Generalmente era un monolocale in cui vivevano ammassate anche dieci o più persone
La casetta dei contadini d’un tempo
Pur tra tanta povertà e promiscuità l’amore faceva da collante e da stimolo
di Emilio Rubino
Descrivere la casetta dei contadini dei tempi andati non è affatto semplice, anche perché si prova un certo senso di imbarazzo e, forse anche, di vergogna nell’entrare nei dettagli.
Più che di una casetta si trattava di una stamberga, di un tugurio, di una catapecchia.
Nel suo interno vi erano pochissimi comfort e molti disagi e scomodità.
Spesso era costituita da un unico vano, con annesso uno stanzino, dove trovava sistemazione il vaso da notte, il cosiddetto càntaru. Per le famiglie che non potevano disporne, l’aggeggio trovava collocazione in un angolo dell’unica stanza. Va comunque aggiunto che, a prima mattina, dopo che i maschi s’erano recati al lavoro, passava per le strade cittadine un asinello che a passo lento trascinava un carretto con un grande contenitore zincato, in cui le famiglie svuotavano i loro recipienti stracolmi di residui biologici. L’addetto municipale ogni venti-trenta metri si lasciava andare al grido di “Sta ppassa lu somarinu, pe’ cci lu tene chinu!” (Sta passando il somarino per chi ce l’ha pieno). Ed allora da ogni casa le donne aspettavano su “llu limbatale de la porta” (sulla soglia di casa) l’arrivo del trabiccolo per svuotare il proprio càntaru.
La maggior parte delle casette era composta da un solo vano nel quale vivevano ammassate in media 7, 8 o più persone.
A quei tempi, le famiglie numerose costituivano la regola. Il numero dei componenti era inversamente proporzionale alla miseria delle stesse: quanto più figli nascevano tanto meno povere erano le famiglie. Infatti quante più braccia (lavorative) vi erano in casa, tanto più apporto economico vi era in famiglia. È ovvio che in una famiglia con poche braccia maschili, la miseria era pienamente tangibile.
Un solo vano, quindi, raramente due, doveva essere sufficiente per tutti i componenti, maschi e femmine, grandi e piccoli: i piccini per vivere e giocare, gli uomini solo per riposare dopo le lunghe ore di lavoro, mentre le donne per accudire alle numerose faccende casalinghe.
Per una famiglia media in una casa tanto piccola, l’arredamento doveva essere assai semplice: una panca che, all’ora dei pasti, accoglieva capienti piatti, ognuno dei quali serviva per 2-3 persone; alcune sedie solitamente impagliate ma anche sgangherate; un rustico mobile dove riporre terraglie, bicchieri e qualche altra stoviglia; un comò ove sistemare la poca biancheria (e non solo); un piccolo armadio per conservare i pochi vestiti della festa.
L’aspetto che più dava all’occhio era rappresentato dalle numerose brande, da ripiegare durante il giorno confinandole in un angolo della casa ed un letto matrimoniale composto da alti cavalletti, solitamente in ferro, su cui poggiare “le tàvule” e quindi il saccone. Laddove non vi fossero brande, vi era un aggeggio molto basso, chiamato cariola (una specie di letto supplementare), che di giorno era riposta sotto il letto principale, mentre di notte veniva tirata fuori (aveva delle rotelle per i quattro angoli) e posta in un angolo utile della casa. Questo mobile era presente in ogni misera casa di Nardò, Galatone ed anche, ma non sempre, di Galatina.
In un angolo della stanza vi era un camino rustico (“focalire”) per cuocere i pasti e per riscaldarsi di sera nelle fredde giornate invernali. Le donne si sistemavano intorno al focalire per rammendare e lavorare a maglia, discorrendo del più e del meno, ma anche per pitteculisciare e mmalangare (spettegolare e dir male) di qualche vicino di casa o parente. Poco prima di cenare, si raccoglievano in preghiera per raccomandare la propria famiglia a Dio.
