzini e diventerà padre di Alessio e Vanessa.
Riassumendo l’iter cronologico della sua produzione, l’ha così suddiviso: il ‘Figurativo’ (1955-59), influenzato dagli artisti Gaetano Martinez, Vincenzo Gemito, Medardo Rosso e Giacomo Manzù, l’Astratto figurativo’ (1960-61), lo ‘Spaziale’ (1962-68), influenzato da Lucio Fontana, l’Ecologico’ (1969-79, le ‘Pietre e le terre’ (1980-89), gli omaggi a ‘Francesco d’Assisi’ (1990-2000) e, infine, ‘Artificio e Natura’.
Ha esposto in numerose mostre in varie località salentine, tra cui Galatina, Gallipoli, Collepasso, Aradeo, Salve, Tricase, Lecce, Taranto, Torre Santa Susanna, Carmiano, Martano, Calimera, Maglie, Soleto, S. Vito dei Normanni, Otranto, Nardò, Corigliano d’Otranto, Tuglie, Cursi, Brindisi e in altre città italiane: Bari, Trieste, Venezia, Como, Borgo d’Ale (VC) e Roma. Gradiva, inoltre, ricevere nel suo laboratorio turisti e scolaresche. Rossano Marra, direttore de ‘Il Galatino’, gli ha riservato ampio spazio sul N. 12 de ‘Il Titano’ del 26 giugno 2018, pubblicandogli le note biografiche e critiche, corredate dalle foto di 39 opere e da una bella intervista a cura dello scrittore Gianluca Virgilio.
Era orgoglioso di ricevere premi e giudizi lusinghieri di critici d’arte e studiosi, tra cui: Giovanni Amodio, Antonio Antonaci, Carlo Caggia, Nicola Cesari, Mario De Marco, Padre Antonio Febbraro, Pietro Liaci, Tonino Miccoli, Mario e Massimo Montinari, Umberto Palamà, Domenica Specchia, Antonio Stanca e Gianluca Virgilio. Essi gli hanno riconosciuto il merito di aver già intuito negli anni Settanta la gravità dell’inquinamento e della violenza verso la natura e di aver tentato con i suoi mezzi visivi di sensibilizzare l’opinione pubblica, esponendo provocatoriamente sculture in spugna e stoffa bruciacchiate, raffiguranti uomini piante e uomini smembrati, oppure disegnando uccelli feriti e, talvolta, esposti dal vivo. Hanno rilevato la sua identificazione con Francesco d’Assisi, che modellava con le mani e i piedi identici ai propri. L’artista vedeva nel Santo il candido cantore della natura e quindi un antesignano dell’ecologia. Io ritengo che tale identificazione non sia riconducibile soltanto all’affinità col tema ecologico, ma investe e comprende tutta la sua dimensione esistenziale. Nell’Assisiate, che predicava la povertà e che praticava una religiosità semplice e autentica, osteggiato e incompreso dai contemporanei, ritrovava le sue amarezze e delusioni provate non solo verso le ingiustizie e le storture della società moderna, ma, anche, verso la sua stessa vita infelice. Pensava, ad esempio, di aver rappresentato in modo artistico e originale il Santo ed era convinto di poterlo agevolmente collocare nel vicino Convento francescano o nel Museo Civico, ma si è visto rifiutato. Continuava a sperare invano sino agli ultimi giorni in un’accoglienza almeno ad Assisi o a Roma, dove il nuovo Papa, aveva scelto di chiamarsi Francesco.
Analizzando le sue interpretazioni del ciclo delle ‘Pietre e terre’ ho ammirato come egli sia riuscito a metabolizzare così bene le tracce dell’Informale, da riscoprirlo nella natura circostante: al gesso bianco per le sculture e ai pigmenti di colore per le pitture, provenienti da altre regioni geografiche, ha sostituito le rocce e le terre del suo Salento.
Nonostante producesse tanto, ben pochi erano gli acquirenti. Le sue condizioni di salute non erano delle migliori e varie patologie lo affliggevano. Era un uomo molto sensibile e riflessivo, un gran lavoratore, semplice ed onesto, talvolta un po’ ingenuo, scarsamente loquace, ma che non esitava a dissentire quando una tesi non lo convinceva. Sul piano religioso si definiva cristiano, su quello politico simpatizzava per il socialismo. I colleghi e gli allievi lo stimavano molto per le doti umane e artistiche.
Ad incrementare il suo pessimismo di fondo hanno inciso parecchio alcune lunghe e tristi vicende famigliari. Una persona quindi sfortunata e delusa, ma che trovava nell’attività artistica una ragione valida per continuare a vivere e che nelle opere riusciva a sublimare il suo dramma esistenziale in messaggio universale.
Un giorno, a metà degli anni Sessanta, mi mostrò una frase che aveva scritto su un foglio. Oggi quelle parole, dopo il suo addio, mi appaiono tremendamente profetiche: “Noi lottiamo e ci disperiamo per lasciare agli altri la realtà di un sacrificio umano”.