13 gennaio 1960: una donna canuta, con un viso bello, nonostante gli 84 anni, su un corpo sformato, giace in un letto di una clinica romana. Vicino a lei il figlio Walter e l’amico Palmiro Togliatti. Una donna che in amore ha donato, in una vasta apertura umana, molto, muore povera e sola “perché nessuno si è mai sentito la forza di arrivare sino in fondo alla sua anima e di sostenerla intera, quella sua anima ricca e veggente”. Per la morte di questa donna Eugenio Montale scrive: “Sopravvissuta a tante tempeste portava ancora in sé, e imponeva agli altri, quella fermezza e quel segno di dignità che erano stati la vera sua forza e il suo segreto”. Questa donna oggi riposa nel cimitero del Verano [area XV, sez 61, grava 52] e sulla sua lapide leggiamo: “Poeta, che credette nel tempo in cui la terra sarà degna del grano, dell’ulivo e della rosa”.
E’ sempre stata bella, anzi bellissima come un’apparizione, ampia fronte, viso regolare con fini lineamenti, gesti calmi e regali, portamento da statua, i capelli annodati dietro la nuca, figura sottile, sguardo profondo. Il suo nome Marta Felicina (Rina) Faccio può non dir nulla, ma l’elegante pseudonimo potrebbe dire molto: è Sibilla Aleramo, l’amata, l’imprevedibile, la ribelle, la femminista militante, la progressista battagliera, l’estroversa, l’emancipata, la mondana e frequentatrice di salotti, in una parola è la “scandalosa” Sibilla. Consapevole della sua bellezza, lasciava sempre il lungo collo tornito scoperto per dar risalto al suo profilo da cammeo, profilo che fu riprodotto, dallo scultore ed amico Leonardo Bistolfi, sulle monete da venti centesimi d’anteguerra, per simboleggiare l’Italia con le spighe in mano. A svelare che il profilo era proprio quello di Sibilla fu una lettera inviata dal poeta Dino Campana a Giacinta, moglie dello scrittore G. Papini. Scrive infatti Campana: “Carissima signora, sarò interamente sincero con lei nella speranza che abbia la pazienza di leggere la mia lettera e non mi abbia dimenticato. Sappia signora che sui ventini di nichel c’è il ritratto (capelli fronte e tempie) di una certa signora più fredda tremendamente e materialmente gelida del metallo stesso”. Chiaramente si riferiva a Sibilla della quale, così come il Papini, era stato suo amante.
Perché Sibilla? Perché in un certo modo era la profetessa della nuova immagine femminile; ciò lo aveva intuito il poeta canavesano Giovanni Cena, col quale ha un lungo rapporto di amore e di convivenza. Le dedicò un sonetto pubblicato in Homo: “Io la scopersi e la chiamai Sibilla, palpita in lei l’umanità futura…”. Sibilla nome poco amato tanto che ne Il Passaggio lei scrive: “Chiara, Letizia, Vittoria. Ed un giorno, sul rovescio d’un dei foglietti dov’io nella notturna pace della pineta gli sussurravo le mie estasi, egli [Giovanni Cena] scrisse “Sibilla”. Nome di mistero, che doveva restarmi, nome nel mio destino, fiero ed altero, nome che non ho mai amato ma che ho portato come dono periglioso, Sibilla, fiorito inconsapevole di sua durata quando un solo mi ascoltava”.
Perché Aleramo? Perché la scrittrice “nata a mezzo agosto in Piemonte” (Alessandria, 14.8.1876 ) proprio in quella contrada, appartenuta ad una potente famiglia medioevale e contesa ai Savoia, che Giosuè Carducci nella poesia Piemonte aveva chiamato “suol d’Aleramo”.
Sibilla Aleramo trascorre la prima infanzia a Milano dove termina le uniche scuole che ebbe modo di frequentare, le elementari, e dove prende sempre più coscienza di sé e della vita, e dove si acuisce il senso della solitudine e dell’inquietudine morale.
Da Milano a Porto Civitanova, “una cittaduzza del Mezzogiorno”, perché il padre, ingegnere appartenente al vecchio ceto borghese, aveva accettato di dirigere una industria chimica. Qui esplode la sua “bella adolescenza selvaggia”, il suo gusto di leggere V. Hugo, Dumas, Manzoni, De Amicis, letture giudicate impegnate ed “eccessive”.
Spunta la simpatia per la classe operaia e un vago senso del femminismo, quella sua “passione severa” per le idee dell’800. Nell’azienda del padre Ambrogio, dove lavorava come segretaria, si compì l’evento determinante della sua adolescenza e che ebbe conseguenze per tutta la vita: la violenza, riparata poi con il matrimonio, da parte di Ulderico Pierangeli, un impiegato del padre. Da quel momento la bellissima Sibilla appartenne ad un uomo che disprezzava e che non amava, fu in balia di un ambiente chiuso in cui una donna aveva solo il compito di procreare. La maternità non le fece riacquistare nell’intenzione la propria dignità. Era il febbraio 1901 e Sibilla Aleramo era già una firma prestigiosa, era già nota per articoletti e articoloni a tendenze socialiste e femministe, a Milano le fu proposta la direzione di “una rivistucola dal gran titolo: L’Italia femminile” alla quale, pur lavorando da casa per volere del marito, impresse un taglio diverso firmando con lo pseudonimo Favilla la rubrica In salotto ed invitava le lettrici a discutere di emancipazione, di movimento femminista e di politica.
