IL LATINO È SEMPRE FRA NOI
(altro che lingua morta!)
Antonio Mele ‘Melanton
Lo scrittore Cesare Marchi (Villafranca di Verona 1922-1992) – che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere personalmente a Bordighera un bel po’ di anni fa, in una ‘storica’ edizione dell’ormai leggendario Salone dell’Umorismo, dove fummo entrambi premiati (lui nell’ambito della Letteratura, io in quello del Disegno) – così chiudeva la presentazione del suo prezioso volume “Siamo tutti latinisti” (Rizzoli): “Questo non è un libro che insegna il latino, è un libro che invita al latino: uno stuzzichino per l’aperitivo della mente. […] L’obiettivo è quello di esplorare insieme i segreti e sorprendenti legami che, dopo tanti secoli, uniscono ancora il latino, lingua madre, all’italiano, lingua figlia. Quando una parola latina entra nel nostro lessico familiare, va accolta con gioia. È un antenato che ritorna fra noi, con tante cose da raccontare. Ascoltiamolo. ”.Grazie anche al libro di Marchi, “ascoltare” quel nostro antenato – il latino, appunto – è una mia frequente abitudine. Dovuta, per una certa misura, all’imprescindibile retaggio degli studi classici, ma forse e ancor più ad una sorta di maniacale curiosità e ammirazione. Trovo infatti del tutto miracoloso e sbalorditivo che, perfino in un’epoca come la nostra, fortemente progressista, innovativa e rivoluzionaria (specie nella comunicazione), una lingua antica di oltre duemila anni – e, insieme al greco, data per “morta” – mantenga ancora integro, quando non addirittura insostituibile, tutto il suo vigore espressivo. E lo conserva, con giovinezza straordinaria, non soltanto nel linguaggio per così dire tecnico, quello cioè della burocrazia, della politica, dei tribunali o della Chiesa, ma anche nei nostri comuni discorsi quotidiani. Tant’è che, accanto a curriculum, errata corrige, referendum, una tantum, aula magna, omissis, urbi et orbi o alleluia, noi tutti – correntemente e spesso inconsapevolmente – usiamo parole latine come audio, video, lavabo, album, agenda, promemoria, gratis, extra, junior, senior, auditorium, virus, bonus-malus, eccetera (compreso quest’ultimo).
Il latino, quindi, è ancora e sempre fra noi, altro che lingua morta!La sua resistenza e sopravvivenza si devono alla straordinaria peculiarità di essere “una lingua di cose, non di parole”, cioè netta, concisa, essenziale, determinata, capace di eliminare il superfluo ed ogni altro inutile orpello mentale (esemplare, in tal senso, lo stile sobrio e rigoroso dello storico Tacito, detto appunto tacitiano).“Veni, vidi, vici” (Venni, vidi, vinsi) fu il laconico quanto eloquente messaggio che Giulio Cesare – scrittore eccellente, come si sa, oltre che grandissimo condottiero – inviò a Roma per comunicare la rapida vittoria riportata su Farnace, figlio di Mitridate, re del Ponto. Come ugualmente lapidaria è quell’altra sua celebre frase – “Alea iacta est” (Il dado è tratto) – pronunciata nell’atto di passare il fiume Rubicone, e marciare quindi verso Roma contro Pompeo.Ma sono innumerevoli le ‘massime’ nell’antica lingua di Roma a risultare estremamente efficaci, pur non superando quasi mai le tre parole: da “Audaces fortuna iuvat” a “Castigat ridendo mores”, da “Errare humanum est” a “In medio stat virtus”, da “Dura lex sed lex” a “Est modus in rebus” o a “Homo homini lupus”, fino al massimo della concisione, condensato nel mirabile e insuperabile “Intelligenti, pauca”, che è la più coerente dimostrazione di come, ad una persona intelligente, bastino poche parole. In questo caso, semplicemente due.
