RIPARTIRE
Dopo la pandemia il sistema Italia cerca faticosamente di ritrovare un suo equilibrio
di Giuseppe Magnolo
La vita e l’archetipo del viaggio. Sia il divenire umano che l’esperienza individuale hanno bisogno di essere definiti nel tempo e nello spazio. Occorre sempre contestualizzare la realtà vissuta, stabilendo un prima e un dopo. Non tanto per creare semplicemente una prospettiva episodica di quanto è accaduto, ma per fissare dei punti fermi lungo una linea evolutiva pensata e perseguita, sia individualmente che collettivamente, con un disegno che rispecchia una qualche volontà di realizzazione. A volte tuttavia dobbiamo constatare che il nostro itinerario di vita presenta delle pause forzate, che scaturiscono da eventi straordinari, imprevisti e destabilizzanti. Avviene per circostanze fatalmente distruttive, quale può essere un disastro dovuto a cause naturali come un’alluvione o un terremoto, oppure per l’insorgere di un grave problema di salute, che mette a repentaglio la possibilità di sopravvivenza. Il risultato è comunque un effetto di sbandamento che fa vacillare qualunque precedente proposito, mettendo in discussione e precarizzando qualsiasi iniziativa. Finché non si decide che è tempo di ripartire, naturalmente con motivazioni diverse, ridimensionando gli obiettivi da perseguire e magari inventandone di nuovi.
Il tempo sospeso tra la paura e la pietà. L’effetto Coronavirus non è di quelli che si cancellano facilmente. Anche volendo, è difficile rimuovere il ricordo desolante di strade deserte, prive di qualunque presenza umana e unicamente attraversate da cani randagi, come non accadeva da tempo immemorabile. Non ci abbandona il ricordo della paura di essere esposti al contagio, la percezione fisica della morte in agguato inesorabile, le temute notizie di focolai poco distanti dal nostro luogo di residenza, con l’attenzione ossessivamente rivolta al numero di vittime e di infezioni per ogni singolo centro abitato, in una gara al ribasso che si sperava potesse dare tregua ai rischi incombenti. E ancora lo sgomento generato dai casi di ineludibile trapasso, consumato in una forma segregata e abnorme quale mai si sarebbe potuta immaginare, con un effetto traumatico che ci ha colpito attraverso la scomparsa di persone vicine, oppure lontane ma ben note, che non hanno avuto scampo e neanche hanno potuto ricevere un estremo saluto con delle esequie dignitose. Nelle fasi di picco dell’epidemia abbiamo visto l’incredibile: bare anonime portate chissà dove da autocarri militari. Peggio che in uno stato di guerra, in cui almeno è possibile rendere ai morti l’onore delle armi. Quasi un ritorno al più cupo Medioevo, con le sue pestilenze spesso arrivate al seguito di milizie mercenarie, che falcidiavano popolazioni inermi ed esposte senza alcuna possibilità di cura tranne il fuoco e la calce viva come unica arma di contenimento per l’infezione. Il senso del pericolo permane e con esso si rinnova la paura e la pietà, anche se ora si fa finta che niente di particolare sia accaduto e che vivere significhi soltanto guardare avanti.
Lock down, desiderio di evasione e negazionismo irresponsabile. Il diffondersi dell’epidemia ha cambiato profondamente qualunque precedente consuetudine. Tutte le circostanze che tradizionalmente rappresentavano delle opportunità per il contatto e la socializzazione sono d’improvviso diventate pericolose occasioni per la diffusione del contagio: lo stare insieme a scuola, in chiesa, al supermercato, in un luogo di ritrovo come un ristorante o un locale di spettacolo, sono state tutte considerate attività illecite e da contrastare con ogni mezzo. Il nuovo mantra si chiama “distanziamento”, una imposizione forzosa senza remore né eccezioni, con gli inevitabili effetti non solo fisici, ma soprattutto psicologici, che ne sono derivati. Il non potersi toccare e neanche avvicinare ha generato inevitabilmente un senso di alterità, l’abitudine ad essere scostanti, ad assumere atteggiamenti di rifiuto rispetto al vicino o al conoscente. Questo rinchiudersi in un guscio di distanza ed elusività ha generato isolamento e immancabile frustrazione. Anche i conseguenti tentativi sporadici di tornare alla consueta movida ante Coronavirus, appaiono più che altro il risultato di una inarrestabile spinta trasgressiva, una reazione naturale al precedente stato di immobilismo. Ad alimentare questi comportamenti scomposti e irrazionali ha anche contribuito il negazionismo irresponsabile adottato da alcuni capi di stato (in primis l’americano Donald Trump, seguito a ruota da altri scriteriati come il brasiliano Jair Bolsonaro e l’inglese Boris Johnson), che more solito hanno continuato a coltivare l’espediente di ammannire ai loro elettori quello che essi gradiscono sentirsi dire per essere rassicurati, anziché riferire dati reali sull’evoluzione della pandemia con il crescente numero di decessi e di contagi. Da anni ormai constatiamo che i politici cospargono di fake news la loro ricerca di facile consenso. Ma in questo caso le conseguenze sono state davvero esiziali.
