Il vecchio cacciatorpediniere San Giorgio, ex Pompeo Magno, modificato in nave scuola a favore degli allievi dell’Accademia Navale di Livorno, diminuì la sua andatura fin quasi a fermarsi. Rallentò per pochi istanti, giusto il tempo necessario per imbarcare il pilota portuale che l’avrebbe guidato sino al molo d’ormeggio, e riguadagnò velocità.
Per l’equipaggio e per i pinguini (così erano soprannominati i cadetti dell’Accademia a causa della loro caratteristica divisa) quel rallentamento fu l’inequivocabile
segnale dell’arrivo a New York.
Tutti raggiunsero il proprio posto di manovra ancor prima che l’ordine fosse impartito e, fatto straordinario, anche meccanici e motoristi si aggiunsero alle sezioni del personale di coperta, tutti rigorosamente in divisa ordinaria e armati di macchine fotografiche e cineprese. Nessuno voleva perdersi lo spettacolo dell’ingresso
a New York in quella soleggiata domenica di luglio del 1973.
Molti addirittura, dopo il turno di guardia, da mezzanotte alle quattro, non erano andati a dormire e avevano atteso quel momento giocando a carte o leggendo nel proprio quadrato, sognando e fantasticando sulle mille avventure, soprattutto “amorose”, che la città avrebbe loro offerto.
Il San Giorgio, navigando impettito sul fiume Hudson, sfilò fra la Statua della Libertà e la Governors Island. Lungo il percorso, al suo passaggio, grandi e piccoli rimorchiatori salutavano con sibilanti suoni di sirena e creavano fontane d’acqua con le pompe antincendio; mercantili, transatlantici e traghetti salutavano ritualmente ammainando la propria bandiera al suo passaggio. I grattacieli di Manhattan scivolavano sul lato dritto facendo da bersaglio agli obbiettivi fotografici e da ripresa, manifestandosi in tutta la loro mostruosa e ardita imponenza. Di questi vi erano due in costruzione, immensi, uguali nella forma, tanto da sembrare gemelli.
Raggiunto il “Pier 92”, il Comandante C. V. Enrico Pasquinucci, grande degustatore di vini, grande nel senso di “a fiaschi”, diede un saggio della sua altrettanto grande perizia marinara al pilota americano e al comitato di accoglienza in attesa sul molo, “parcheggiando” le 4.400 tonnellate del San Giorgio come ogni buon italiano parcheggia la sua “Fiat 500”. L’equipaggio non fu da meno e attese ai suoi compiti in maniera egregia.
Dopo il veloce ormeggio, l’Unità fu ripulita con abbondanti effluvi di acqua dolce dalla salsedine accumulata durante la traversata dell’Atlantico; furono spiegate le “tende dello sceicco”, approntato l’altare e, in ‘tuga’ rappresentanza, imbanditi i tavoli per il party in onore del Console e degli ospiti che avrebbero partecipato alla Messa prevista per le 10.00.
Alle otto precise, il Comandante, in alta uniforme, scese dalla passerella per rendere onore, come previsto dal protocollo, alle Autorità locali. Dopo di lui, ufficiali, sottufficiali, cadetti e marinai “franchi”, vale a dire più di un terzo del personale imbarcato, presero posto sugli autobus per partecipare a gite organizzate; altri furono ospiti a pranzo di facoltose famiglie di italiani, di associazioni italo-americane e della U.S. Navy.
Verso le nove cominciarono ad affluire a bordo gli ospiti, quasi tutti di origine italiana, e non mancarono le scene di pura commozione, quando qualcuno di loro, stringendo e baciando la bandiera italiana che sventolava a poppa, scoppiò in lacrime. C’era sempre qualche cadetto o marinaio che si prodigava a consolare con parole e abbracci il nostalgico emigrante, magari cercando, furbescamente, di ingraziarsi la bella figlia o nipote che lo accompagnava.
