Il funerale di don Ciccio
di Salvatore Chiffi
“E’ muertu don Ciccio, è muertu don Ciccio!”
“Nnaaah! Tuttu ti paru?… E comu è successu?”
“’Nu cuerpu, cumpare miu, li ìniu nu cuerpu e non c’è statu cchiù nnienzi de fare!”
La “notizia” corre veloce di bocca in bocca e in un paio d’ore tutta la città viene a conoscenza che il barone “don Ciccio” ha reso l’anima a Dio e che “bisogna” fare le condoglianze alla famiglia.
Subito dopo la notizia lungo la strada adiacente al palazzo baronale di don Ciccio si formano i primi capannelli di persone che commentano mestamente l’accaduto, diffondendo per la via un lugubre brusio, in attesa che il maestoso portone d’ingresso principale del palazzo venga aperto per le visite di circostanza non appena la salma sarà composta nel feretro.
Sono circa le dieci del mattino quando i “famigli” spalancano il portone addobbato a lutto, il fattore Nicola, insieme a Miminu “lu fatturieddhru”, è ai piedi dell’ampia scalinata di marmo che porta al piano alto del palazzo dove vive la famiglia di don Ciccio.
Nicola è lì con scopi ben precisi: “sorvegliare” cantina e magazzini situati a pianterreno perché “non si sa mai qualcuno approfitti” e “annotare” mentalmente i nomi dei braccianti agricoli che vengono ad omaggiare il “padrone”; chi non verrà non sarà più chiamato a lavorare nelle tante proprietà della famiglia e tutti i braccianti, prima di salire su per le scale e avere accesso al salone adibito a camera mortuaria, porgono a lui le condoglianze, ma solo per fargli notare che sono “presenti”.
“Allora ieni piezzu ti fessa! – sogghigna Nicola soddisfatto nel vedere arrivare tra i tanti Lelè, il bracciante comunista che ha sempre qualcosa da contestare e da ridire sulla paga e sugli orari di lavoro, motivi per cui difficilmente gli concede qualche sciurnata ti fatìa – la fame futte puru a te. Va canta bandiera rossa mmienzu lla chiazza ca senza fatìa mangi ciole rrustute!”
Ma Lelè è comunista convinto, non per questo maleducato. E’ lì perché i suoi genitori gli hanno insegnato che deve portare sempre rispetto per tutti, amici e nemici, ma soprattutto per i defunti, quindi, gli dedica solo un educato “bona ‘espira” e sale le scale per adempiere al suo dovere senza aspettare risposta dallo “schiavo”.
Don Ciccio è lì, al centro dell’ampio salotto, disteso su un catafalco addobbato con un drappo di seta nera con frange e ricami dorati. Ai piedi del feretro una corona di fiori con le insegne del lutto e agli angoli quattro enormi ceri accesi creano nell’ambiente una calda luce particolare che ben si miscela con quella che entra dalle finestre socchiuse.
Don Ciccio indossa un elegante vestito nero, camicia di cotone bianchissima e cravatta nera, le mani incrociate sul petto stringono un prezioso crocifisso e un non meno prezioso rosario. Il viso ben rasato è corredato dai grossi baffi alla Vittorio Emanuele e non porta segni di sofferenza; è sereno e tutti quelli che si soffermano in preghiera davanti a lui non possono fare a meno di commentare: “pare ‘iu”(sembra vivo).
Alla sua destra, seduta in “pizzu di seggia” donna Rosa, la neo vedova con accanto le due figlie; è vestita di nero con un prezioso scialle finemente ricamato che le ricopre le spalle è ha in mano un fazzoletto bianco piegato a triangolino per asciugarsi le lacrime.
Dietro donna Rosa, oltre alle figlie, sono schierati gerarchicamente tutti parenti a partire dai più prossimi ai più lontani.
Dal lato opposto, sufficientemente distanti dal feretro per permettere il passaggio ai visitatori, siedono su due lunghe file di sedie le amiche di famiglia, le mogli dei fattori e qualche vicina di casa che recitano le “litanie lauretane”. Mescia Carmela, soprannominata “salveregina”, perché sempre in prima fila ad ogni funerale, con voce profonda, dirige le “litanie” sgranando il rosario, le altre rispondono tutte in coro e, nelle pause tra la “voce pregante” e la risposta in coro…
“Mo’ ‘na cosa è certa, finalmente donna Rosa ha difriscato, ca cu ti supporti ‘nu donnaiolo comu don Ciccio bisugnava cu tieni ‘nu fegatu tantu!” – bisbiglia Tetta, la moglie di Nicola lu fattore, a Maria Scorciafae, moglie di lu fatturieddhu, che le è seduta accanto.