Cosa abbiamo imparato dall’epidemia? Qualche commentatore ha provato a chiedere a sociologi ed epidemiologi se, ammesso che la pandemia in Italia sia davvero finita senza presentare ulteriori strascichi nei mesi a venire, nella situazione di tregua che attualmente registriamo siamo usciti migliori o peggiori da questa dura esperienza. In sostanza la domanda è: il travaglio sofferto ci ha insegnato qualcosa che può correggere o migliorare i nostri comportamenti futuri? La prima osservazione in merito è che la popolazione italiana ha dato prova di grande responsabilità e disciplina nel seguire le direttive anti Covid 19 (lock down, distanziamento, uso di mascherina, ed altri accorgimenti del caso). Altrettanto si può dire per la pazienza con cui si sono affrontate le complicate situazioni, a volte davvero estenuanti, createsi per lo svolgimento di attività altrimenti normali, come fare la spesa, farsi prescrivere un farmaco, recarsi in banca o in un ufficio postale. Sul versante scolastico uno sforzo immane è stato richiesto per la realizzazione della didattica a distanza, seppur con risultati di non omogenea efficacia, che si spera possano migliorare nella prossima ripresa autunnale di attività nelle aule scolastiche. Ma riflettendo in senso più generale, si deve constatare che la natura umana, per quanto disposta ad adattarsi a temporanei cambiamenti imposti dall’emergenza, alla lunga non muta sostanzialmente i suoi comportamenti di fondo. Certamente alcune cicatrici tarderanno a rimarginarsi. Per esempio si avverte ancora un diverso rapporto con il cibo e gli approvvigionamenti (ricordiamo gli scaffali vuoti), la perdita del lavoro per la chiusura di molte attività ha creato problemi economici seri che perdurano in molte famiglie, le chiese del tutto deserte hanno impedito qualunque pratica religiosa incluse le feste patronali con le loro luminarie, mentre tutte le attività di svago o ristorazione, rimaste bloccate per mesi, tardano a riprendersi. Per contro la condizione di isolamento in molti casi ha consolidato i rapporti nello stretto ambito familiare, mentre Internet ha permesso di mantenere i contatti a distanza e magari scoprirne di nuovi. Sicuramente la pandemia ha reso più evidente la nostra condizione di vulnerabilità, minando in modo irreparabile la convinzione diffusa che ciascuno di noi, all’occorrenza, sia in grado di tutelare adeguatamente la propria capacità di sopravvivenza.
Le falle della sanità pubblica. Uno degli effetti più importanti prodotti dall’epidemia è stato quello di rendere vistosamente percepibili alcune carenze presenti nel sistema sanitario italiano, nonostante il suo riconosciuto livello di qualità, decisamente superiore rispetto a molti altri paesi sia in Europa che altrove. Tra le difficoltà più urgentemente avvertite vi è stata innanzitutto la discrasia tra la rilevanza nazionale delle problematiche connesse alla pandemia e l’attribuzione delle competenze decisionali sulla sanità alle regioni, con conseguenti contrasti tra governo centrale e realtà periferiche. Ma ancora più gravi si sono dimostrate le vistose falle prodotte per anni proprio in regioni ritenute all’avanguardia nell’organizzazione dei servizi sanitari, per esempio in Lombardia, attraverso lo smantellamento progressivo della sanità pubblica per favorire quella privata e il ridimensionamento di molte strutture di base, che si sono rivelate inadeguate di fronte all’incalzare del Coronavirus. Gli strascichi giudiziari sulle responsabilità e le inadempienze di alcuni politici e funzionari pubblici (gravissima la mancata dichiarazione di “zona rossa” per alcuni centri divenuti focolai di contagio) hanno gettato ulteriore discredito su alcune figure istituzionali, che sulle sciagure della gente comune tentano di costruire le proprie fortune elettorali e non solo. Il che purtroppo non è una novità. La figura del politico tuttologo è un cliché consueto nel panorama italiano. Quella del politico che si improvvisa virologo (in barba alla competenza!) può a volte esporre al ridicolo, ma come procacciatore d’affari funziona ancora abbastanza. E sembra quasi paradossale che, proprio per effetto del Coronavirus, per una volta l’arretratissimo Sud d’Italia si sia trovato in posizione di vantaggio rispetto all’elevata mobilità dell’efficientissimo Nord, grazie alla sua minore esposizione ai rischi di contagio. Qualche ulteriore riflessione al riguardo non sarebbe inopportuna.
