Farine di grano e di orzo nell’alimentazione dei salentini
Marcello Gaballo
Il chicco del grano è composto di tre parti essenziali: il tegumento che è l’involucro del seme e dopo la macinazione diventa crusca, l’endosperma, cioè la parte interna del seme che contiene albumine e carboidrati ed il germe, che contiene zuccheri, lipidi e vitamine. Dato che la concentrazione di sostanze biochimiche è diversa nelle diverse parti del chicco, i nutrizionisti raccomandano di usare i grani interi – noi abbiamo sempre mangiato il grano franto come minestra –, perché con l’eliminazione della crusca e dei germi ne guadagna il valore culinario e gastronomico del pane ma si perde irrimediabilmente quello biologico. L’uomo odierno, specie nei paesi occidentali, ha però capito di essere andato troppo in là nella separazione dei vari elementi e tenta ora di restituire al pane i suoi principi naturali o di crearli con l’aggiunta di farine di altri cereali. Ha per questo inventato i pani dietetici. I nostri genitori facevamo il pane con farine miste di grano e orzo.
Ma, come abbiamo accennato, quando non si conosceva la molitura o congiunture particolari la vietavano, mangiavamo anche il grano cotto intero, appena pestato (cranu stumpatu). Si faceva spesso ed una volta tolto dallo stuempu si passava al setaccio (sitella) per burattare la farina d’orzo la cui trama era meno fitta di quella per la farina di grano e la crusca ottenuta era destinata alle galline o in qualche caso sporadico al maiale. Negli anni della seconda guerra mondiale il grano si pestava anche più volte ed ogni volta si passava al setaccio, fino ad ottenere una farina abbastanza fine per fare la pasta. Le donne lo cuocevano, lo condivano con il sugo di pomodoro preparato contemporaneamente a parte, e lo lasciavano insaporire. Poi lo versavano in un tegame alto smaltato (buzzunettu) e lo sistemavano in una sporta di vimini; se lo caricavano in spalla ancora caldo e lo portavano in campagna per il pasto di mezzogiorno. Qualcuno per ricavare la farina per le sagne, da sempre pasta delle feste, o per le pèttule del periodo invernale, anziché il normale pestatoio di legno usava la palamina, un paletto di ferro che nelle cave serviva per preparare i buchi dell’esplosivo. Il grosso mortaio per pestare il grano era detto, e lo è ancora adesso se si trova da vedere, stuempu, un brillatoio domestico scavato nella pietra leccese, dote di molte famiglie contadine. Per inciso, il grano tenero si può cuocere senza pestarlo, basta tenerlo a mollo in acqua pulita per tre, quattro giorni, ma da noi non c’è mai stato.
Il frumento duro ha avuto una notevole espansione in Italia negli anni ’70 a seguito della politica agricola seguita dalla Comunità Europea. Constatato che il consumo di paste alimentari aumentava e che la produzione europea era largamente deficitaria, la CE per ridurre l’importazione ha voluto incentivare la produzione comunitaria di frumento duro.
Questa politica è stata ed è di notevole vantaggio per l’Italia, che è il più grande produttore di frumento duro, e in particolare per le sue regioni meridionali e insulari dove è stata tradizionalmente concentrata la produzione di questo cereale. I contributi comunitari per ettaro, assai superiori di quelli del frumento tenero, hanno stimolato l’espansione della coltivazione del frumento duro dalle regioni dove prima era esclusivamente limitata (Sicilia, Sardegna, Puglia, Basilicata, Lazio e Bassa Toscana) ad altre regioni dell’Italia centrale e finanche settentrionale, in sostituzione del frumento tenero.
Le farine di grano duro sono di colore leggermente giallognolo, più granulose al tatto e sono utilizzate soprattutto preparare paste alimentari e – limitatamente al meridione – alcuni tipi di pane (famoso, per esempio, quello di Altamura). Si trovano spesso in vendita con la definizione di “semolato di grano duro” oppure “sfarinato di grano duro”.
