L’umanità ha pochissimo tempo a disposizione per salvare la sua stirpe
Ad un passo dall’inferno
L’uomo non è nato per stare in catene, ma per vivere libero e felice
di Rino Duma
1) “Sino a quando la natura si lascerà aggredire dall’uomo?”;
2) “C’è un modo per rimediare a una catastrofe immane che già bussa alla porta?”.
La rabbia della natura
Per quanto concerne il primo interrogativo, la natura ha già iniziato a ribellarsi alle scriteriate attività umane. La prima reazione proviene dall’atmosfera, la cui consistenza non è più quella di mezzo secolo fa. C’è, infatti, un’enorme presenza di anidride carbonica, prodotta, in primis, dall’industria, dalla circolazione degli automezzi, dal riscaldamento domestico e dall’eruzione dei vulcani e, in subordine, dai numerosi incendi, dalla decomposizione dei rifiuti, dal prodotto dell’espirazione umana (7,5 miliardi di uomini oggi immettono un quantitativo doppio di anidride carbonica rispetto ai 3,5 miliardi degli anni ’70). Questa ingente massa di CO2 non viene più assorbita con regolarità dalle piante, dalle acque dei mari e, soprattutto, degli oceani per due importantissimi motivi. Il primo è dovuto al graduale ed incessante depauperamento delle foreste equatoriali, che nel giro di un trentennio hanno perso un buon 25% del loro patrimonio boschivo. Interi tratti di foreste lussureggianti sono stati aggrediti e letteralmente annientati per ricavarne legno pregiato per le in- dustrie del mobile o legno comune per quelle della carta. Sui terreni disboscati sono state impiantate coltivazioni intensive di mais, canna da zucchero, grano, caffè, cotone, thè, ecc. Queste piante non potranno mai sostituire l’azione disintossicante delle foreste abbattute, né tantomeno potranno produrre O2, se non in misura insignificante (4-5%).
In secondo luogo, un dato non trascurabile è rappresentato dalle prime difficoltà incontrate dalle acque marine ed oceaniche ad assorbire anidride carbonica, da cui dipende la formazione del fitoplancton, elemento indispensabile per il ciclo vitale nei mari e per il rilascio di ossigeno nell’atmosfera. Alla base di tutto ciò vi è l’aumento graduale dell’acidificazione delle acque, dovuta al continuo surriscaldamento atmosferico e al conseguente effetto-serra.
Oltre alle continue e scriteriate immissioni di CO2, vi è un altro subdolo fenomeno che fra non molto stravolgerà l’intero equilibrio biologico. È rappresentato dall’assottigliamento del ‘permafrost’, un terreno caratteristico delle zone settentrionali prossime ai poli (Europa, Asia, America), che occupa una superficie pari a dieci volte quella degli Usa. Il perma-frost, chiamato anche ‘permagelo’, è una striscia di terreno dallo spessore di due-tre metri, perennemente congelato, al di sotto del quale si estendono immense zone di ghiacci, i quali, a loro volta, intrappolano giacimenti di metano. Se questo gas dovesse trovare delle vie d’uscita, si diffonderebbe nell’atmosfera, determinando effetti catastrofici per la vita. L’effetto-serra, ahinoi, continuando indisturbato a sciogliere il permafrost, già comincia a minare il futuro della Terra.
La popolazione mondiale
Sulla scorta di quanto asserito, è dovere primario dell’uomo adoperarsi immediatamente affinché sia ristabilito l’equilibrio tra i vari elementi della natura.
Ma, in quale direzione l’uomo dovrebbe muoversi e quali misure prioritarie dovrebbe adottare?
