San Paolo e le tarante

San Paolo e il Salento 

(II p.)

di Gianfranco Conese

Negli atti degli apostoli, in riferimento al viaggio di San Paolo da Gerusalemme a Roma, si racconta del naufragio del Santo, del suo avventuroso salvataggio sulle spiaggie di Malta, dell’ottima accoglienza degli indigeni, che si offrirono per accendere un gran fuoco in modo che i naufraghi si asciugassero e si riscaldassero. Ma dal fascio di sarmenti pronto ad alimentare il fuoco venne fuori all’improvviso una vipera che con uno scatto addentò la mano del Santo. Ma non accadde nulla, anzi mentre i presenti temevano che in poco tempo il veleno lo avrebbe ucciso, lui scrollò nel fuoco la vipera senza alcun timore. Esterrefatti, tutti pensarono come se lui fosse un Dio.

Il fuoco di SanPaolo

Su questa succinta nota degli Atti fiorirono tante leggende e la fede popolare ricamò storie belle ed esemplari per migliorare la devozione verso questo Grande della chiesa.

Una leggenda, che si perde nella notte dei tempi, racconta che San Paolo, presa teneramente la vipera tra le dita, la invitò ad andare in giro per l’isola a chiamare le sue compagne e a ritornare verso il fuoco. Cosa che accadde tra il terrore e stupore generale. Centinaia di vipere si disposero intorno al fuoco e accanto a lui e i suoi compagni naufraghi. In breve tempo le vipere erano divenute docili come agnelli. Commosso da tale ubbidienza, il santo le benedisse, e mettendosi la vipera più grossa intorno al collo come se si trattasse di una collana, riprese il suo viaggio verso Roma.  Durante la sua missione di proselitismo, giunse nel Salento, fermandosi a Galatina.

Sostiene la leggenda che i Galatinesi, pur essendo gente ospitale e propensa a fraternizzare con i forestieri, gli chiusero le porte in faccia nel momento in cui il Santo chiedeva la carità. Il motivo di questo rifiuto era dovuto alla gran paura nel vedere la vipera appesa al collo di questo sconosciuto. Il Santo per tutto il giorno vagò intorno al paese, ma, al calar della notte, volle fermarsi in un orto pieno di alberi, finendo per rannicchiarsi sotto ‘a nn’arvulu de bruficu’, che per il suo folto fogliame lo riparava dall’umido della notte. A poca distanza dall’albero sorgeva una casa con un pozzo a due bocche, una esterna e l’altra interna all’abitazione. Quando lui a mezzanotte iniziò a pregare, la sua voce si diffuse anche all’interno della casa; i padroni commossi dalle sue invocazioni a Dio, si fecero coraggio e aprirono l’uscio accogliendo sia il sant’uomo e sia la sua vipera. Il santo rimase ospite per tutto il tempo che intese fermarsi a Galatina. I miracoli non mancarono. Già l’albero di caprifico, dove lui si era riposato, cominciò a fare fichi saporiti, anche negli anni successivi. Questo fenomeno si estese poi ad altri alberi simili nella campagna salentina (fenomeno botanico diffusissimo), ma all’epoca quando un contadino vedeva un fico edibile su un bruficu comunicava contento ai vicini: “Santu Paulu sta notte e bbenutu a quai!”. (Cioè ha miracolato l’albero).

serpe alla canna

L’altro prodigio che fece San Paolo nella casa galatinese fu quando, dopo aver comandato alla vipera di moltiplicarsi, la buttò nel pozzo della famiglia ospite, dove essa si trasformò in biscia acquatica (anguilla?) Inoltre da quel momento l’acqua del pozzo assunse virtù particolari, tale che chi era morso da bestie velenose – serpi, tarantole e scorpioni – bevendone un buon boccale, vomitava subito il veleno, ottenendo così la guarigione. Prima di partire per Roma, il santo intese ‘legarli’ in eterno a sé. Convocò tutti i componenti maschi della famiglia e li nominò li carmati de Santu Paulu, ossia li aveva incantati, trasmettendo loro il dono di essere invulnerabili al veleno e di poter catturare i serpenti sia loro sia figli e loro discendenti. Questa è la leggenda su San Paolo.