“Tieni ragione, Tetta mia, ca quiddhru scia sempre tuccandu lu culu a totte, e quando dicu totte intendu… totte! E poi si vede ca donna Rosa sta ddifresca. Pare ca chiange, ma lampu ci finu a mo’ le bbissuta ‘na lacrima” – risponde con un bisbiglio la Scorciafae alzando gli occhi al cielo.
“Mo’ cce bbuei cu dici cu ‘stu totte?”.
“’Ogghiu dicu totte e ci ‘ole capisce… capisce!” incalza la Scorciafae.
Nel frattempo i visitatori, ordinatamente, si avvicinano alla vedova, porgono con rispetto le condoglianze a donna Rosa, alle figlie, ai parenti più vicini, sostano qualche secondo vicino alla salma di don Ciccio per una preghiera, si fanno il segno della croce e si allontanano mestamente dal salone in punta di piedi per non disturbare.
E’ quasi mezzogiorno quando nel salone piomba don Fefè, il compagno di avventure di don Ciccio. Non si cura delle persone in fila, sorpassa velocemente tutti, si inginocchia ai piedi di donna Rosa, le bacia la mano e confidenzialmente, tutto mortificato:
“Mi dispiace Rosa mia, mi dispiace. Era un grande amico per me, è una grave perdita per tutti!”
Poi, dopo aver stretto la mano e baciato le due orfane, si rivolge verso il feretro, si fa il segno della croce e, a mo’ di preghiera, mormora parole incomprensibili accompagnate da una mimica gestuale volta a convincere gli astanti del sincero dolore.
Intanto Tetta sussurra alla Scorciafae:
“Ci sape cce sta dice, quiddrhu no’ sape mancu l’Ave Maria!”
“Capoca, no’ sape mancu addò stannu li Chiese!”
“Sine, però addò stannu tutti li casini d’Italia lu sape… eccome lu sape! Secondu me quiddhru mo’ sta iastima, addhru ca preghiere!”
E infatti don Fefè tra sè e sè: “Cicciu, Cicciu, propriu mo’ ieri murire? Propriu mo’ ca era riuscitu cu convincu do’ puddhrasce ti Parigi cu si fannu li vacanze a Otrantu? Certu, allu postu tua n’addhru si troa sempre, ma la mmachina? A Nardò sulamente tu tinivi la mmachina cu scia’ bbinimu senza cu ndi ete ceddhri! No’ putivi murire a Settembre ci t’ha criatu? Vaffanculu va!”
Dopo questi pensieri don Fefè si mischia fra i parenti del de cuius e dopo qualche stretta di mano data a caso si dilegua.
Verso mezzogiorno e mezzo le visite cominciano a diradarsi, il coro si scioglie, bisogna provvedere al pranzo dei figli che tornano da scuola, si ricomporrà verso le tre e poi anche donna Rosa, poverina, ha bisogno di riposarsi un po’ e mangiare qualcosa.
Alle tre del pomeriggio ognuno ha ripreso il proprio posto, riprendono le visite.
L’ora è propizia per la visita di artigiani e commercianti, generalmente riaprono le loro attività alle quattro, quattro e mezza, e allora ecco che sfilano nel doveroso obbligo Dunato ti lu casu, titolare del negozio di alimentari sotta ‘lu mercatu cupiertu, da non confondersi con l’altro Dunatu, quiddru ti lu pesce, titolare della pescheria sempre sotta ‘lu mercatu, mèsciu Cici lu sartu, mèsciu Tore Pici tacchi e minzetti, lu scarparu, che davanti a don Ciccio guarda le lucide scarpe nere e scuotendo la testa pensa: “Ti vanno bbone? E mmò ci mi li paia? E nnà ca poi passu, e nnà ca poi passu, no’ passasti mai, anzi cangiasti puru strada”.
Poi ancora mèsciu Ginu doce-doce, il pasticciere, coi suoi pensieri: “Don Ci, cu no’ ti pienzi ca m’hai futtutu, ca iò lu cuntu a donna Rosa li lu fazzu purtare dall’avvocatu Rubino! A Natale ti purtasti tre pisci ti pasta ti mèndula di to’ chili l’unu e tre confezioni di Vecchia Romagna e poi passu, e a carniale tre chili di mèndule ricce e tre chili ti candellini pi lu veglione e poi passu, e a Pasca tre agnellini di pasta ti mèndula sempre ti to chili l’uno e poi passu, e sempre a cuerpi ti tre e tre no’ passasti mai, e iò mo’ fazzu passa lu Rubinu, ca ci no’ tuttu passa ‘n gloria!”
