Partiamo dalle cattiverie: “L’Italia è proprio un Paese imprevedibile: qualche volta succede persino che il primo della classe sia anche il più bravo. Cavallari ha affrontato l’inchiesta più difficile che un giornalista potesse proporsi … dice che l’ha scritta di fretta, ed è una piccola bugia. Io conosco Cavallari, in fretta non scrive nemmeno gli auguri di Pasqua”. Era il 1962 e Indro Montanelli, sulle pagine del Corriere della Sera, recensiva così il libro L’Europa intelligente. L’autore era appunto Alberto Cavallari, all’epoca inviato speciale del quotidiano di via Solferino e di lì a breve direttore del Gazzettino di Venezia. Di Cavallari si ricorda perlopiù una storica intervista a Paolo VI (la prima rilasciata da un pontefice) e la direzione del Corriere avvenuta, a inizio anni Ottanta e in condizioni emergenziali, subito dopo l’esplosione del caso P2. Due esperienze centrali nella vita del giornalista piacentino, ma non esaustive per ricordarne la storia.

È con un certo divertimento intellettuale (e con l’insolito stupore di scoprire qualcosa che invece era stato sempre sotto gli occhi di tutti) che si legge allora “La forza di Sisifo”, antologia dei suoi scritti da poco pubblicata da Aragno per le attente e affettuose cure di Marzio Breda. Il libro alterna cronache e inchieste, reportage e interviste, commenti e analisi: si va dal Vajont alla rivolta ungherese fino alla caduta del comunismo, passando per l’allunaggio e per certi ritratti suggestivi (memorabile quello del campione olimpico Livio Berruti). L’antologia è mossa e vivace. Oltre a rendere conto della complessità intellettuale di una figura centrale del giornalismo italiano, spiega bene come mai il seguito del suo autore, considerevole tra gli addetti ai lavori, sia stato piuttosto flebile e attutito sui lettori, specie su quelli contemporanei.

Cavallari non è stato certamente un giornalista seduttore. Non ha mai ammiccato al grande pubblico con una scrittura suadente o emotiva. È stato lontano dal registro calligrafico di Indro Montanelli o da quello empatico di Enzo Biagi. Piuttosto, ha praticato uno spartito a metà tra la visione illuministica e il registro moralista (il moralismo autentico, va da sé, che si faceva scudo dell’insegnamento gobettiano e azionista). Riletti a distanza di decenni, i suoi scritti possono contenere errori, ma non spropositi o equivoci fuorvianti. E, se non sono tutti attuali, tornano nella maggior parte ancora buoni per raccontare un quarantennio di vita pubblica nostrana, con le loro tristi e inquietanti proiezioni nella contemporaneità.

“Non pensavo che l’onnipresenza della classe politica fosse così totale e globale – scriveva nel 1984, a pochi giorni dall’addio al Corriere – e la sensazione quotidiana è stata di vivere in una sorta di ‘politicland’; proprio nel senso di ‘Disneyland’, di un mondo che contiene mille riproduzioni di se stesso. Infatti il professionismo politico è giunto al massimo grado. I professionisti della politica sono presenti ovunque: come fattorini o amministratori delegati, come infermieri o cattedratici, come sindacalisti o imprenditori. La somma di questi professionisti della politica forma un potere oligarchico”. (www.panorama.it)