LA MISTICA DEL PAESAGGIO
Visione panica nella pittura di SANTE DAMONE
di Giuseppe Magnolo
L’attività artistica di Sante Damone, nato a Palo del Colle in terra di Bari, ma salentino per adozione e forse anche per vocazione (vive ed opera a Sogliano Cavour), copre un periodo più che trentennale, con una lunga formazione prevalentemente da autodidatta, riferita non solo allo sviluppo ed affinamento delle tecniche figurative e all’efficacia espressiva, ma anche alle motivazioni che sottendono la sua ricerca artistica, avvertita come vero e proprio bisogno esistenziale. La natura di tali motivazioni è ovviamente un aspetto secondario rispetto al risultato artistico, e tuttavia può confermare il fatto che, come avviene nella sfera della religiosità, anche le vie dell’arte sono infinite.
Gli ambiti che emergono dall’esperienza artistica di Damone rivelano un livello prospettico fortemente scandito dalla dimensione spazio-temporale. La definizione di ordine spaziale induce l’artista a tesorizzare i luoghi della sua consueta frequentazione, oppure ad immergersi in paesaggi insolitamente suggestivi, in ampi scorci prospettici offerti dalle marine, dalla campagna, da angoli incontaminati della piccola realtà di paese. Altrove la sua osservazione cade su recessi e vicoli che richiamano il vissuto antico, cogliendo figure umane apparentemente anonime e convenzionali, ma che ripetono gesti ancestrali che hanno secolarmente scandito l’esistenza di intere generazioni di questo profondo sud, come il mietere, il coltivare la terra, plasmare l’argilla, modellare il legno.
Tutto ciò è pazientemente ricondotto entro una dimensione fisicamente definita dai bordi spesso travalicanti della tela, che intende talvolta rivelare una parte per il tutto, uno spaccato della realtà contemplata che rinvia ad altro non visivamente esplicitato, ma immancabilmente adombrato dal soggetto raffigurato.
Questa prima definizione spaziale dei soggetti presentati si lega inoltre ad una categoria temporale di ordine sia sincronico che diacronico. La prima induce l’artista a fissare l’oggetto di osservazione nella sua attualità circostanziale, quasi a voler preservare la realtà fisicamente percepita dall’effetto di alterazione prodotto dallo scorrere del tempo, sottraendo la percezione estemporanea al pericolo di elusiva fugacità a cui è costantemente esposta. Pensiamo da un lato al mutare del paesaggio con le diverse condizioni di luce diurna, e d’altro canto agli aspetti non solo umorali ma anche fisiologici dell’osservatore con tutte le trasformazioni percettive che ciò comporta. La dimensione diacronica invece si innesta sulla intenzionalità dell’autore di ritornare all’antico, inteso come molteplice prospettiva di infanzia ritrovata, memoria riattualizzata, barlume di un eden che si può riscoprire nei momenti di ispirazione che preludono alla creazione artistica.
Questa sensazione di inclusività assolutizzante si avverte anche contemplando le nature morte di Damone: pesci o uccelli che giacciono inerti, oppure frutti e prodotti della terra raffigurati in bell’ordine, non rispondono a canoni di mera decoratività, sono bensì connessi al desiderio di rievocare una sensazione di quiete domestica, di realtà ovattata in cui qualsiasi tensione è risolta in un equilibrio che armonizza umanità e mondo naturale, sentimento e fisicità.
I connotati di questa pittura, concepita immancabilmente en plein air, evidenziano un cromatismo intensamente acceso, una ridda di colori che catturano e trasmettono un forte senso plastico dell’immagine presente nei dipinti, in cui non solo gli elementi inerti (case, muri, rocce), ma anche alberi, vegetali e persino elementi mobili, suggeriscono sensazioni di radicato attaccamento alla terra-madre. Questa pulsione panteistica che emana dal percepito si tramuta sulla tela in una solarità felicemente chiassosa, compiaciuta di esibirsi in piena luce gloriandosi dei propri attributi estetici. Si veda, ad esempio, la rappresentazione delle canne svettanti sulle rive del Canale dell’Asso produca un vero caleidoscopio di colori, che quasi richiamano l’iridescenza delle piume della coda di un pavone aperte a ventaglio.
E’ evidente che nelle opere di Damone non c’è spazio per scene di guasti ed abbandoni, nulla che suggerisca aridità o devastanti contaminazioni dell’ambiente. Domina invece un senso panico della realtà, una salutare percezione di umidore primaverile, un abbraccio visivo di prospere messi o di ricca vendemmia autunnale. Il paesaggio sfavilla in piena luce come all’alba della creazione, offrendosi allo sguardo estatico ed ammirato dell’artista.
Ne scaturisce un linguaggio pittorico gioiosamente esuberante, sorretto da una sintassi espressiva volutamente semplice e diretta, segno evidente della volontà di integrarsi e fondersi nelle immagini rappresentate. L’artista si muove costantemente su un terreno di chiarezza e di comunicabilità che non ammette intralci ad uno spontaneo e sincero desiderio di condivisione, generato dalla convinzione di potersi realmente fare interprete di sensazioni ed esperienze condivisibili, che attraverso l’immagine pittorica possono essere consegnate all’osservatore-fruitore di quest’arte in spirito di tranquilla e solidale convergenza su momenti significativi del vivere quotidiano.