Al rito non può certo sottrarsi Chechè panza il macellaio. Arriva anche lui di corsa alla maniera di don Fefè col suo fisico possente, pancia prominente abbondantemente oltre il normale, camicia bianca sbottonata, maniche nfurdicate, pantaloni alla zumpa fogge, sandali sopra le calze rigorosamente bianche; stringe delicatamente la mano a donna Rosa e dopo un paio di “coraggio, bisogna farsi forza” al cospetto di don Ciccio: “Cu butti lu sangu armenu, armenu, addhra lu cuntu ca ha lassatu è gruessu! A Natale cinque chili carne pi lu bbrodu ti la megghiu megghiu, cinque chili ti filettu ti prima scelta, cinque chili ti custate cu pocu ossu, cinque chili ti fettine, cinque chili ti sardizza… e segna ca poi passu, a Pasca n’addhra fiata dece ti tuttu, dece chili ti agnellu, ca quiddru quando lu rrusti si riduce a nienzi, e dece ‘mboti ti mienzu chilu l’unu pi Pascareddhra… e segna ca poi passu, cu stu poi passu alla fine si trapassatu e no’ mai datu mancu ‘na lira d’accontu. E mmò? E mmò, fessa mia, quandu ene face la spesa l’Anna (la serva) lu cuntu li lu dò a ddeddhra, poi ci donna Rosa no’ paia, beddhru mia allu Rubinu mi tocca”.
Altri seguono a ruota, poi sul far della sera, quando le ombre stanno per prendere il posto della luce, ecco la ciliegina sulla torta.
Donna Lucia, l’amante “ufficiale” di don Ciccio, irrompe sulla scena.
Lo sguardo di tutti va da donna Lucia a donna Rosa, da donna Rosa a donna Lucia, ripetutamente; tutti si aspettano una reazione da donna Rosa, ma questa rimane impassibile sulla sedia. Quando una è signura… è signura, ti la cima ti li capiddhri finu all’urtima onghia ti li pieti! E poi, per la verità, se l’aspettava. Vuoi che donna Lucia non sarebbe venuta a dare l’ultimo saluto all’amante? E si era preparata.
Donna Lucia, si avvicina con movenze eleganti alla vedova tendendo la mano in cerca di una stretta, donna Rosa tende la sua, ma la stretta non è una stretta, solo tre dita, pollice, medio e anulare delle due donne si incontrano e si stringono appena appena, in modo mellifluo, evanescente con donna Lucia che mormora “Mi dispiace, donna Rosa, mi dispiace immensamente”, e donna Rosa che ringrazia accennando sorriso chiaramente forzato.
E quando donna Lucia è in preghiera accanto all’amato don Ciccio, donna Rosa… “Nnaaaah, li dispiace a ‘sta zòccula, li dispiace!… E certu ca t’era dispiacere, a Natale filettu, custate, fettine, pesci ti pasta ti mèndula, bbuttiglie ti Vecchia Romagna e quarche dammiggiana di olio estra vergine, a Pasca agnellu e ‘mboti rrustuti pi lu picchenicche (picnic), nci creu ca ti dispiace, e comu ti dispiace, crande zòccula ca no’ si addhra!”.
Donna Lucia sa che la sua presenza crea qualche imbarazzo, resta in silenzio davanti alla salma giusto il tempo per una preghiera, risaluta tutti con garbo e si allontana con gli occhi rossi di pianto togliendo il disturbo, accompagnata dai commenti bisbigliati di Tetta e la scorciafae.
“Però timme tuttu quiddhru ca uei ma donna Lucia pi bbeddhra è beddhra! Ci non era statu pi don Pantaleo… (il padre di don Ciccio)” – bisbiglia Tetta.
“Cce buei dici” – chiede la Scorciafae.
“Don Ciccio è stato sempre innamorato ti donna Lucia ti quando eranu agnuni. Siccome don Pantaleo s’era sciucatu a zecchinetta tutte le proprietà e siccome la famiglia ti donna Rosa era ricca spundata, cumbinarunu lu matrimoniu e cusì iddhra divintau baronessa e iddhru si futtìu tutte le proprietà. Sempre cusì: riccu cerca riccu, addhru ca storie!” – spiega Tetta.
Le visite si susseguono, il tempo trascorre lento, noioso, scandito dalle litanie, quando all’improvviso una visita inaspettata: La Rusetta Musi-ti-zzuccaru è lì.