Della sua bellezza e dei suoi amori si è sempre scritto molto sino a dare di lei un’immagine di sessuale smoderatezza tanto che Prezzolini critica aspramente questa donna libera e soprattutto intelligente. Questa donna nata non per legarsi ma per donare a coloro che incontrava la sua femminilità fremente fece strage di poeti ed artisti. Credeva nell’amore, che poi è il fil-rouge di tutti i suoi scritti, credeva di trovare nell’amore la comunione d’intenti, la reciproca comprensione e questi numerosi amori per lei sono uno sbocco, un compenso alla giovinezza infelice.
A lei infatti furono legati, per periodi più o meno lunghi i nomi più prestigiosi della nostra letteratura del primo novecento. Da Damiani a Cena, da Cardarelli a Papini, da Gerace a Boccioni e Cascella, da Boine a Rebora a Franchi, da Parise ad Emanuelli, Slataper e Quasimodo. Ma l’esperienza cruciale fu il legame lungo e tormentoso con l’uomo di cui sconvolgerà il già precario equilibrio mentale e che sconvolgerà anche lei: el matt di Marradi, Dino Campana. Dal loro epistolario Un viaggio chiamato amore è stato tratto un film con Stefano Accorsi e Laura Morante per la regia di M. Placido. E per chiudere il suo amore senile per il giovane Franco Matacotta. Ma al di là delle sue vicende amorose Sibilla Aleramo ci è ancora sconosciuta. Con la razionalità del pensiero maschile “anticipava, e i suoi scritti oltre che la sua vita ce ne danno atto, l’intuizione del femminismo più vero per cui una donna è liberata solo quando vive la sua identità senza imitare l’uomo, senza lasciarsi castrare nei sensi e nei sentimenti.” La scrittrice, che all’inizio era socialista, attorno agli anni ’40 fu più predisposta al comunismo, ideologicamente prima, militante poi; per questo fece dono dei manoscritti inediti e della corrispondenza conservata nell’armadio cinquecentesco della sua casa, la fredda soffitta di Via Margutta, 42, al partito comunista nominando esecutori testamentari Togliatti e Ranuccio Bianchi Bandinelli. Tutto il suo lascito è oggi conservato presso la Biblioteca della Fondazione Gramsci di Roma.
E’ il 3 novembre del 1906, quando Marta Felicina Faccio pubblica la sua opera narrativa usciva dalla sua vita e nasceva una nuova personalità: Sibilla Aleramo!
La sua opera prima, Una donna, di natura rigorosamente autobiografica, fu considerata dalla critica rivoluzionaria nel suo genere sia per il contenuto che per la forma. Fu scritta tra il 1902 e il 1904, a Pineta Sacchetti e Roma, anni in cui lei, abbandonato il marito ed il figlio, convive con una figura singolare di letterato e riformatore sociale: il poeta dall’esistenza maledetta, Giovanni Cena, direttore per oltre 30 anni della prestigiosa rivista letteraria Nuova Antologia, ed è con il suo incoraggiamento che Sibilla scrive un primo canovaccio, rivisto ed amputato in alcune parti dallo stesso Cena. L’opera colpisce nel leggerla perché non ci sono nomi né di persona [i personaggi sono chiamati con il ruolo che ricoprono: madre, figlio, marito…] né di luoghi e il titolo con l’articolo indeterminativo è semplice e molto generico. Forse nelle sue intenzioni era di rendere la storia una come tante e denunciando la condizione femminile rivendicava la parità tra i sessi e da decisa femminista afferma che la donna è “più presso alla vita di quel che non sia l’uomo” e da lui si differenzia per integrarlo e quando la donna l’avrà capito “l’uomo superbo di sentirsi vivo solo quando pensa, si volgerà verso me pensosa d’amore e valorizzerà infine questa che egli ha creduto sempre soltanto forza oscura…”. Sta di fatto che Una donna, rifiutato dagli editori Treves e Baldini & Castoldi fu pubblicato da Sten, ottenne un successo incredibile e fu recensito positivamente dagli eminenti critici letterari dei primi anni del secolo breve: Ojetti scrisse sul Corriere della Sera : “questo libro è sincero è crudele è modernissimo”. Dopo la sua recensione il libro, suddiviso in XXV capitoli, costituì un vero e proprio caso letterario. Pirandello, invece, sulla Gazzetta del Popolo ebbe a scrivere: “pochi romanzi moderni io ho letti che racchiudano come questo un dramma così grave e profondo nella sua semplicità e lo rappresentino con pari arte, in una forma così nobile e schietta, con tanta misura e tanta potenza”.