In verità la tentazione di rispecchiare nella pittura, come in qualsiasi altra esperienza artistica, le elusività e le ambiguità della vita è assai forte. L’artista, come qualsiasi individuo, ha consapevolezza della propria vulnerabilità e dei rischi di cedimento rispetto ai quali egli può sentirsi inerme. Ecco perché l’espressione artistica può di volta in volta diventare sfogo disperante, evasione liberatoria nella fantasia, o al contrario può manifestarsi come pacata accettazione del senso razionale del limite. E’ proprio quest’ultimo stato d’animo che diviene prevalente nelle opere pittoriche di Damone, ed è in un ambito come questo che possono risiedere anche i presupposti di una implicazione morale dell’arte, che per essere tale deve scopertamente mettere in campo l’idealità autentica da cui scaturisce.
Su tale linea di interpretazione si poneva anche il compianto Nicola Cesari, pittore capace di fine vaglio critico, che in un saggio del 2003 scriveva: ”La produzione artistica di Damone rappresenta una variante gioiosa rispetto a consuetudini che tendono a soffocare i momenti più significativi delle genuine pulsioni artistiche; essa afferma con forza e consapevolezza lo spessore dell’ispirazione intimista dell’autore. La poetica di Damone si nutre delle sensazioni che la natura, nelle sue più semplici rappresentazioni, quotidianamente gli trasmette”. Tale affermazione, riferita al motivo tematico
, risulta particolarmente significativa, considerando il fatto che lo stesso Cesari solitamente preferiva incentrare le proprie elaborazioni artistiche su elementi di forte valenza concettuale, che risultano ben lontani dallo spontaneismo naturalistico del Damone.
Da sempre l’arte rappresenta un potente veicolo di intermediazione culturale, in quanto l’artista impersona un modo d’essere, di sentire, di relazionarsi, di comunicare. Attraverso le sue opere egli lancia dei messaggi in forma di segno, tratto, profilo, figura, colore, creando un’interfaccia tra la realtà da lui stesso rappresentata e l’osservatore dell’opera finita, attraverso il filtro delle rispettive facoltà logico-percettive. La realtà originaria costituisce quindi solo un punto di partenza per l’occhio interiore che guida l’artista. Tentando di definire il proprio processo realizzativo, Damone conferma tale ipotesi interpretativa, asserendo di partire spesso da una immagine “più o meno fotografica della realtà”, per trasfonderla nella propria mente, e pervenire poi ad una definizione estetico-concettuale che gli appartiene in modo nuovo ed esclusivo.
Per quanto attiene ai nuclei tematici squisitamente salentini presenti nei quadri di Damone, è opportuno valutare se il tratto regionalistico che prevalentemente distingue qualunque fase della sua lunga produzione sia da considerare un elemento limitativo, una forma di inadeguatezza a misurarsi con tematiche figurative di grande respiro, che induce l’autore a ripiegare su una visione più addomesticata dell’esperienza riflessa nell’arte. In realtà dipingere è un po’ come aprire una finestra sulla realtà, che può essere costituita sia dall’universo mondo che da una briciola di esso, da una distesa smisurata come da un piccolo orticello. E’ tuttavia innegabile che non esiste un codice espressivo non solo artistico, ma culturale in senso lato, che possegga requisiti riconoscibili come validi in senso generale ed assoluto. Ciò inevitabilmente comporta una marcata diversificazione, che giustamente lascia spazio a forme e contenuti molteplici.
La dimostrazione più chiara della capacità realizzativa di qualunque artista risiede nell’efficacia con cui riesce a comunicare il tessuto concettuale e soprattutto i risvolti emotivi da cui nasce la sua opera. Riteniamo di poter esemplificare questo assunto con riferimento al dipinto “Mareggiata”, in cui il dispiegarsi dinamico dell’elemento liquido rivela una natura carica di primordiale energia, che la rende assai vicina alla concezione del sublime romantico. Tuttavia l’equilibrio cromatico tra colori caldi e freddi stempera in qualche modo l’effetto dirompente del mare in tempesta, riconducendolo ad una consapevolezza di relativismo ciclico, che prelude alla susseguente condizione di quiete.
Solo in alcune opere di William Turner (1775-1851), artista inglese che come pochi ha saputo esprimere il fascino irresistibile prodotto dal fragore travolgente della tempesta sul mare, è dato di trovare alcune analogie di carattere sia tematico che stilistico con il soggetto rappresentato. In sostanza, pur partendo da un “piccolo orticello”, è sempre possibile per un artista raggiungere condizioni assai ampie di consonanza e condivisione, semplicemente perché tutti gli esseri umani, che siano comunque vivi e pulsanti, sono anche in grado di guardarsi dentro e intorno, nel tempo e nello spazio.