Ripartire come. Se la metafora del viaggio in qualche modo ci appartiene anche dopo una lunga sosta obbligatoria, bisogna pensare che ogni punto di arrivo può diventare occasione per una nuova partenza. Come viandanti in cammino sui sentieri della vita, siamo cresciuti culturalmente vedendo nel mito di Ulisse l’espressione delle massime aspirazioni umane: la sfida dell’ignoto unita al gusto dell’avventura e alla sete di conoscenza. Ma quel mito può apparire poco esaltante quando il nostro eroe ha perso il suo pieno vigore fisico e si ritrova lungo il viale del tramonto, demotivato e con pochi seguaci, incerto su quale possa essere la sua destinazione futura. Allora la sua condizione esistenziale diventa analoga a ciò che ora anche noi stiamo vivendo dopo la prova devastante del Covid 19. Il dilemma per l’Ulisse non più giovane e aitante è scegliere tra l’inerzia rinunciataria del rifugio presso il focolare domestico, e la necessità di un adattamento ad una sortita di ripiego, possibilmente una traversata di piccolo cabotaggio, che non esponga a grandi rischi e gli consenta di chiudere il suo tempo sentendosi ancora vivo e proteso verso la realizzazione di uno scopo. È in questo modo che può nascere e alimentarsi la convinzione che c’è sempre spazio per quello che noi potremo chiamare l’ “ulissismo di ritorno”, che non è una pia illusione, bensì il desiderio di guardare ancora in faccia la realtà senza cedere alla rassegnazione, con la resilienza e la determinazione di chi sa di poter avere dei traguardi da perseguire. Senza dimenticare che potremo contare anche su quel tanto di maggiore saggezza derivata da una esperienza amara e sofferta. Il che forse non basta, ma almeno permetterà di porre rimedio a qualche errore del passato, nella consapevolezza che nelle fasi di ricostruzione le organizzazioni malavitose saranno pronte a sfruttare la permeabilità dello stato grazie alle loro connivenze e alle enormi risorse di cui dispongono. Come pure non ci sarà molto da illudersi che a livello comunitario europeo le spinte solidaristiche innescate dal Coronavirus riescano a neutralizzare il potere di veto dei paesi nordici (i falsi “frugali”) e il loro supponente rigorismo, egoisticamente propagato all’insegna dell’ “ognuno pensi per sé”. Con buona pace di Ventotene e dei padri fondatori dell’Europa.
Le priorità. Nel clima di profonda incertezza che ora viviamo, tre sono le direttrici che dovrebbero orientare l’azione di chi è chiamato a provvedere alla ricostruzione. In primo luogo c’è quella sanitaria, dato che il virus non dà tregua sia su scala mondiale che per i focolai innescati regionalmente dall’apertura delle frontiere e i minori controlli sulla circolazione di viaggiatori provenienti dall’estero. Ma non meno probanti saranno da un lato il rilancio dell’economia derivante dagli aiuti europei (MES e Recovery Fund), e dall’altro la ripresa dell’attività scolastica con la didattica in presenza, che dovrebbe appianare le disparità createsi con l’insegnamento a distanza dei mesi scorsi, che ha penalizzato seriamente le fasce sociali più deboli della popolazione. Per quanto concerne infine la classe dirigente del nostro paese, è molto difficile che essa sappia ritrovare le giuste motivazioni per superare, come avvenne all’indomani del secondo conflitto mondiale, gli interessi di parte per affrontare i problemi con animo responsabile e spirito costruttivo. Alcuni paesi l’hanno fatto (Portogallo docet). Dovrebbero farlo anche i politici italiani, dando prova di lungimiranza e senso dello stato.