Il Comandante rientrò con il Console italiano che porse all’equipaggio, schierato a poppa, il saluto suo e di tutti gli italiani residenti a New York; stilò un rapido elenco dei luoghi da non frequentare perché ritenuti pericolosi. Soprattutto si raccomandò di circolare sempre in piccoli gruppi. Ci informò che, essendo stati catturati in Italia due pericolosi terroristi arabi in procinto di compiere un attentato all’aeroporto di Fiumicino, era reale il rischio di rappresaglia o addirittura di rapimento di qualche allievo dell’Accademia per un eventuale scambio con gli arrestati. Per la verità nessuno diede importanza alla notizia e alle raccomandazioni.
Al termine della Messa, i partecipanti si trasferirono in ‘tuga’ rappresentanza e cominciarono a far lavorare le mandibole facendo man bassa degli appetitosi e abbondanti stuzzichini che gli esperti famigli dell’Accademia avevano preparato. Le gole furono schiarite dal buon Chianti tanto amato dal Comandante che, com’era sua consuetudine, ne fece bere tanto sia al Console, sia alla di lui consorte, sino a farli “sbandare” nell’incedere, mentre “paperino” (il Comandante in II^), rosso in volto per l’imbarazzo, disapprovava sconsolato con ampi movimenti del capo.
Quando tutto fu spazzolato, Comandante, Console e seguito lasciarono la nave salutati con il doveroso “due alla banda” fischiato dai nocchieri e dalla guardia schierata; alcuni ospiti defluirono, altri rimasero a pranzo e l’equipaggio tornò alle normali occupazioni, mentre quelli liberi dal servizio si lanciarono alla scoperta della “Grande Mela”. A me, invece, toccò montare di guardia. Ero intento, insieme con un allievo dell’Accademia e con il piantone a stilare una classifica delle più belle ragazze che salivano a bordo per visitare la nave, quando un armadio a quattro ante con la divisa da poliziotto mi si parò innanzi. L’uomo, con un biascicato “slang”, mi riferì che una telefonata anonima al distretto di polizia n° 49 aveva avvertito che sotto alla nostra nave era stata collocata una bomba.
Avevo capito perfettamente il messaggio conoscendo discretamente l’inglese; aveva compreso bene anche il cadetto, ma chiesi ugualmente al poliziotto di ripetere il messaggio. Questi, con le mani sugli adiposi fianchi, stretti da un cinturone equipaggiato come un arsenale, ripeté lentamente il messaggio, muovendo le labbra carnose come se fossero bicipiti da culturista.
Con calma, per non creare pericolosi allarmismi, soprattutto fra i numerosi visitatori, ordinai all’allievo di chiamare con l’interfonico l’Ufficiale d’ispezione e al piantone di avvisare l’Ufficiale di guardia in Centrale Propulsione, ubicata a pochi metri da noi.
I due ufficiali strabuzzarono gli occhi increduli nell’apprendere la notizia, che fu confermata dal poliziotto. Dopo qualche istante d’incertezza s’impartirono gli ordini previsti nei casi di emergenza.
I visitatori furono pregati di lasciare la nave insieme agli allievi e a tutto il personale non impegnato nelle operazioni di sicurezza.
La squadra antincendio chiuse la portelleria stagna orizzontale e verticale, fece evacuare tutti i locali e armò le pompe di esaurimento, mentre io, unico sommozzatore presente a bordo in quel momento, mi apprestai ad immergermi per ispezionare lo scafo.
Dieci minuti dopo l’allarme con una perfetta capriola saltai giù dal gommone e affondai nelle acque dell’Hudson. Ci vuole tanta, ma proprio tanta immaginazione per definire acqua quel liquido nero e immondo che bagna New York, specialmente per un salentino come me, abituato alla limpidezza del suo mare.
I raggi del sole alle tre e mezzo di pomeriggio del mese di luglio non riuscivano a penetrare oltre uno scarso mezzo metro; anche l’impiego della torcia subacquea si rivelava inutile. Per effettuare la ricerca del dannato ordigno non mi rimaneva altro che usare il tatto, sfruttando al massimo il senso di orientamento e la minuziosa conoscenza dello scafo maturata in tante immersioni.