La causa principale, che poi causa non è, bensì effetto di scellerati propositi, è rappresentata dall’aumento sproporzionato della popolazione mondiale, ormai prossima a tagliare il traguardo dei 7,6 miliardi di persone. Tutti lo sanno e tutti ne parlano. E allora, una volta individuato l’elemento-principe dei nostri mali, basterebbe intervenire con un’appropriata politica internazionale per bloccare prima e invertire poi la tendenza al preoccupante fenomeno. Semplice, molto semplice!… Semplice a dirsi, ma non ad attuarsi. Ci sono, cari lettori, enormi interessi da proteggere… interessi che si ridurrebbero drasticamente, se si puntasse a un contenimento della popolazione mondiale e, peggio ancora, a una sua riduzione. Tutto ciò non è gradito all’economia di mercato, la quale anzi punta a globalizzare il fenomeno e ad incentivarlo. In pratica, le leggi economiche, che un tempo erano governate dall’uomo, oggi ci governano e ci dominano.
Alla base di questo ‘perverso meccanismo’, c’è il terribile mostro rappresentato dal “profitto d’impresa”, figlio prediletto dell’egoismo, che spinge l’uomo a sfruttare e ad arric-chirsi a dismisura contro ogni logica. Se si trattasse di egoismo controllabile, i danni sarebbero pochi. Il guaio è che ci troviamo di fronte ad una forma mostruosa di egoismo, che ormai trabocca e contamina ogni angolo del pianeta, determinando forti contrasti, guerre e lutti, tanti lutti. È un vortice impetuoso dall’impareggiabile avidità, è un orrido pozzo senza fondo e senza dimensioni!
Ecco dove risiedono i mali del mondo!… Esattamente in questo buco nero dell’umanità!
Questo è l’unico vero problema che ci deve spingere a lottare per guadagnarci un altro tipo di cultura… la cultura della felicità!
“Non si tratta di immaginare il ritorno dell’uomo all’era delle caverne, né di erigere un monumento all’arretratezza…” – come giustamente osserva Josè Pepe Mujica, presidente dell’Uruguay – “…Però non possiamo continuare, indefinitamente, a lasciarci governare dal mercato, bensì dobbiamo cominciare ad essere noi a governare il mercato”.
Una via d’uscita
Una cosa è ormai certa e incontrovertibile: l’attuale modello di sviluppo non è più proponibile, perché altamente deleterio. Va immediatamente accantonato o, quanto meno, rimodellato nei suoi elementi principali.
Da qualche tempo a questa parte, si sta affacciando con una certa insistenza la teoria della “decrescita felice”, ideata dall’economista e antropologo Serge Latouche.
Cosa rimprovera lo studioso all’attuale “economia di mercato” e cosa propone in alternativa?
Intanto rivolge un’aspra critica al capitalismo, al consumismo, all’utilitarismo, alla crescita economica, in quanto ritenuti rei di sfruttamenti selvaggi, di accumulo abnorme di grandi ricchezze, di un progressivo impoverimento dell’umanità, dell’inasprimento dei rapporti internazionali, di enormi tensioni sociali su larga scala e quindi “portatori d’infelicità”.
Latouche sostiene che è inconcepibile pensare che l’umanità possa puntare a un continuo sviluppo e rigetta l’idea che la ricchezza possa produrre altra ricchezza all’infinito.
Il no al capitalismo, e quindi all’incontrollata economia di mercato, è giustificato da evidenze logiche. Infatti l’auspicabile ‘crescita illimitata’, sbandierata dai liberisti, è pura follia, è un’utopia che porta dritto a sbattere contro un muro, poiché le risorse a disposizione dell’uomo sono limitate e già prossime all’esaurimento. Continuare a percorrere questa strada significherebbe addentrarsi in un ginepraio tortuoso, sempre più irto e senza alcuna via d’uscita.
È invece auspicabile che le varie nazioni riescano a coniugare l’economia con l’ecologia e con l’antropologia economica, e anche che si rendano promotrici di un cambiamento culturale, che scardini dalla mente degli uomini l’educazione utilitaristica degli ultimi due secoli, colpevole di tanti disastri ambientali e sociali.
In alternativa, lo studioso propone di puntare alla cosiddetta ‘decrescita felice’, che comporterebbe una diminuzione di prodotti e, di conseguenza, di consumi. Tutto ciò non provocherebbe una fase di recessione economica, ma di ‘decrescita controllata’ dell’economia, cioè di un ridimensionamento organizzato delle risorse, in modo che non ci fossero eccessi di produzione e, quindi, sovrabbondanza di rimanenze, che, nel caso di prodotti alimentari, sarebbero destinate alla distruzione.
