Prima di entrare nel vivo del discorso, è doveroso fare una breve relazione sulle condizioni di vita della gente salentina nel 1800.
Ricorreva l’anno del Signore 1855 e il sole dardeggiava implacabile sugli uomini e sulle nostre assetate contrade, bruciacchiando i raccolti e rendendo marcescibili e puzzolenti i rifiuti che insozzavano le città salentine, Nardò compresa.
In tali condizioni, il colera di quell’infausta annata trovò facile terreno per moltiplicarsi, esplodendo nella più acuta aggressività maggiormente negli ambienti popolari, ove la miseria, la mancanza assoluta di igiene, la promiscuità e l’incultura albergavano sovrani da secoli, o meglio da sempre, per cui il morbo falcidiò un gran numero di vite umane.
Fra l’agosto e il settembre di quell’anno, ogni giorno si contavano numerosi morti tra lo strazio dei familiari e le grandi paure dei cittadini.
Il numero più alto di decessi si ebbe il 5 settembre con ben ventinove morti, il 3 con ventidue, il 6 e l’8 con venti e così via.
Per la città si notava il continuo andirivieni di carri con il loro carico di morte.
Anche nel nostro Salento si ripeterono le stesse scene narrate dal Manzoni ne I promessi sposi.
La città era completamente traumatizzata dal morbo, i morti, prima di essere condotti al cimitero, giacevano per alcune ore nelle case, se non addirittura per qualche giorno.
Nelle famiglie colpite da un decesso, vi era grande preoccupazione e disperazione, poiché si temeva che un probabile contagio potesse dare inizio ad una serie ben più grave di lutti.
Per tale motivo, gli amici e i parenti dell’appestato, per non essere infettati, evitavano di frequentare quelle case.
I contatti umani tra la gente erano ridotti all’essenziale, gli stessi pubblici locali rimasero chiusi per alcuni giorni, così come le scuole, gli asili e perfino le stesse chiese.
Per tutta Nardò aleggiava la paura e, nei giorni in cui la mortalità segnava il picco, finanche il terrore. La città sembrava disabitata; poche le persone che, fugacemente, attraversavano le desolate vie cittadine, se
non per stretta necessità. Sul selciato risuonavano lugubri le ruote dei carri, accompagnate dal suono lamentoso e cadenzato delle campane, che levavano al cielo i loro tristi rintocchi.
A peggiorare la situazione, già di per sé grave, si sparse tra la gente la notizia che alcuni sciagurati avevano disseminato una malefica polverina che diffondeva il morbo, allo stesso modo degli “untori” di Milano.
Allora, si pensò bene di attaccare sugli usci delle case dei panni bagnati, per impedire che qualcuno facesse filtrare, attraverso le fessure delle porte,
la pestifera sostanza. Addirittura alcuni medici furono accusati di diffondere la malattia per far morire la gente più povera, invisa ai “signori”, che in tal modo intendevano “decimarla”.
La verità, invece, era ben altra.
Infatti, tutto il Meridione era stato abbandonato, oltre che nella più nera ignoranza, in miserrime condizioni socio-economiche.
Specialmente le famiglie più povere vivevano nella sporcizia perenne, in abitazioni umide e malsane, basse, prive d’aria e con poca luce, nella più ripugnante promiscuità, prive dei servizi igienici più essenziali.
Anche nella stessa città difettava ogni cosa: non vi erano fognature, né rete idrica, né era garantito il servizio di nettezza urbana.
Cani e gatti scorazzavano per le strade, sporcando e diffondendo malattie. Non erano da meno le mosche, gli scorpioni, le zecche, gli scarafaggi e, soprattutto i topi, anzi enormi topastri, che erano presenti ovunque, alla spasmodica ricerca di cibo.
In tali condizioni era inevitabile che il colera scoppiasse in tutta la sua più nefasta violenza.
Qualche decennio dopo, l’epidemia fu ricordata come la ”grande vergogna del Salento”.
Il morbo infuriò per circa due mesi, senza risparmiare nessuno. I bambini e i vecchi furono quelli maggiormente colpiti.
Ovviamente chi poteva scappare dai miasmi pestiferi della città lo faceva ben volentieri.
I nobili e i benestanti si rifugiarono nelle loro ville e casine, sparse intorno alla città, soprattutto nella zona di “Mondonuovo”. Questo fuggi fuggi della classe agiata alimentò ancor di più la convinzione popolare degli oscuri disegni dei ricchi, che tramavano a danno della plebe.
Fu in tali circostanze che accadde l’allucinante e, al tempo stesso, grottesco episodio di un certo Francesco Pano, soprannominato “Chiarella”.
Era questi un giovane contadino che abitava in uno dei rioni più miseri della città, “Li Parapuerti”, nei pressi della Porta del Cimitero. Anche costui un giorno si ammalò di colera, morendo dopo poche ore tra tante sofferenze. Fu pianto a lungo dai suoi familiari, poi arrivarono i monatti che lo presero e lo depositarono, alla rinfusa, su di un carro insieme con altri cadaveri, per essere trasportato al vicino cimitero.
La salma del povero “Chiarella” fu riposta, insieme con le altre, nei pressi di un canalone, dentro cui il becchino l’avrebbe inumata l’indomani mattina.
Era il 12 agosto 1855, giorno in cui stava per concludersi, nel modo più ignobile, la vita terrena di questo poveretto.
I familiari ancora stavano piangendo l’immatura scomparsa del caro Francesco, quando all’improvviso la porta di casa si spalancò e, come un fantasma, inseguito dal custode del cimitero, apparve il “Chiarella”, ansimante e pallido in volto come un… morto. Ai suoi familiari, terrorizzati
nel vederlo ed ancora costernati dal profondo dolore, disse a gran voce: “Cce sta’ chiangiti, iò so’ bbiu ‘ncora!”.
“None, none!” – gridava il custode che, tutto trafelato, inseguiva il “Chiarella”.
Nel frattempo il morto redivivo, stretto in una morsa di affetto e di gran stupore, abbracciava la madre piangente di gioia e via via tutti i familiari.
Il custode, nonostante fosse allo stremo delle forze per l’inseguimento, tentò ripetutamente di strapparlo ai congiunti.
“Torna a dretu, tu sii scappatu tuttu muèrtu!…” – gli rimproverava seriamente il becchino – “…Iò t’àggiu scrittu ormai allu liggistru ti li muèrti, t’àggiu purtare a dretu, allu campusantu!… Menamè, sciamu cu ti precu!”.
N.B. Questo non è un racconto di fantasia, ma la storia vera di Francesco Pano, soprannominato “Chiarella”, che si salutò da questo mondo soltanto nel 1904, cioè circa cinquant’anni dopo… il suo primo decesso.
Di questa storia ha parlato, con dovizia di particolari, l’avv. Pantaleo Ingusci nella sua “Storia di Nardò”.
Anche il poeta vernacolare Francesco Castrignanò, nella sua raccolta di “Cose nosce”, gli dedicò una poesia, dal titolo, per l’appunto, “Chiarella”.