Un ripostiglio accoglieva più di un contenitore, solitamente “capase” di terracotta, smaltate internamente, in cui erano riposti fichi secchi (gustoso ed energetico alimento dei poveri, oggi, invece, rara e pregiata leccornia) o leguminose (fave, ceci, fagioli, piselli, ecc.) o anche vulie (olive) sotto sale, peparussi (peperoni), marangiane (melanzane), pampasciuni (bambagioni) e giardiniera (un misto costituito da melanzane, capperi, peperoni, menta, basilico, il tutto sottaceto).
Poi, a sera, dopo una frugale cena, tutti a nanna: marito e moglie negli intimi trastulli con gli immancabili scuotimenti rumorosi del letto matrimoniale, ove dormiva qualche bimbo; altri figli su singole brande, altri ancora sulla “cariola”. A quei tempi non esistevano le borse d’acqua calda, bensì le ‘bottiglie d’acqua calda’, sempre che ce ne fossero. In alcune famiglie si usava lo “scarfaiettu” (scaldaletto), un recipiente cavo di rame o zinco con un lungo manico di legno, dentro cui si mettevano carboni ardenti per riscaldare il letto.
In alcune famiglie, esattamente in quelle molto numerose (10-12 in tutto), pur abitando in un solo vano, spesso si riusciva a ricavare per necessità un soppalco di legno, sul quale dormivano, sempre su brande di fortuna o su sacconi stesi per terra, i figli maschi, mentre alle figlie era riservato un quarto della stanza, delimitato da apposite tende per garantire una certa intimità. In casi estremi si utilizzavano anche i cassettoni del comò per sistemare i più piccoli (al massimo un paio), mentre l’eventuale neonato prendeva posto o in mezzo ai genitori, oppure nella “naca”, una sorte di piccola amaca appesa al tetto, a poca di distanza dai genitori, in modo da dondolarla nel caso in cui il piccolo piangesse.
La casa, se pur piccola, era piena di tanti utili recipienti, come un limbu per lavare gli indumenti spiccioli o un limbone, ove si lavavano gli indumenti, come lenzuola, asciugami e quant’altro, un paio di menze per trasportare l’acqua dalla fontanina a casa, la limba, un piccolo recipiente per le rare abluzioni, il bacile per lavarsi la faccia. Accanto al focalire vi erano i vari recipiente per cuocere i cibi.
A prima mattina i maschi facevano una frugale colazione a base di pane, cipolla e pomodoro, dopodiché andavano a lavorare in campagna a sciurnata (a giornata), ottenendo una paga che solitamente era di 1 lira. La giornata lavorativa era costituita da 10 o più ore, intermezzata da una trentina di minuti per consumare la pagnotta e bere qualche sorso d’acqua ma mai di vino. Nella pagnotta vi erano diversi intingoli preparati dalla moglie.
Intorno alle 16.00, stanchi morti se ne tornavano a casa.
Non tutte le donne rimanevano in casa. Alcune frequentavano gratuitamente la “mescia” per imparare il mestiere. I bambini erano costretti, ma non in tutte le famiglie, ad andare a scuola per imparare quanto meno a leggere e a scrivere.
Per cena si mangiava della verdura agreste, raccolta da qualche familiare lungo le stradine di campagna o dei legumi cotti alla pignata (pignatta) nel focalire. Di domenica in famiglia si usava (ma non sempre) mangiare la pasta fatta in casa, condita con salsa di pomodoro, basilico e, solo nelle ricorrenze speciali, con qualche gradita polpetta.
D’inverno, intorno alle sette-otto serali, tutti si predisponevano a dormire, mentre d’estate intorno alle nove, con il sole già calato all’orizzonte.
In questo ristretto ambiente, molto spesso umido e quasi sempre annerito dal fumo del “focalire”, si svolgeva la vita familiare, in una perenne promiscuità, diurna e notturna.
Una vita senza futuro, con poche misere certezze e nella speranza che i maschi stessero bene in salute per portare a casa “spiccioli di felicità”, necessari a condurre una vita di sussistenza.