Iniziai a tastare il timone di dritta come un cieco che cerca un oggetto su un tavolo, lentamente, cercando di mantenere la calma per non andare in affanno ed in confusione, imponendomi un ritmo respiratorio lento. Passai ad ispezionare le pale dell’elica di dritta e il suo lungo asse; le stesse operazioni furono ripetute con gli elementi di sinistra. Il tempo trascorreva inesorabile: non vedevo lo scafo, avvertivo solo la sua oppressiva presenza su di me, lo sfioravo con le mani cercando l’oggetto estraneo, memorizzavo la mia posizione sfruttando la conoscenza dell’ubicazione delle serrette di aspirazione, la chiodatura dello scafo e i tratti percorsi nelle tre dimensioni.
Raggiunsi lentamente le lunghe alette antirollio, riconobbi al tatto i grossi pani di piombo che assorbono le correnti galvaniche, poi, al centro della chiglia, raggiunsi la grossa cuffia del sonar e il solcometro. Ad ogni metro m’imponevo la calma, mi chiedevo quanto tempo era trascorso e se mi era sfuggito qualcosa; cercavo di non pensare alle conseguenze di un’eventuale esplosione, quando, all’improvviso, avvertii uno strano rumore.
Il lento ritmo respiratorio, frutto di intensi allenamenti, divenne apnea. Muovendomi come un felino mentre si avvicina alla preda, cercavo nel buio la fonte del rumore che man mano assumeva le caratteristiche di un ticchettio. Quel suono mi ricordava la rumorosa sveglia che troneggiava sul comò di casa; sì, era il rumore di un orologio meccanico, ne ero certo, proveniva dall’interno dello scafo. Emersi lentamente e sorreggendomi al gommone informai le quattro persone che da bordo seguivano con apprensione le mie ricerche e la mia posizione, grazie alle bolle d’aria che rilasciavo lungo il percorso.
Ci fu un breve conciliabolo, poi l’esperto sottufficiale addetto allo scafo sentenziò: “Sono i timer delle celle frigorifere”.
“Ok, ma non bisogna lasciare nulla al caso” – risposi – “Spegneteli! Fatemi stare tranquillo!”
Questo piccolo episodio fu molto apprezzato perché era la dimostrazione di quanto accurata e meticolosa fosse la mia la mia ricerca e, mentre gli addetti provvedevano a disattivare il congegno temporizzatore, approfittai per sostituire l’autorespiratore ormai quasi vuoto.
Sparito il tic tac, ritrovata calma e concentrazione, portai a conclusione le operazioni di ricerca che risultarono, per fortuna, infruttuose.
Quando alla fine riemersi, Capo Tonoli, l’altro sommozzatore che nel frattempo era rientrato e si era preparato per l’immersione, mi salpò letteralmente a bordo del gommone.
“Allora?” – chiese concitato.
“Niente!” – risposi.
E mentre, mi aiutava a liberarmi dalle bombole, accostammo al molo dove il Comandante, rintracciato e avvertito della minaccia, attendeva con ansia insieme al Console, al famoso corrispondente della RAI Ruggero Orlando, all’equipaggio e ad una folla di visitatori mancati e curiosi.
“E allora?” – mi chiese appena misi piede a terra.
“Niente!” – gli risposi.
“Sei sicuro?” – aggiunse, cercando i miei occhi.
“Comandante, io non ho trovato niente!” – ribadii, rassicurando il suo sguardo inquisitore. Annuì con la testa, mi fece l’occhiolino e, rivoltosi al Comandante in II^ e all’equipaggio, con il suo solito fare scherzoso, proruppe:
“Che cazzo fate lì a terra in mutande? A bordo, ciurmaglia!”.
Subito dopo il comandante, ormai risollevato, salì sulla passerella, bisbigliando all’inebetito Console alcune parole colorite, come era suo costume:
“Caro mio, io, con uomini come questi, posso andare dove cazzo mi pare!”.
Il poliziotto era ancora lì. Prima di andar via, si avvicinò, come tanti altri, per complimentarsi con me per il coraggio dimostrato.
Tutti, infatti, avevano interpretato la mia immersione come un atto di coraggio. Io, invece, dopo aver scaricato la tensione sotto una doccia bollente, cominciai a chiedermi se il mio non fosse stato altro che un gesto di pura e semplice “incoscienza giovanile”. Sicuramente non lo feci per soldi, visto che l’indennità oraria per un’ora d’immersione era pari a 420 lire “lorde”.
L’unica cosa certa era che il soggiorno nella più grande metropoli del mondo era cominciato nel modo… migliore.