ORIGINI E SVILUPPO DEL PENSIERO POSITIVO
di GIUSEPPE MAGNOLO
Generalmente con l’espressione“pensiero positivo” si intende la capacità di assumere un atteggiamento fiducioso ed ottimistico nella vita quotidiana, concentrandosi soprattutto su ciò che si può realizzare, su come risolvere i problemi che ci si trova ad affrontare, invece di commiserarsi. Il raggiungimento di una concezione positiva delle proprie esperienze di vita dipende da vari fattori: gli obiettivi che vengono perseguiti, la capacità di motivarsi e creare nuove opportunità, la consapevolezza delle risorsedi cui si dispone e che permettono di controbilanciare le difficoltà, il saper evitare di adottare standard di giudizio troppo elevati, che potrebbero far nascere varie forme di delusione e persino sensi di colpa.
Tutto ciò attiene alla sfera comportamentale, quella parte del pensiero umano che riguarda l’etica, ossia il corretto agire dell’uomo in relazione ai principi che egli accetta di seguire e ai fini che vuole raggiungere. Nel corso della storia sono state elaborate varie concezioni, sia filosofiche che religiose, concernenti la moralità dell’agire umano, che spesso hanno creato divieti e limitazioni alla libertà di azione nell’ambito delle diverse comunità di appartenenza. Tali precetti spesso portavano i tutori dell’ordine ad emettere contro i trasgressori (reali o presunti) severe condanne, da espiare a volte con metodi assai crudeli. In qualche modo il pensiero positivo rappresenta il tentativo di affrancarsi da quello stato di soggezione, guardando alla vita come ad un’opportunità invece di considerarla una ‘valle di lacrime’.
Considerando lo sviluppo della civiltà occidentale, è possibile individuare diversi esempi, anche contrapposti, di etica comportamentale, desumendoli a partire dal mondo classico. Da un lato possiamo pensare all’edonismo che caratterizzava la dottrina dell’epicureismo, indicando nel piacere il fine principale della vita senza porre alcun limite al di fuori della volontà individuale (“tutto ciò che piace è lecito”). Nel mondo romano si considerava centrale il rispetto della legge, concepita nel suo valore universale, ed imposta anche con la forza (“Dura lex, sed lex”). Ben diversa è invece la morale intransigente sostenuta da molte religioni evolute, spesso fatta di comandamenti espressi in forma negativa o coercitiva (“non dire il falso, non desiderare la donna altrui, ricordati di fare questo o quello”, ecc.). È evidente che il porre troppo l’accento su ciò che è considerato proibito ha prodotto l’effetto di enfatizzare gli istinti più perversi dell’animo umano, spesso generando spinte fortemente trasgressive, seguite da tardivi pentimenti e scelte auto flagellanti.
Nel corso della storia possiamo individuare diverse tappe in cui l’uomo ha fortemente cercato di rompere le catene dell’oppressione che condizionavano la sua libertà di azione.Partendo dal ricordare come nel Medioevo il modello comportamentale di vita terrena sostenuto dalla chiesa, allora onnipotente, era la rinuncia in vista di una ricompensa nella vita celeste, constatiamo che solo nel Cinquecento con il Rinascimento si manifesta la volontà dell’uomo di diventare“padrone del proprio destino”, conoscendo, sperimentando, realizzandosi nel mondo dei vivi. Nel secolo successivo, una volta costituiti gli stati moderni su base nazionale, e dovendo definire un fondamento etico per l’organizzazione sociale, Thomas Hobbes nella sua famosa opera Leviathan (1651) indicava nel potere assoluto del sovrano la garanzia di un freno necessarioa contrastare gli appetiti contrapposti dei singoli cittadini (“bellum omnium contra omnes”). Nel Settecento invece sarà l’Illuminismoa ripudiare non solo l’assolutismo, ma anche il misticismo e la morale religiosa, esaltando la ragione contro l’ignoranza e la superstizione, nella convinzione che seguendo i dettami del buon senso si potessero migliorare le sorti di tutta l’umanità.