 Più realmente esiste nella storia locale la tradizione dei SanPaulari, diffusi nelle campagne da Galatina a Collemeto, Copertino, Nardò, tutto l’arco Jonico fino a Manduria, anzi fino al vicino San Pietro in Bevagna, porticciolo dove la tradizione vuole che vi sia sbarcato San Pietro ‘cumpare de sangu’ del nostro Paolo.

Per un contadino dell’epoca, fino ai primi del 900, essere carmatu significava essere un eletto, in quanto rappresentava il mezzo terreno o meglio l’intermediario per chiedere grazia a San Paolo. L’unto dal Santo doveva avere qualità spirituali superiori ai suo compaesani, una specie di prete laico-furese (contadino) a cui tutto era poi concesso. Nel tempo questi personaggi furono ritenuti alla stessa stregua di stregoni, perchè erano gli unici nel contado salentino a saper catturare o incantare serpi in genere, considerando che, salvo qualche esemplare di vipera presente nelle langhe e macchie desolate dell’Arneo, tutte le altre serpi del Salento erano innocue, ma la capacità dei SanPaulari o Carmati era quella di carmare (calmare) l’istinto malefico del rettile secondo l’interpetrazione lessica locale.

serpenti fuoco e san paolo

 Nelle campagne ancora prive di insetticidi e di veleni i rettili comunque abbondavano e davano il loro alto contributo al mantenimento dell’equilibrio naturale. Si passava dai diversi tipi di sirpiule (serpicciole) circolanti nelle campagne dal dente retrattile con l’effetto veleno che determinava un edema locale, alla sacara, serpente più voluminoso che poteva raggiungere pure i 3 mt. La presenza imponente di quest’ultimo incuteva paure congenite e attribuzioni immaginarie. Oltremodo si riteneva che la serpe’ spiatasse’, ossia spruzzasse il veleno a distanza (molto probabilmente si trattava del Colubro Lacertino). Financo l’apparizione nei campi dello scursone, un mansueto rettile, portava le donne a grida di spavento e ad invocare San Paolo.

La verità era che il serpente trasmetteva una paura irrazionale ed era considerato come un archetipo del male. Bastava la sua presenza per indurre le persone a sconfinare facilmente nel soprannaturale, attribuendo alla bestia i connotati di una potenza infernale.

Da qui la credenza ‘de li sierpi castimati’, leggendaria incarnazione di defunti dannati, che non venivano rinchiusi nell’inferno, ma che dovevano scontare sulla terra, in forma di serpe, tutte le imprecazioni e bestemmie rivolte in vita a danno del prossimo.

Chi potevano essere costoro tanto detestati? Padroni, fattori despoti, usurai, stupratori, fattucchiere, (gente fiacca e avida, insomma).

In parallelo e in contiguità con il male vi era il buio, sensazione ancestrale di paura, tanto da ritenere che durante la notte le campagne diventavano l’habitat dell’irreale, dove tutto poteva accadere senza il controllo degli umani sensi.

effetto del morso della tarantola

Le sierpi castimate attendevano al varco le donne che, già nottetempo e a piedi, dovevano raggiungere i posti di lavoro, e allora ogni ramo ‘ntortijatu di qualche maestoso ulivo lungo la loro strada, poteva apparire, alle prime luci dell’alba, come un covo di serpi. Per questi motivi, si ricorreva allu Sampaularo del posto, che conosceva il rito e la formula dell’esorcismo per far ritornare all’inferno queste anime dannate, che infestavano di notte la mente dei contadini.