Un’altra tipica espressione latina è la locuzione “Tertium non datur” (Il terzo non è dato), nel significato palese che, davanti a un dilemma, esistono soltanto due soluzioni. Tradotto nella pratica, è il concetto filosofico del “terzo escluso”, della scelta obbligata: se nel nostro cammino, in una ipotetica campagna, la strada si biforca in due direzioni, e non si può tornare indietro, dobbiamo necessariamente dirigerci verso destra o verso sinistra. Un po’ come succede in tutte le campagne, e specialmente in quelle elettorali.In definitiva, “Tertium non datur” corrisponde, in italiano, a “I casi sono due”, come appunto recitava un vecchia storiella, in voga fra i coscritti della prima guerra mondiale, così lunga da non finire mai, e che qui comunque ripropongo, sia pure in versione ridotta, per il diletto dei nostri Lettori: “Adesso ti chiamano alle armi – dice un reduce di Caporetto ad un giovanotto in procinto di fare il soldato –, e i casi sono due: o ti fanno abile o ti scartano. Se ti scartano, te ne freghi; se ti fanno abile, i casi sono due: o ti assegnano ai servizi o ti mandano in fanteria. Se ti assegnano ai servizi, te ne freghi; se ti mandano in fanteria, i casi sono due: o ti destinano alle retrovie o ti sbattono al fronte. Se ti destinano alle retrovie, te ne freghi; se ti sbattono al fronte, i casi sono due: o crepi o resisti. Se resisti, te ne freghi; se crepi, i casi sono due: o vai all’inferno o vai in paradiso. Se vai in paradiso, te ne freghi; se vai all’inferno, i casi sono due: o trovi quel boia di Cecco Peppe (l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, N.d.R.) o non lo trovi. Se non lo trovi, te ne freghi; se lo trovi, i casi sono due: o lui impicca te o tu impicchi lui. Se tu impicchi lui, te ne freghi; se lui impicca te, requie all’animaccia tua”.
Che il latino si presti anche a divagazioni umoristiche, è presto detto. A proposito dell’espressione “Ab ovo” (letteralmente: dall’uovo, cioè dalle origini), il poeta Orazio, famoso per le sue Satire, per l’Ars poetica e molto altro, derideva certi poeti e scrittori del suo tempo: i primi (come il ‘terribile’ poeta sardo Tigellio) perché, quando nei convivi si scatenavano nel declamare versi, non la finivano più, recitando ab ovo usque ad mala (dall’uovo alle mele, cioè dall’antipasto alla frutta); i secondi, invece, per le inutili lungaggini e i verbosi antefatti di cui infarcivano le loro opere, anziché trattare subito l’argomento principale. E portava l’esempio della guerra di Troia: “Staremmo freschi – era pressappoco il suo commento – se, per raccontare gli eventi di una guerra durata già dieci anni di suo, qualcuno volesse scriverla ab ovo”, cioè partendo dall’uovo di Leda (fecondato da Giove, trasformatosi in cigno), da cui nacque la bella Elena, causa prima del lungo conflitto tra greci e troiani. Sempre a proposito di donne, ma in questo caso di donne energiche, coraggiose e perfino più combattive di un uomo, il latino le indica col nome di “virago” (non a caso vir significa appunto uomo, e ago, agire). Fra le più celebri “virago” della storia, un posto di primo piano spetta di diritto a Caterina Sforza, madre di Giovanni dalle Bande Nere. Si racconta infatti che, assediata nella rocca di Forlì, ai rivoltosi che le intimavano di arrendersi, minacciando di uccidere i suoi figlioletti presi in ostaggio, la grintosa Caterina abbia respinto sdegnosamente il turpe ricatto, sollevando la gonna, e mostrando ai nemici di possedere lo strumento per produrne altri… Forse non fu elegantissimo, ma ancora oggi il gesto scopre (è giusto il caso di dirlo) la forza di carattere della battagliera nobildonna come meglio non si potrebbe.
Non plus ultra, commenterebbero con la loro impareggiabile stringatezza i nostri padri latini.
E anche noi. Prosit.