Si pensi, a voler fare un esempio, alla produzione di automobili nel mondo. Una parte considerevole di vetture risulta ogni anno invenduta e giace inutilizzata in grandi spazi aperti, per poi essere svenduta, sempreché ci siano richieste. Questa è ricchezza sottratta all’umanità che, altrimenti, si sarebbe potuta impiegare in altri progetti produttivi. Di tali esempi, ci sono a centinaia di migliaia, esattamente quante sono le varie merci prodotte. Pertanto, secondo questa teoria tutto ciò che presumibilmente non verrebbe consumato, non deve essere prodotto. Si tratta, in pratica, di applicare la tanto declamata “spending revue”, cioè la revisione di spesa, applicata anche all’economia mondiale.
Questo concetto va di pari passo con la riduzione degli sprechi. Tutto quello che non è necessario consumare, di conseguenza non va prodotto.
Per mancanza di spazio, ci limitiamo ad esaminare solo due punti essenziali della sua teoria, che ci vengono raccontati dallo stesso studioso.
1) Autonomia energetica e alimentare.
Qui subentra il concetto di ‘località’. Nella visione della decrescita, le comunità sono autonome. Sono escluse le merci che realmente non sono producibili in loco, niente va importato. Una città consuma solo gli alimenti che produce, consuma solo l’energia che produce e utilizza solo gli strumenti che crea. Qui assume un’importanza essenziale la questione delle risorse rinnovabili, in grado di rendere autonomo anche un paese che non possiede giacimenti di petrolio, di carbone, di gas ecc. Assume un’importanza particolare anche il riciclo: se l’import è considerato una cosa da evitare, allora è indispensabile non sprecare gli strumenti, le merci, gli oggetti; dunque è indispensabile riciclare.
2) Senso di appartenenza alla comunità.
Se la comunità è autosufficiente (per quanto possibile) allora è giusto che si instauri un rapporto più intenso tra la popolazione e la propria terra. Rapporto che va coltivato man- tenendo, ed eventualmente recuperando, le tradizioni tipiche del territorio. In questo senso la decrescita non è solo una teoria economica, ma anche filosofica e antropologica, quindi culturale.
Il pensiero di Latouche evidenzia che i maggiori problemi ambientali e sociali del nostro tempo sono dovuti proprio alla crescita economica e ai suoi effetti collaterali; di qui l’ur-genza di una strategia di decrescita, incentrata sulla sobrietà, sul senso del limite, sulle “8 R” (riciclare, riutilizzare, ridistribuire, rivedere, ristrutturare, ecc.) per tentare di rispondere alle gravi emergenze del presente.
Pertanto, via il “profitto d’impresa”, dentro il “profitto sociale” e, di conseguenza, rispetto assoluto dei legami con Madre Natura.
Potrebbe essere un’idea nuova, un progetto di vita molto interessante, da non scartare a priori, ma da prendere nella dovuta considerazione e, magari, migliorarlo.
L’accorato appello di Papa Francesco
Il pensiero di Latouche è stato sostenuto indirettamente da papa Francesco che, qualche tempo fa, ha lanciato un messaggio ben preciso, rivolto ai vari governanti del mondo. Egli ha sostenuto con forza che “il nostro cuore desidera un «di più», che non è semplicemente un conoscere «di più» o un avere «di più», ma è soprattutto «un essere di più». Non si può ridurre lo sviluppo alla mera crescita economica, spesso conseguita senza guardare alle persone più deboli e indifese. Il mondo può migliorare soltanto se l’attenzione primaria è rivolta alla persona, se la promozione della persona è integrale, in tutte le sue dimensioni, soprattutto in quella relativa al lavoro, che non può essere considerato una variabile dipendente dai mercati finanziari e monetari. Il lavoro è un bene fondamentale della persona, in quanto garantisce dignità, crea la famiglia e contribuisce a realizzare il bene comune e la pace. Il mondo può migliorare solo se non viene trascurato nessuno, compresi i poveri, i malati, i carcerati, i bisognosi, i forestieri e se si è capaci di passare da una cultura dello scarto ad una cultura dell’incontro, dell’accoglienza e della fratellanza”.