Per liberarsi del serpe infernale le persone ricorrevano all’esorcismo degli esperti, che consisteva nello scavare con un piolo due piccoli solchi a forma di croce, inseriti in una zolla a cerchio. Tale espediente serviva di notte a scuffundare (gettare) all’inferno lu sierpe diabulo. Nei solchetti a croce si dovevano interrare sette semi di legumi (i peccati capitali), ossia una fava, un fagiolo, un cece, un pisello, una lenticchia, un lupino e una cicerchia. Successivamente si coprivano i semi con la terra, avendo cura di cancellare ogni traccia, non prima di aver bagnato quelle zolle con la portentosa acqua del pozzo di Galatina. In conclusione si spargeva un velo della mitica e miracolosa terra dell’isola di Malta. Alle prime luci dell’alba, quel luogo diventava meta di pellegrinaggio e intanto si costatava il prodigio: i semi imbucati a mezzanotte, la mattina avevano già messo i germogli, sbucando dalla terra, ricomponendo il segno della croce, seguendo i due solchi perpendicolari. L’inganno naturalmente era dovuto all’utilizzo di sostanze che ammorbidivano la cuticola del legume, bagnata con un composto di sterco di colombi e frammenti di carta, tutto macerato nel vino e poi miscelato con terra rossa. Questa miscela riattivava un processo fermentativo che, aggiunto al sollecito calorifero creato dalla presenza di acido solforico sui legumi, creava questa visione miracolosa.

 In perfetta coerenza con le loro conclamate qualità, si millantava la proprietà della domus Galatinese, presunto alloggio del santo, che si occupava dei morsi velenosi e in particolare di quelli che determinavano il fenomeno del tarantismo. Intruglio benefico era anche ritenuta la Terra di Malta, miscela di terra rossa cicatrizzante, superstiziosamente ritenuta taumaturgica, perchè resa prodigiosa dall’impasto con l’acqua miracolosa del pozzo di Galatina. Questa manipolazione si protrasse per secoli fino a quando verso la meta del 700, l’alloggio galatinese di San Paolo fu trasformato in cappella dalla chiesa locale, incorpando quel pozzo e facendo sì che le manifestazioni delle tarantate si svolgessero in quel luogo ‘sacro’, senza la presenza di mediatori e quindi con un rapporto diretto con il santo e il suo altare.

Altarini

 Ma il nostro racconto prende una piega di documentazione viva, quando Carlo Schito, proprietario del conosciutissimo caseificio locale della Masseria “La Fica”, sito nella contrada ‘allu Duca’, tra Collemeto e Galatina, mi racconta di suo nonno ‘Lu Ntunnucciu de la fica’, massaro, persona molto per bene, molto ossequiato dalla gente di quelle contrade, forse l’ultimo reale Carmatu de San Paulu, erede di una lunga tradizione familiare secolare.

La sua famiglia era la proprietaria della statua in cartapesta di San Paolo con le serpi, già da diverse generazioni, statua che usciva da quella masseria solo in occasione delle feste patronali, quando cioè San Paolo sfilava insieme a San Pietro per le vie di Galatina il 29 di giugno in solenne processione. Chi portava sul baldacchino la statua di San Paolo con i vestiti della festa, erano i componenti maschi della famiglia Schito, a cui poi si accodavano tutti i parenti e il popolo di Collemeto, manifestazione che ancora avviene nella massima solennità.

La statua per tutto il periodo delle feste veniva venerata nella chiesetta di San Paolo, per far modo che tutte le pellegrine potessero chiedere al Santo direttamente la grazia contro il morso della taranta. Anzi, come ricorda il nipote Carlo, Lu ‘ntunucciu de la Fica in possesso delle chiavi della cappella, si preoccupava di aprirne la porta anche alle prime luci dell’alba su richiesta dei familiari delle poverette. Tutto ciò avveniva anche nei giorni precedenti la festa, quando i primi traini di pellegrini arrivavano in P.za San Pietro a Galatina. Il possesso delle chiavi di un luogo sacro da parte de nu massaru dà appunto l’idea della considerazione che i proprietari della cappella avevano dato alla famiglia Schito, quali mediatori terreni delle grazie di San Paolo nella nostra terra.

santini e santoni

Il finale di questa bella favola è un po’ amaro però.  Come dice Carlo: la loro statua ormai non è nella loro casa, ma fa bella mostra nella Chiesa Madre di Galatina e loro non sono più possessori delle chiavi della cappella di San Paolo, dopo almeno un secolo.

Miracolo questo non di San Paolo, ma, purtroppo… dei tempi moderni!