Le varietà di grano duro coltivate nel Salento erano alla fine dell’Ottocento poche. Il più importante era il grano imperatore, diverso dal grano imperadore del Barese dove era detto grano forte o biancolella; nella Capitanata grano grosso e grano meschia; in Terra di Lavoro – la pianura costiera compresa tra i Monti Aurunci ed i Campi Flegrei, percorsa dai fiumi Garigliano e Volturno – grano germanello; nel Molise grano nero, granone, baffone, panella e con altri nomi nelle altre province; ovunque era denominato grano saragolla ed era il Triticum coerulescens. Si coltivava anche il grano calò (il Triticum turgidum); nel Principato Ultra (l’attuale provincia di Avellino) era detto grano bianco; nella Capitanata grano maiellese e con altri nomi era conosciuto altrove. C’era anche il grano forte o biancolella (Triticum turgidum), diverso dal biancolella del Barese ed anche il grano gigantesco di Brindisi e di Bari, che era il Triticum gianteum. I grani teneri erano quasi del tutto sconosciuti e con la stessa varietà, quella che veniva meglio, si otteneva sia la farina per il pone che quella per la pasta.
Il contadino, ma anche l’artigiano, prima di uscire di casa la mattina si riempiva lo stomaco di minestra scaldata con pane fritto e per tirare sera si portava nella bisaccia una mezza pagnotta oppure un paio di friselle da bagnare in una pozza, o con l’acqua che si portava da casa per bere, e lo consumava quasi sempre ‘ssuttu, senza companatico alcuno; talvolta dividendolo anche con una bestiola che gli faceva compagnia. Ed a volte la fame lo costringeva a mangiare quello che aveva prima ancora dell’ora della sosta – di solito mezzogiorno quando suonava ai campanili dei paesi d’intorno, che non andavano mai d’accordo –, per cui quando in un campo c’era gente che lavorava ed altra passava dalla via e salutava, oltre all’incitamento “’llecri!” (siate lieti) con la conseguente risposta “’llecri stamu”, chi passava chiedeva per abitudine e per scherzo: “Avete finito?”, sottintendendo il lavoro in corso, e gli altri, senza nemmeno alzare la schiena, rispondevano: “Sì, lu pane!”. Qualche volta, però, il contadino che stava via da casa dalla mattina alla sera, specialmente d’inverno, si portava una pagnotta tagliata in due e riempita di un intingolo appetitoso fatto di pomodori, cipolle e peperoni essiccati; se la pagnotta era di quelle più grandi, per esempio un panetto di un chilo e mezzo o più, si tagliava in due ed ogni metà si scavava in modo da ricavare due razioni imbottite, due robusti sandwich. Altro che i 200 grammi di pane a testa che gli italiani oggi consumano!
L’importanza del pane è testimoniata anche dal seguente giochino che spesso i ragazzi facevano con le spighe dell’orzo marittimo in primavera. Prendevano una spiga verde, la rompevano a metà e la riunivano tenendola dritta con la mano di un braccio teso e piegato all’insù; poi recitavano la seguente cantilena:
Maria và alla messcia.
No mbogghiu cu nci vò,
tamme nu picca ti pane ca vò.
Nah cce ti tò.
Cranu stumpatu
Gr. 600 di grano, ml. 80 di olio extra vergine d’oliva, sale q.b..
Mettere a bagno in acqua la quantità voluta di grano e lasciarvelo il tempo strettamente necessario per ammorbidire il tegumento (la pellicola esterna del chicco); quindi scolarlo ed asciugarlo grossolanamente con un panno.
Porlo nello stuempu, il grosso mortaio di pietra, pestarlo con la varra, il lungo pestello di legno, si ottiene così il distacco del tegumento da eliminare con un setaccio a maglie larghe.
Cuocere il grano al fuoco di legna, coperto d’acqua e in una pignata tradizionale di terracotta, oppure in una pentola di rame stagnato, salando un po’ prima del termine della cottura e poi condirlo con l’olio crudo.
NOTA – Un tempo, quando la cucina si faceva nel camino, la pignata di creta serviva per cuocere anche gli stufati e la si teneva con la pancia più o meno lontana dal fuoco, a seconda se era necessario tanto o poco calore. Il grano franto si condisce in vario modo, con soffritto d’aglio o cipolla, pane fritto, pomodoro e pecorino, seppie, molluschi, etc.