Sono parole che risuonano come una denuncia alla politica e, più in generale, a una società sempre più asfittica, che ha perso completamente il senso del suo esistere e di ciò che è veramente essenziale. Parole sante, anzi santissime, rivolte ad orecchie che non hanno voglia di ascoltare, ad orecchie a cui piace solo il tintinnio delle monete e ad occhi amanti unicamente del luccichio dell’oro, ma non certamente del brillio delle lacrime di chi soffre.
È possibile, quindi, auspicare un rinnovamento, se si vive in un’economia basata sullo sfruttamento abnorme e su una competizione così spietata e implacabile? Fin dove arriva ve-ramente la nostra volontà a cambiare il destino del mondo?
L’uomo è nato per essere “libero e felice” e per vivere in sintonia con la natura, senza mai alterarla o danneggiarla. Ogni modello che tende allo ‘sviluppo abnorme’, al fine di produrre ricchezza, è quasi sempre portatore di saccheggio, sfruttamento, inquinamento e devastazione degli habitat naturali. E se s’intacca l’ambiente, si compromette prima o poi la stessa vita dell’uomo. Perciò, dovremmo adattarci alla natura ed accettare unicamente le sue regole e non quelle del “libero mercato”.
In quale modo potrà entrare nella testa, e soprattutto nel cuore, dei popoli “dominanti” un messaggio del genere? Queste genti sono abituate a vivere ad li là e al di sopra delle condizioni di vita in cui vive il cittadino-medio del mondo. Badate attentamente, amici lettori, che si sta parlando di cittadino-medio e non di colui che vive ai margini della società opulenta, di colui che ogni giorno riesce a nutrirsi solo con un pugno di riso, a bere un bicchiere d’acqua (per giunta malsana) e a lottare contro la sporcizia, le malattie, l’ignoranza e l’indigenza più estrema. Vi sono uomini che per campare si alimentano di radici, tuberi, verdure, frutti selvatici e percorrono diversi chilometri a piedi per raggiungere una modesta sorgente di acqua (non potabile), intorno alla quale c’è sempre molta ressa e molta prepotenza. Vi sono, purtroppo, miliardi di persone distribuite nelle zone più povere del mondo e nelle fasce sociali più basse degli stessi paesi industrializzati. Rappresentano una consistente fetta della popolazione mondiale, stimata dagli studiosi nel 40-42% del totale. Come dire che ben oltre tre miliardi di persone versano in condizioni insostenibili, quasi bestiali.
Non sono pessimista quando affermo che l’umanità ha di fronte a sé un inferno che s’appressa senza scampo.
Ed allora, ci sono ancora vie d’uscita? L’uomo fa ancora in tempo ad invertire la direzione al suo percorso insensato e autolesivo? Forse, sì… ma bisogna voltare pagina ed iniziare a tutelare esclusivamente gli interessi di tutti e a bandire gli egoismi dei pochi. Ma sarà difficile, molto difficile far rinsavire chi da sempre specula sulle sventure dell’umanità. D’altra parte, è illogico sperare che cani affamati, anzi lupi famelici, salvino la vita alle proprie prede.
Chi scrive è portato a ritenere che le sorti della Terra siano ormai segnate, a meno di grandi stravolgimenti politici e sociali.
“Spes ultima dea!” – sostenevano i nostri padri latini, quasi a volersi rassegnare di fronte all’ineluttabilità di un evento dannoso. Asserivano anche “audaces fortuna iuvat”, esattamente ciò che manca agli uomini di oggi… cioè, il coraggio e la determinazione di cambiare le sorti dell’umanità.
Ma, intanto… buonanotte mondo!