Sofia Stevens poetessa anglo-gallipolina
Di Augusto Benemeglio
Era stata educata a Galatina
Sofia Stevens nacque nel 1845 a Gallipoli, figlia del vice Console inglese nella citta salentina, Henry Stevens, che rimase in carica fino al 1867, anno in cui morì. Anche il nonno di Sofia, Richard, era stato vice console dal 1829 fino al 1853. Mentre la madre di Sofia era una nobildonna di origine franco-napoletana: Carolina Auverny.
Sofia era la seconda di cinque figli (3 femmine e due maschi) ed era stata educata prima a Galatina, poi, all’età di undici anni, fu mandata a Napoli, dove ebbe per maestro di lingue e di poesia Federico Villani; a quindici anni ritornò a Gallipoli e di qui ebbero inizio, come era norma per i giovani di buona famiglia, i viaggi di formazione in Europa.
Con lo zio Giovanni Auverny, per due anni, Sofia non fece che viaggiare: Parigi, Madrid, Berlino, Zurigo, Monaco di Baviera, Copenaghen, ecc. Si perfezionò negli studi classici conoscendo oltre l’italiano, il francese, l’inglese, lo spagnolo e il tedesco e, rientrata a Gallipoli, cominciò a scrivere per proprio conto finché, morto il padre, nel 1867 (Sofia ha 22 anni, si trasferì, con la madre e tutta la famiglia, a Napoli. Qui sposò, senz’amore, Settimio Bartocci. I due vissero tra Gallipoli e Napoli, a seconda delle stagioni, finché nel 1873 venne diagnosticato a Sofia (ha soltanto 28 anni) un tumore al seno. Da questo momento in poi Sofia si trasferisce definitivamente a Napoli. Non rivedrà più Gallipoli. Operata tre anni dopo, muore il 9 agosto 1876, a soli 31 anni di età.
Muore con il rimpianto di un amore infelice e con la sua Gallipoli nel cuore.
Lascia, scritte con il lapis, in vari quaderni-diari, 350 poesie, che aveva cominciato a scrivere fin dall’età di 15 anni. Verranno pubblicate postume, nel 1879, sotto il titolo “Canti”, come avrebbe desiderato lei stessa, che ammirava e amava moltissimo i “Canti” leopardiani.
Era una creatura dolce e malinconica, morì infelice.
Vi chiederete com’era Sofia Stevens, questa singolare nobildonna gallipolina dell’800. Non abbiamo testimonianze coeve, ma dall’effigie del ritratto che ci ha lasciato e, soprattutto dalle poesie che ha lasciato come sorta di testamento spirituale, è facile immaginare una creatura dolce, fine, delicata, pallida, patetica, malinconia, romantica; e tuttavia non era una fanciulla tutte trine e sospiri. Era intelligente, colta, conosceva quattro lingue, di carattere molto riservato, era schiva, viveva appartata, aveva un magnifico rapporto con la natura che la circondava e soprattutto Sofia si sentiva profondamente gallipolitana, figlia di quella terra un po’ ruvida ma splendida e generosa. E ciò lo esplicita nelle sue poesie che sono di chiara imitazione e sul modello tardo-romantico, alla Prati, o alla Aleardi, tanto per intenderci, anche se il suo modello inarrivabile fra tutti i poeti da lei conosciuti era Giacomo Leopardi, il poeta del dolore, a cui si sentiva molto vicino, sia per il suo temperamento malinconico che per le tristi personali vicende biografiche. Le poesie di Sofia Stevens sono molto sentimentali, talora sognanti, malinconiche, dolenti. Ma ciò che ella prova non è finzione, non appartiene alla convenzione perché la sua vita fu veramente breve dolorosa e infelice, costretta a sposare un uomo che non amava e a patirne tutte le amare conseguenze, e infine colpita da un male terribile, allora incurabile, che l’avrebbe portata alla morte, tra atroci sofferenze fisiche e spirituali, (“A l’alma mia tapina / tormenti senza fine innanzi para…”) a soli 31 anni.
Dal cielo son discesa
In questa fonda valle
E al suolo m’ha protesa
Un infelice amore;
Non più l’amor
ch’io vagheggiava teco,
E che potea secura
Fin confidare a l’eco
De le paterne mura,
Ma di foco avvampante passione,
Che sebben corriposta,
Terribile tenzone
Contro me stessa ha imposto.
Invano io vò domarla.
Qual fa l’onda,
Tanto furente da schiantar le dighe,
Fuori trabalza, e tutto intorno inonda,
E seco trascinando la rovina,
A l’alma mia tapina
Tormenti senza fine innanzi para,
E m’apparecchia la gelata bara
La ruvidezza degli antichi scogli.
Sofia, l’abbiamo detto, amò molto la sua terra natia, Gallipoli, che considerò sempre sua prima vera autentica patria, sebbene non ci abbia vissuto moltissimo. E alla sua terra dedicò descrizioni poetiche non convenzionali, con un’attenzione particolare alla precisione terminologica nel campo della fauna e della flora salentina, frutto della sua curiosità e passione per la botanica e le scienze naturali.
…E si distende
Su’ sassi calcinati da’ fulgori
De l’astro, che in maggiore in ciel risplende/
Diserta v’è però, rude la zolla,
Da pochi sterpi adorna e serpollino…
A me, cresciuta Sopra lido marina, avanza in core/
La ruvidezza de’ nativi scogli…
Aride pietre, e meste, io veggo intorno
Ove licheni biondi e serpollino
Sono i soli a profumar cocente il giorno
…E’ qui sabbioso il suolo, e non v’ha ramo
E pure, e pure questa terra io l’amo.
“ E m’è duolo perenne la vita…”
Al periodo della fanciullezza e dell’adolescenza si contrappone la dura realtà del presente, in cui sono definitivamente tramontati i sogni e le speranze di coronare felicemente il suo amore. Chi domina incontrastato ora è il disinganno e la disillusione.
L’alma fidente si commuove e spera
Ma il disinganno appare… ah!, rio veleno.
Ma finite le gaie stagioni,
Ogni speme con esse è partita,
Ora ignoro gli amori ed i suoni,
E m’è duolo perenne la vita.
Giglio nell’ombra e nel gelo sullo sfondo di un acceso tramonto.
Il dolore e la tristezza dell’animo di Sofia, malata, in preda anche allo sconforto di non poter più rivedere Gallipoli, perché il viaggio le sarebbe troppo doloroso, fanno affacciare nella giovane donna l’idea prepotente della morte. E lo fa con accenti e riecheggiamenti chiaramente leopardiani.
Oh, felici coloro cui concesso
E’ già il riposo de l’eterno sonno
Là presso l’onde di quel mar sereno
Sotteso le robinie e le gaggie
De le fiorite italiche pianure,
Dove s’ascolta il cinguettio giocondo
E dove il pianto semplice donzella
Versa devota sopra l’urna amica.
Donna Sofia Stevens, a cui Gallipoli ha dedicato una via nel borgo, una via discreta e appartata sulla riviera di tramontana, rimarrà per sempre l’emblema della delicatezza e della femminilità romantica, ma anche della tenerezza e del profumo discreto, un candido giglio tra le rocce, un‘ombra delicata e tenera sullo sfondo di un acceso tramonto di Gallipoli.