I capelli rosso-mogano le scendono giù fluenti e morbidi sulle spalle, il viso ben truccato e le labbra turgide messe in risalto dal rossetto rosso-fuoco, la camicia di seta giallo-pulcino e la gonna di seta rosso-vistoso le fasciano il seno prorompente e le forme procaci, calze di nylon nere e tacchi vertiginosamente alti mettono in rilievo i polpacci ben torniti. Avanza incurante tra gli sguardi ammiccanti degli uomini e quelli infuocati e indispettiti delle mogli sino al cospetto di donna Rosa il cui viso, arrossendo per la prima volta, tradisce i suoi sentimenti.
Donna Rosa, tutto si sarebbe aspettata, ma che la tenutaria del bordello cittadino avesse varcato la soglia della sua casa… no. A questo abominevole affronto non era preparata e in quel momento avrebbe voluto sprofondare per la vergogna, scappare, trovarsi da un’altra parte, ma non può, perché… ci una è signura ha bbessere signura finu alla fine.
I soliti convenevoli delle condoglianze vengono consumati; anche per la Musi-ti-zzuccaru la stretta di mano è pari a quella riservata a donna Lucia.
Davanti a don Ciccio, la Musi-ti-zzuccaro si abbandona ai suoi pensieri: “Cicciu, grande chiavicu, iò ti l’aggiu ditta la sittimana passata ca no’ sta mi piacivi. Tinivi ‘nu culore ‘iancu ‘iancu ti catavere, ‘nfannisciavi tuttu, comu ‘nu puercu. Fatte fare ‘na visita pi lu core t’aggiu dittu, ma tu, tuestu ti capu, comu ‘nu ciucciu! E mmò pigghiala n’culu, fessa!”
Tetta, intanto, alla scorciafae che annuisce senza proferire parola: “Guarda e bbiti quiddhra cce faccia tosta! Non c’è propriu nienzi da fare, quandu una è puttana… è puttana, ti la cima ti li capiddhri finu all’urtima onghia ti li pieti!”
Compiuto il suo dovere la procace sacerdotessa dell’amore, dopo aver passato in rassegna con sguardo voluttuoso e ammiccante tutti li masculi presenti, lascia ancheggiando provocatoriamente il salone, soddisfatta di aver constatato che solo due/tre di loro le sono sconosciuti, ma prima o poi…
“E cce gghe Rita Aiuort!” -commenta qualcuno – “Sta bbae cu apre la puteca” qualcun’altra.
Sul tardi arriva anche monsignore, don Tonino ‘mprena-pizzoche. Il prelato abbraccia affettuosamente la famiglia del de cuius, pronuncia parole di conforto e sciorina preghiere in latino e benedizioni per don Ciccio. Gesti cristiani, ma… ma nell’intimo i suoi pensieri sono, a dir poco, satanici: “Cicciu, finarmente t’ha decisu cu ti ndi vai. Tuttu sacciu fessa mia. Totte addhra me so’ bbinute cu si cunfessanu e iò modestamente pi l’assoluzione… E cce buei faci, la carne è carne. Mo’ non bbuei cu cunsolu mugghierita? La cunsolu, la cunsolu! Tu va’ tranquillu tranquillu addò ti tocca ca a donna Rosa tra ‘na confessione e l’addhra ci pensu iò e, ci mi vae bbona cunsolu puru donna Lucia. Beddhru mia, lu sai no ca addò trase unu tràsinu tutti! Vai tranquillu e salutame San Pietru”.
La Scorciafae, nel frattempo, dando di gomito alla Tetta: “Addhra pergula lu monsignore, quiddhru ndi sape una cchiu ti lu tiaulu e tene li manu cchiù longhe ti don Cicciu, parisu aggia. Quiddhru cu la scusa ti la confessione si li passa totte, piarelle e non”.
“Cce buei dici cu stu totte?” – domanda la Tetta.
“Totte, Tetta mia, totte, comu aggiu tittu prima! E ci ole capisce… capisce! – ribatte l’amica – Penza chiuttostu ca tra nu recumeterna, ‘nu patrenosciu e n’ave Maria imu fattu menzanotte, quando la spiccianu?”
Sembra un segnale, piano piano tutti si alzano e si commiatano dai familiari di don Ciccio con la promessa che domani ritorneranno per l’ultimo atto del funerale.
Nicola, uscito l’ultimo visitatore, chiude il pesante portone e mena lu manese. I braccianti che hanno sostato per tutto il pomeriggio fino a quell’ora nei pressi del palazzo rincasano alla spicciolata. Torneranno all’indomani per ingrossare le fila del corteo che dopo le orazioni funebri nella Chiesa Madre accompagnerà don Ciccio nell’ultimo viaggio verso il cimitero.