Arturo Graf su Nuova Antologia sottolineò che “è un libro degno di alterezza di esecrazione di giustizia e di castigo”. Forse Pirandello e Graf avrebbero preferito “una soluzione interamente plausibile, la fuga di lei insieme col bambino”, mentre Bontempelli, un anno dopo l’uscita del libro, sul Grido del Popolo concordava con l’Aleramo: “E’ di una precisa e profonda verità psicologica ed io vi sento una vastità d’orizzonti che non ho saputo penetrare bene ancora, né forse saprò date le mie scarse conoscenze in materia di idealità e lotte femministe ma tuttavia ne sento l’efficacia artistica molto bene”. Nel 1950 l’editore G. Feltrinelli invita un critico di grande misura a scrivere l’introduzione alla ristampa del romanzo: Emilio Cecchi, che finora aveva taciuto sul romanzo, 44 anni dopo con una recensione dalle linee pacate e classiche riconosce la statura superiore alla media di questo libro: “Devo ammettere che Una donna ha un accento, una forza di convinzione tutta speciale. Questo romanzo ci venne da una scrittrice giovanissima, autodidatta venuta su un cantuccio di provincia…Una donna non può che raccontare la via Crucis della sua solitudine, che per ragioni ogni volta diverse è poi simile a quella di tante altre creature”
Due anni dopo, (1908), la casa editrice francese di Calmann-Levy, su suggerimento del premio Nobel per la letteratura Anatole France, pubblica il romanzo con la traduzione di Pierre Paul Plan e poi in Germania con la prefazione di Georg Brandes. Negli anni a seguire fu pubblicato in inglese, spagnolo, svedese, polacco e russo con un’ottima critica di Maksim Gor’kij. Era certamente destinato ad essere il primo romanzo della nostra letteratura femminile circondato dallo scandalo, e se da un lato poteva sembrare una rivendicazione di indipendenza, di libertà allo stato puro dall’altro fu invece una coraggiosa confessione, un romanzo d’amore e di dolore, straziante e creativo, spietato e sensibile.
Con Casa di bambola di Ibsen, alla quale fa riferimento Una donna, non è considerato solo come la “Bibbia del femminismo”, ma un testo fondamentale dell’ideologia femminista, un documento storico e attuale nello stesso tempo, ma è soprattutto un’opera d’arte che suscita interesse, critiche, discussioni, pregiudizi.
Alla base del romanzo vi è la difficile storia personale, imperniata su un matrimonio mal contratto, a non voler accettare un marito geloso che a 15 anni l’aveva violentata, che la picchiava, che le impediva di affacciarsi alla finestra o di uscire da casa. Solo l’amore per il figlio “povero piccolo palpitante cuore” le dà la forza di sopportare il marito “inutile ed estraneo” alla sua vita, amore che frena il desiderio di essere libera ma alla fine è l’amore verso se stessa a vincere. Sibilla ha sempre rifiutato con fermezza il ruolo storicamente tradizionale della donna, “la cura empirica dei figliuoli, la cucina e la chiesa”, per cui decide di abbandonare il marito ed il figlio. Queste rinunce non fermano la strada della costruzione di una nuova personalità non soggetta a doveri e pregiudizi. Scelta difficile e sofferta la sua, che fece molto discutere, ma lo fa per riscattare la propria dignità “con la convinzione (come scrive Bontempelli) che anche la donna ha diritto di dar un compiuto svolgimento alla propria individualità, a questa convinzione ella sacrifica quell’amore, e si lascia separare dal figlio”. Questo abbandono da molto spessore al romanzo, certo non fu un caso se con la sua pubblicazione nacque una vivace discussione attorno ad esso. Molti hanno sottovalutato il valore letterario per concentrarsi sul gesto, sulla decisione finale di abbandonare il marito e staccarsi dal figlio. Donna libera quando i costumi imponevano di essere sottomessa all’uomo (padre, marito, figli), donna libera “oltre che dalle convenzione, dalla retorica e dal pregiudizio dell’ideologia e della politica”, vissuta senza proibizioni e “per questo rappresenta una pericolosa forza eversiva che non può essere rinchiusa in nessuna cornice e catalogata con nessuna etichetta”. Sibilla Aleramo nella sua copiosa produzione ha un continuo rinnovamento di modi, una femminilità ricca e appassionata, espressa con chiarezza impetuosa ed audace, non può essere misurata col metro della morale, e bisogna comprendere che i valori dell’amore non sono di certo inferiori a quelli della razionalità e dell’ordine. E Sibilla, che era riuscita a ritagliarsi un ruolo nella scena culturale a cavallo tra i due secoli, lo aveva intuito se nel 1950 scriveva in una delle poesie: “Incinta sono di te, donna che vivrai sul domani del mondo”.
Intendeva forse questo mondo? Credo di no.