Naturalmente la fede nella ragione non è di per sé garanzia di ottimismo, dato che proprio l’approccio razionale all’esperienza induce a constatare la frequente irrazionalità di molte azioni umane. Basta scorrere qualche pagina del Candide di Voltaire (1759) per trovare una dura requisitoria contro le tesi del filosofo Leibniz, il quale sosteneva che l’uomo vive “nel migliore dei mondi possibili”. Ma anche dopo aver dimostrato ampiamente la falsità di questa affermazione, Voltaire concludeva la sua opera con la celebre frase: ”Il faut cultiver no tre jardin”. Come dire che, per quante erbacce ci possano essere nel nostro orticello, è sempre possibile adoperarsi per migliorarlo.
Dopo il Romanticismo, contraddistinto da forti slanci ideali seguiti spesso da tristi delusioni, nella seconda metà dell’Ottocento troviamo il Positivismo rivolto ad esaltare lo studiodelle scienze positive, quelle che danno utilità pratica (la fisica, la chimica, le scienze naturali, la geografia) in contrapposizione alle scienze umane (filosofia, teologia, letteratura), considerate astrattamente moraleggianti e prive di effetti pratici. Infine nel Novecento il grande sviluppo della Scienza e della Tecnologia rappresenta in sostanza una reazione alle varie correnti di pensiero astratto e specie alla psicanalisi, una ‘pseudo-scienza’ che rimane spesso irretita nei meandri della mente umana, tentando di sondarne gli impulsi più primitivi ed irrazionali.
Ma perché nella civiltà moderna si è sviluppato un così vivo interesse verso il pensiero positivo, tanto che non solo i libri su tale argomento si susseguono incessantemente con successi editoriali da best-seller, ma ad essi si affiancano anche frequenti conferenze e dibattiti tenuti da esperti in materia, che vengono lautamente compensati? La risposta è semplice: nella cosiddetta ‘società del benessere’ non vi è spazio per lo sconforto, la delusione, il pessimismo, la depressione. Queste condizioni esistenziali vengono solitamente ricondotte a stati patologici più o meno gravi, che si ritiene possano essere diagnosticati e curati con l’uso di correttivi adeguati, che si presume siano in grado di cambiare la prospettiva di vita radicalmente.
Tralasciando i casi più seri, che oggigiorno vengono trattati da psicanalisti con frequenza sempre maggiore, e riportando il discorso nel suo alveo più elementare, si può dire che attualmente le teorie sul pensiero positivo vengono sviluppate ed approfondite in due diversi ambiti: il primo, di matrice psicologica, è basato sulla capacità di condizionare la propria mente in modo da renderla reattiva di fronte alle avversità della vita, inducendola ad operare con finalità utili e positive; il secondo, orientato più in senso fideistico-religioso, è maggiormente rivolto verso l’accettazione dell’esistente, accompagnata dall’apertura alla condivisione e alla solidarietà all’interno del gruppo di appartenenza.
Di fatto va riconosciuto che non vi è situazione, per quanto difficile ed apparentemente priva di prospettive, che non contenga un qualche spiraglio che può permettere di rimotivarsi, e ritrovare le ragioni fondamentali di attaccamento alla vita. Sia che si tratti di delusione di fronte ad aspettative troppo elevate, oppure della fatalistica convinzione di essere vittime del caso o della malvagità umana, non è rinchiudendosi in se stessi che si riesce a ridare senso alla vita. Al di là di qualunque teorizzazione sulle risorse meravigliose insite nel pensiero dell’uomo e sulla sua capacità di esercitare la propria volontà con propositi più o meno esaltanti, un grande insegnamento ci può venire da coloro che prima di noi si sono spesi per gli altri, constatando come non rimanga tempo per recriminare e compiangersi, se l’obiettivo primario è rivolto a sostenere chi ci sta accanto.
Vi è infine un’ultima considerazione che può dare una spinta decisiva verso l’auto realizzazione e l’impiego positivo delle risorse di cui disponiamo, permettendoci davvero di assaporare la vita momento per momento. La esprimeremo attraverso un pensiero espresso da Bertrand Russell (1872-1970), uno dei più grandi filosofi e matematici del Novecento. In un breve saggio egli affermò il suo desiderio di morire “mentre ancora stava lavorando ad un progetto”. Il significato di un tale auspicio è inequivocabile: da un lato il lavoro per un progetto comporta il perseguimento di un obiettivo pratico, il che ha sempre effetti gratificanti; ma al tempo stesso esso crea la consapevolezza che qualcun altro seguirà le orme di chi ha operato in precedenza, facendolo sentire utile e in qualche modo ancora vivo.